giovedì 31 luglio 2014

Una leggenda "nera" del Mezzogiorno: il cardinale Fabrizio Ruffo. 2. Da cardinale a Vicario

Il periodo romano fu caratterizzato dalla nomina del Ruffo, il 17 settembre 1767, a Referendario delle due Segnature da parte di papa Clemente XIII, dopo essere entrato in Prelatura, riavvicinandosi in questo modo al suo maestro Angelo Braschi, l’allora Tesoriere Generale della Reverenda Camera Apostolica.
I destini di questi due uomini viaggiarono insieme per un lungo tratto di strada: infatti, Angelo Braschi, eletto papa nel 1775 con il nome di Pio VI, dapprima lo riconfermò Referendario delle due Segnature, poi, nel 1781 lo nominò Chierico di Camera, ed, infine, nel 1785 gli affidò l’incarico che dal 1773 era stato del cardinale Guglielmo Pallotta, ovvero quello di tesoriere Generale.
Determinato a cimentarsi in questa nuova sfida, il Ruffo era, però, consapevole del contesto interno ed internazionale, tanto che l’incertezza vigente avrebbe potuto paralizzare l’attuazione delle riforme. Tra il 1785 e il 1792 cercò di attuare pienamente il suo programma, distinguendosi da quanti lo avevano preceduto, in quanto questi ultimi avevano ritenuto prioritaria la questione monetaria rispetto a tutte le altre incombenze che tale compito richiedeva. Il 1786 fu banco di prova per il Tesoriere Ruffo che dovette occuparsi della diminuzione della carta moneta. Con l’editto del 17 gennaio egli istituì un «monte di porzioni vacabili pel valore di un milione e mezzo di scudi», che doveva far si che le cedole in circolazione si estinguessero.
Inoltre, il suo impegno fu anche volto ad ultimare i lavori di bonifica dell’agro pontino e a rendere più praticabile la navigazione del Tevere e dell’Aniene: con l’editto del 17 gennaio 1792, infine, si procedette anche ad incentivare l’uso di nuove tecniche che avrebbero reso le operazioni più veloci e meno costose. 
Una delle prerogative che l’incarico di Tesoriere offriva al Ruffo era quella di occuparsi della difesa dello Stato. Egli era consapevole della necessità di una riorganizzazione dell’esercito e di una fortificazione dei presidi più importanti e dispose nuove misure che facilitassero il compito degli artiglieri nei momenti cruciali delle battaglie. Infatti, potenziò gli armamenti munendo le fortificazioni di «fornelli, che davano maggiore facilità a prendere le palle infuocate, ed imboccarle con minor pericolo ne’ cannoni», attirando su di sé l’interesse e l’ammirazione del sovrano del Regno di Napoli, il quale inviò nello Stato Pontificio due osservatori che avrebbero avuto modo di apprezzare l’ingegno e la tecnica con cui tali innovazioni erano state realizzate. 
Essendo egli stato nominato il 29 settembre del 1791 Cardinale dell’Ordine dei Diaconi (anche se tale nomina fu resa nota solo nel febbraio del 1794) si rendeva conto delle difficoltà che avrebbe incontrato nel far parte dei nuovi ingranaggi della macchina statale, destinata, però, ad essere più lenta ed inefficiente. I suoi nemici all’interno del governo presero il sopravvento e al dimissionario Tesoriere non restò altro che cominciare a pensare quali sarebbero state le sue mosse successive. Il pontefice, in effetti, gli aveva dato il Titolo di S. Angelo in Pescaria e i Titoli di Santa Maria in Cosmedin (lo stesso titolo era stato dato all’antenato cardinale Pietro Ruffo di Calabria) e di Santa Maria in Via Lata, ed era quella la prova che Pio VI non lo aveva nominato cardinale per sbarazzarsene da Tesoriere.
Non si conoscono le ragioni dell’invito fatto al Ruffo dal re di Napoli Ferdinando IV di recarsi nel Regno e di trasferirvisi. Forse l’ingerenza dei fratelli, che ricoprivano al cospetto del sovrano alte cariche pubbliche, in virtù del loro rammarico nei confronti delle ristrettezze economiche in cui era costretto a vivere il loro congiunto, oppure una chiamata che celava dietro di sé una propensione ad avviare anche nel Mezzogiorno un processo di riforme, diventato indispensabile a fronte del malcontento regnicolo.
Comunque, il cardinale accettò la proposta di Ferdinando IV di recarsi a Napoli e di stabilirvisi definitivamente. Egli andò ad abitare presso il fratello maggiore Vincenzo, che nell’anno successivo sarebbe stato insignito del titolo di Duca di Bagnara. La presenza del Ruffo a corte pareva non essere molto gradita all’allora primo ministro John Acton, che accolse con un certo sollievo la decisione del cardinale di accettare l’Intendenza di Caserta e la ricca Abbazia di Santa Sofia di Benevento. 
Nel febbraio del 1795 Fabrizio Ruffo si recò a Caserta per occuparsi delle manifatture di San Leucio. I quasi quattro anni che ivi vi trascorse furono estremamente fecondi, in quanto egli ebbe l’occasione di dedicarsi agli studi di economia e di affinare le sue teorie sull’organizzazione e sul governo di uno Stato moderno. Il cardinale, inoltre, ebbe modo di applicare delle innovazioni non solo in merito all’amministrazione, ma anche alla produzione, dando una svolta significativa allo sviluppo agricolo e industriale dell’area. 
Inoltre, il Ruffo fu insignito del titolo di Gran Promotore della reale Arcadia Sebezia e venne considerato uno dei componenti di spicco del movimento, tanto che la sua spedizione finalizzata alla riconquista del Regno di Napoli all’indomani della proclamazione della Repubblica Napoletana del 1799 fu seguita e sostenuta con ardore dalla Società letteraria.
Le settimane che intercorsero tra lo sgretolamento dell’esercito (e dunque della politica antifrancese) e la fuga del re verso la Sicilia furono decisive per il cardinale che, in quel frangente, maturò le sue ambizioni di riconquista, anche a fronte della concreta possibilità di ricoprire un ruolo determinante nella vicenda. Il 14 gennaio Fabrizio Ruffo giunse a Palermo, dove i sovrani  non avevano ancora ideato un piano per risollevare le sorti della Corona, che appariva ormai schiacciata dagli eventi, ma anche dall’incapacità di mettersi alla testa di un esercito per scacciare definitivamente dal Regno i francesi e i loro proseliti. Il cardinale si rese subito conto dell’immobilismo che si respirava a corte e provò ad inserirsi nel gioco delle parti proponendo un’azione di riconquista del Regno che avrebbe beneficiato dell’apporto della Religione presso le masse. 
Infatti, il 25 gennaio Ferdinando IV decise di accordare la propria fiducia al Ruffo (anche se le possibilità di riuscita dell’impresa in quei frangenti apparivano quasi nulle), affidandogli il grado di Commissario Generale e Vicario Generale del Regno. 

lunedì 28 luglio 2014

Una leggenda "nera" del Mezzogiorno: il cardinale Fabrizio Ruffo 1. Giovinezza

Da Letterio Ruffo di Bagnara e Giustiniana Colonna nacque Fabrizio Ruffo il 16 settembre 1744.
All’età di quattro anni Fabrizio fu portato a Roma per essere educato sotto gli auspici del proprio cardinale decano Tommaso, alla cui corte stavano allora il cardinale Antonio Ruffo, suo nipote, don Giacomo Ruffo e Moncada, suo cugino secondo, e Tiberio Ruffo, nipote del cardinale Antonio e suo pronipote».
All’età di quattordici anni Fabrizio entrò nell’esclusivo Collegio Clementino, pur ritornando per brevi periodi in Calabria dove ad attenderlo trovava i genitori e le sorelle. Precettore di Fabrizio fu Monsignor Angelo Braschi, al quale il cardinale Tommaso aveva lasciato, al momento della morte, una cospicua somma di denaro, che il futuro Pio VI tenne in considerazione nella scelta dei componenti la famiglia dei Bagnara per le cariche di una certa rilevanza politica. Fabrizio eccelleva nelle scienze fisiche ed economiche e si laureò anche in Giurisprudenza nell’Università La Sapienza il 16 febbraio 1767 (per un certo periodo il giovane Fabrizio aveva frequentato lo studio degli avvocati Bucci e Gasparri), evitando, volutamente, di studiare il diritto canonico. Durante gli anni del Collegio Fabrizio era stato ordinato Diacono, ma non volle compiere il passo successivo, deludendo, così, le aspettative di monsignor Braschi, il quale in seguito non avrebbe mancato di rimproverarlo anche divenuto pontefice. I loro rapporti furono molto logorati da quella scelta di campo di Fabrizio.










venerdì 25 luglio 2014

Palazzo Terzella di Tramutola e l'associazione Al Varco

Le case palazziate, come spesso abbiamo avuto modo di verificare nei nostri post, sono un eloquente esempio di autorappresentazione da parte dei gruppi dirigenti locali. Questo è tanto più vero nei "microcosmi" politico-istituzionali della Basilicata, anche se tali palazzi rischiano spesso di cadere, letteralmente, preda dell'oblio. Forse è il caso di Palazzo Terzella a Tramutola, nell'alta valle dell'Agri. Residenza gentilizia seicentesca edificata lungo via Vittorio Emanuele a Tramutola e di proprietà di famiglia benestante, Palazzo Terzella fu acquistato dal Comune sul finire degli anni Novanta del Novecento, per circa 600 milioni di vecchie lire. Destinato inizialmente ad un Centro di Musicologia da dedicare al musicista Vincenzo Ferroni, grande compositore tramutolese operante sul finire dell'Ottocento alla Scala di Milano, il palazzo è stato con il tempo abbandonato a se stesso e in breve l'incuria del tempo ha fatto il suo corso. 
Esempio della ricchezza autorappresentativa dei Terzella è, appunto, il bellissimo portale in pietra decorato da cornici e la presenza di volte affrescate nell'androne.
Da qualche mese, il palazzo è tornato a nuova vita grazie all'associazione tramutolese "Al Varco", un’associazione di promozione sociale istitutita con l’obiettivo di costruire un percorso di esplorazione creativa ed innovativa dello spazio, valorizzando il legame psicologico e sociale che gli abitanti hanno con esso sia sul piano simbolico che fisico. L’associazione pone la cultura, il networking e lo sviluppo turistico nazionale ed internazionale come motore di una nuova socialità, di costruzione di un tessuto solido di relazioni, incontri e scambi culturali atti alla trasformazione del modo di percepire e vivere i luoghi del territorio, incentivandone lo sviluppo innovativo nel rispetto delle tradizioni.
Il recupero del Palazzo si attua specialmente tramite la rassegna "Spazi Urbani", che, come affermato dai soci, "cerca di restituire allo “spazio” quella funzione di aggregazione ed incontro, di condivisione e progettualità".
Il nostro blog si allinea in pieno con tale politica di recupero, valorizzazione e fruizione coraggiosamente portata avanti dall'associazione e sarà presente il 4 agosto a Tramutola con apposita iniziativa Identità e territorio. Le storie locali della Basilicata in età moderna.

giovedì 24 luglio 2014

Personaggi. 12. Un politicante del 1799: Francesco Pignatelli di Strongoli

Francesco Pignatelli dei principi di Strongoli (1734-1812), marchese di Laino, vicario delle Calabrie a Monteleone, fece parte della commissione di scienziati e tecnici, che tra l’aprile ed il giugno 1783, fu inviata da Ferdinando IV a valutare i danni del terremoto in Calabria. Nel 1784 venne nominato Vicario Generale di Calabria, iniziando un’opera di soppressione di vari ordini: per la gestione dei beni ecclesiastici venne creata una Cassa Sacra e inviò a Ferdinando una relazione generale sullo stato della Calabria.
Nominato Vicario Generale del Regno durante la crisi di fine 1798, rimase a governare il Regno dopo la fuga dei Borbone il 23 dicembre. Il Pignatelli, che nelle fonti e nello stesso Monitore Napoletano venne dipinto come bieco approfittatore, senza alcuna qualità, non riuscì, in effetti, ad intavolare un discorso efficace nè con gli Eletti del Popolo, né con le famiglie nobili, mostrando, anzi, di essere un amministratore miope e fin troppo zelante nell’applicare direttive ormai inutili di autoritarismo, come dimostrò l’ordine del 28 dicembre, con il quale aveva fatto bruciare le lance cannoniere per evitare che cadessero in mano ai francesi.
 L’inevitabile urto tra questa prospettiva ottusamente lealista del Pignatelli con quella autonomista degli Eletti e della nobiltà (fautrice di una “repubblica aristocratica”), portò il Vicario a negoziare, con Championnet, l’armistizio di Sparanise del 12 gennaio, che provocò l’insurrezione popolare, segno di un inevitabile distacco tra popolo e Corona. Costretto a fuggire, il 28 gennaio, a Palermo, Pignatelli fu prima arrestato, poi liberato, seguendo, poi, le sorti della famiglia reale.

lunedì 21 luglio 2014

Francesco Mario Pagano. 2. Una lettera a Gaetano Filangieri

S. E., il Sign. Cav. D. Gaetano Filangieri, de’ prìncipi d’Arianello, gentiluomo di camera e maggiordomo di stagetimana di S. M., ufiziale nel Real corpo de’ volontari di marina.

Nel fortunato giorno, nel quale, già volge il dodicesimo anno, io mi e-sposi nell’Università napoletana al pubblico cimento del concorso per la cattedra dell’Etica di Aristotile, per la prima volta mi concedette la sor-te, in un discorso sul sistema morale del gran filosofo stagirita avuto coll’E. V., di ravvisare nel di lei elevato spirito que’ rari semi d’ingegno che, fecondati poi col tempo, in tant’ampiezza e sublimità germogliaro-no; e mi apparvero altresì le nobili scintille di non ordinaria virtù, che poi, destate ed accresciute, in Italia e fuori con tanta luce e gloria vi ma-nifestarono a tutti. Dopo lungo tempo mi si presentò di nuovo l’occasione di rinnovare la conoscenza antica e la mia servitù, quando di già il romore del vostro nome immortale avea scossa l’Italia e di là delle Alpi erasi ancora udito. Ma’ non prima d’ora (ciò che ho sempre sommamente desiderato) ho potuto con un pubblico monumento attestarvi la mia profonda venerazione e stima della vostra grande virtù me mi si è al presente offerta l’opportunità di fare.
Tra le penose e moleste cure, tra gli strepiti e romori del foro, ho fatto una pruova delle mie deboli forze in una difficile impresa, quale e quanta per l’appunto si è una regolare tragedia. Ed avendone una formata, come per saggio, ho ardito di presentarla all’augusto ed incorruttibile tribunale de’ dotti, de’ quali le discrete correzioni le potranno in una ristampa procurare quel pregio, che ora per sé non ha. Le mie forensi occupazioni mi fanno sperare un compatimento umano:
Haec quoque, quae facio, iudex mirabitur aequus,
Scriptaque cum venia, qualiacumque leget.
Or, qualunque ella pur siasi, io ve la presento ed offro per segno e testimonio del mio grande ossequio e devozione.
Ma perché il dono non fosse così picciolo di mole, come é pur di valore, alla tragedia aggiunsi la mia orazione latina, anni addietro data alla luce, della vittoria moscovita, nell'arcipelago riportata contro l'ot-tomana potenza, ed altresì la lettera, onde col dono di una medaglia mi onorò il signor Domasnev, presidente di quella Imperial Accademia di Pietroburgo.
Or altra cosa a soggiunger non mi rimane. Forse dovrei, secondo il volgar costume di coloro che fanno le dediche, intessere il vostro elogio? Ma il vostro solo nome compiutamente lo fa. Esso ne desta l’idea dell’entusiasta amico dell’uomo, dell’eloquente e profondo politico, di colui finalmente che forma la felicità e la delizia degli amici ed è l’oggetto della stima de’ generosi allievi delle Muse; e, se questo a grandi uomini altresì conviene, io dirò del mio culto ancora. Onde soverchia sarebbe ogni qualsiasi lode.
Piacciavi adunque di rimirare non la viltà del dono, ma l’animo di chi vel presenta, mentre io ripieno della nobile idea della vostra ami-cizia (mio inestimabile pregio), mi annunzio per sempre
di V. E. Devotiss. obligatiss. servidore Francesco Mario Pagano

FONTE: F. M. PAGANO, Gli esuli Tebani, Napoli, s.e., s.d., pp. I-III

giovedì 17 luglio 2014

Scrittori di Magna Grecia. 5. I frammenti del I libro degli Annales di Ennio

Dal proemio:

Muse, che con i piedi danzate sul grande Olimpo

Infatti anche i popoli
Italici i miei versi toccheranno


Il prologo ed il sogno di Ennio:

In sonno lieve
e placido tenuto

vidi apparire il poeta Omero


Il discorso di Omero sulla reincarnazione:

"O animo pio!

Uova suol partorire la stirpe ornata di piume,
non anima

e dopo di l viene dal dio ai piccoli
l'anima stessa

 e la terra, che il corpo
diede essa stessa, se lo riprende, n fa in modo di disperderne alcunch

Mi ricordo d'esser stato pavone.

Cittadini, rimembrate, cosa opportuna, il porto della Luna".


La caduta di Troia e l'ascendenza di Enea da Assaraco:

Quando l'antico Priamo cadde sotto il pelasgo Marte

L'ottimo Capi, nato d'Assaraco, lui stesso da s
genera Anchise il pio

E il sapiente Anchise, a cui La bellissima tra le dee, Venere
don l'eloquenza, aveva il dio nel suo cuore


Venere corre a salvare Enea dagli Achei:

Veloce essa trapassò per le sottili caligini dell'aere

Si fermò nel luogo per essi la divina tra le dee

"Fa', in effetti,
ciò che tuo padre ti chiede con preghiere".


L'arrivo dei Troiani nel Lazio:

C' un luogo, che i mortali chiamavano Esperia,

che gli antichi popoli Latini dominavano.

Saturnia terra

A Saturno
che Cielo generò.

Quando il gran Titano opprimeva con crudel assedio

Uomini che un giorno accolse la terra di Laurento


Amulio detronizza Numitore:

A lui rispose il re di Alba Longa.


Il sogno di Ilia, figlia di Enea:

Quando, destata, la vecchia con mani tremanti fè lume,
tali cose quella ricorda, piangente, atterrita dal sogno:
"O figlia d'Euridice, che il padre nostro amò,
forze e vita il mio corpo tutto ora abbandonò!
Infatti, io sognai un bell'uomo in ameno saliceto
che mi conduceva tra rive e boschi ignoti; così, sola,
o mia sorella germana, da sola ad errar mi vedevo,
e lenta a ricercare e chieder di te, n poterti
trovare nel cuor; nessun luogo potea fermar i miei piedi!
Allora vidi il padre che mi chiamava a gran voce
con codeste parole: "Figliola, tu devi sopportare
prima disgrazie, poi dal fiume verrà la salvezza!".
Detto questo, o sorella, nostro padre sparì d'improvviso,
né, pur desiderato, si diede alla vista ed al cuore,
sebben io le mani ai gran templi ceruli del cielo
tendessi piangendo e lo chiamassi con dolce voce.
Allora il sonno mi lasci, col cuore mio pien di dolore".


Ilia, sedotta da Marte, chiede aiuto agli dei; Venere la conforta:

"Te ora, o santa, io prego, o Venere, madre di mio padre,
che dal ciel tu mi guardi almen poco, o congiunta,

e te, o padre Tevere, con il tuo fiume sacro".

"Ilia, divina nipote, che hai sopportato sciagure

per il resto, di chi generasti
non preoccuparti!".


Amulio fa gettare Ilia nel fiume, che la accoglie e ne fa sua moglie:

Disse ciò, e lì i guardiani compirono gli ordini.

Ma Ilia, data alle nozze


In cielo gli dei decidono la sorte dei piccoli Romolo e Remo:

                                   Cenacoli massimi del cielo

                                   Bipatenti

Colui che il cielo distende, trapunto di stelle fulgenti.

Giunone Vesta Minerva Cerere Diana Venere Marte
Mercurio Giove Nettuno Vulcano Apollo.

Rispose la saturnia Giunone, divina tra le dee.

"Uno solo sarà che tu porti del cielo nei ceruli
spazi".


Giove ordina al Tevere in piena di ritirarsi per salvare i gemelli, che vengono depositati sotto il fico Ruminale:

lasciano le rive e riempiono i campi

luoghi chiusi

fu fatto ed il Tevere

                                   Dopo che
si fermò il fiume che di tutti i fiumi è il principe
a cui soccombette Ilia

del fico dolcifero nutrendosi di tutta la ricchezza


La lupa allatta i gemelli e li abbandona quando vede Faustolo:

                                               una lupa incinta d'improvviso

Allora la lupa lo vide, lo osservò ben bene:
di lì con passo veloce lasciato celermente il campo
si portò nella selva.


Romolo e Remo crescono tra i giochi e le cacce dei pastori:

                                                Parte per gioco i sassi
gettano, tra loro contendono

Cadon se si impossessa sicuro Romolo della preda.


Remo viene riconosciuto da Numitore suo nonno e stringe con lui un patto:

"Prendi e dacci fiducia e fa' un patto sicuro".


Gli auspici per la fondazione di Roma:

Quando la notte lenta trattiene il lume superno


Remo oltraggia il fossato di fondazione e Romolo lo uccide:

"O Giove, davvero si fida di un muro pi che di sua forza!"

"Ah, nessun uomo vivente far questo restando impunito,
e nemmen tu! Col tuo sangue ancora caldo sconterai la pena!".


Lite tra Romolo e Amulio che ha imprigionato Remo:

"Ma tu che ora tanto torvamente minacciavi"

"Ma non con l'inganno s'addice serbare lo Stato"

"Che solo gli stolti maiali son soliti pugnar con la forza"


Il ratto delle Sabine durante i giochi:

e quando, unti di olio, allertati e parati alle armi

perché ciascun dei romani le ha per sé in casa

O Tito Tazio, su te, o tiranno, tanto togliesti!


Ersilia salva dalla lotta i due popoli:

"Tutti e due in eterno condurrete concordi la vita".

                        "O Nerie, sposa di Marte, e tu, o Era"


Romolo si rivolge ai Romani per unirli ai Sabini:

"Quel che a me di regno e di fede, Quiriti, pel regno e per voi
egli conceda con fortuna e volga con felicità".


Giulio Proculo racconta di aver visto Romolo divinizzato:

"Romolo in cielo con gli dei genitori la vita
conduce".

"Te, o padre Quirino, io venero, ed Hora, sposa a Quirino".

lunedì 14 luglio 2014

Scrittori di Magna Grecia. 6. Archestrato

Di Archestrato sappiamo pochissimo, e tutto derivante da Ateneo, che nei suoi Deipnosofisti attinge, a piene mani, proprio da quest’autore che non conosciamo se non dalla sua opera. Archestrato era di Gela, cosa evidente dal fatto che mostra di conoscere bene la geografia dell’isola e le abitudini gastronomiche dei greci di Sicilia: in SH 176, 12-13 proprio il poeta siceliota mostra di disprezzare la cucina della sua patria, dicendo

Giacchè costoro preparar non sanno
I buoni pesci, e guastan le vivande
Ogni cosa di cacio essi imbrattando,
O di liquido aceto, e di salato
Silfio spargendo....

Questo parodo fu probabilmente contemporaneo di Aristotele, visto che nei suoi frammenti vengono enunciate alcune idee di sapore aristotelico, risalenti al 335 a.C. Quindi dovrebbe essere vissuto in ambito sicuramente siciliano nel periodo, probabilmente, dell’espansione macedone. Di più le fonti non dicono.
Ateneo ci tramanda, di Archestrato, frammenti di un poemetto che riporta sotto vari titoli, tutti antichi: secondo lo stoico Crisippo si intitolava Gastronomia, secondo Callimaco Hedypatheia ossia, letteralmente, Poema del buongustaio, che è oggi il titolo più diffuso tra gli studiosi. 
Il poemetto appare come una parodia dei poemi didascalici di sapore esiodeo molto diffusi in ambito filosofico. Del poema ci restano circa 300 versi, con in più un frammento di 11 versi dagli Hedyphagetica di Ennio: si tratta di versi in cui l’ironia è continuamente dosata con la descrizione di piatti e di mercati ittici, in una sorta di Odissea dei buongustai in cui predomina l’aspetto disimpegnato e di evasione tipico di certa commedia attica. 
Archestrato, a tal proposito, prende le mosse dalla storiografia, con i suoi incipit pragmatici, presentando una esposizione delle ricerche (SH 132) che rovescia parodicamente il proemio di Erodoto, così come la metafora del viaggio, che non è inconsueta nei poeti parodici che trattano di gastronomia: d'altra parte gli Hedypatheia sono tutti un viaggio alla ricerca di prelibatezze, così come quello di Erodoto era un viaggio alla ricerca della verità. Sembrerebbe esserci anche una parodia di Parmenide e del suo viaggio simbolico presso la Verità.
Ateneo è prodigo di elogi per il parodo, definendolo persino polyhistor, cioè di grande cultura (325d): in effetti, i frammenti del poemetto appaiono ben costruiti secondo un rovesciamento del tono ispirato dei poeti didascalici, per cui, dopo un proemio pragmatico con la consueta asserzione di dire il vero e di voler propagare la verità, segue una costruzione espositiva secondo la disposizione delle portate di un pranzo tipico del IV secolo. 
Archestrato, infatti, oltre ad enumerare le specialità dei vari porti del Mediterraneo, segue poi – secondo quanto già rileva Ateneo (278b) – lo schema degli antichi peripli, enumerando pesci e ricette ittiche secondo la navigazione in senso orario. Infine, segue un’enumerazione delle carni, l’elogio dei vini più adatti al banchetto ed al seguente simposio, con l’indicazione del numero dei convitati, dei profumi da usare e persino dei dessert da offrire agli ospiti, il tutto con signorile “sprezzatura”. Gli ultimi versi di questi precetti, diretti, secondo il modello esiodeo, a due “discepoli”, Mosco e Cleeno, dovevano essere quelli di SH 192, con la tipica maledizione contro chi non segue i consigli sapienti del poeta.
Proprio la moderazione nella cucina e l’ostentato disinteresse per i piatti di “alta cucina”, nonché per i banchetti pantagruelici così diffusi in Grecia dopo i contatti con il mondo macedone e persiano, fecero ben presto dell’opera del poeta gelese uno spunto dei filosofi, non solo epicurei, per la critica al lusso. Ateneo ci dimostra quest’attenzione della filosofia ellenistica per questo poemetto riportando un’osservazione dello stoico Crisippo:

E così, amici miei, quando si tengono in conto questi fatti, si dovrebbe a ragione approvare l'atteggiamento del nobile Crisippo, per il suo acuto esame del  Sulla Natura di Epicuro, ed il suo evidenziare che il cuore della filosofia epicurea è la Gastronomia di Archestrato, nobile poeta epico che a tutti i filosofi diede familiare nutrimento, che rivendica come Teognide il merito suo (104b).
Crisippo, a tutti gli effetti un vero filosofo, dice che Archestrato fu il precursore di Epicuro e di coloro che adottarono le sue dottrine sul piacere, causa di ogni corruzione (278f).

Archestrato, quindi,  insegna a cucinare e disporre le portate in un vero poema didascalico-gastronomico, introdotto da una (seppur parodica) dichiarazione programmatica. Si tratta, dunque, di fornire “belle esortazioni secondo il modello del poeta ascreo” (secondo quanto osserva Ath. III 101f), quindi di fare poesia didascalica, seppur divertendo. 
Questo modello, seppur considerato di second’ordine, come la parodia, sarebbe poi stato massicciamente recepito nella poesia latina, specie nello pseudo-Virgilio del Moretum, nella satira II 6 di Orazio, che di Archestrato ricalca toni ed espressioni: l'immediato precursore della satira gastronomica oraziana sarà dunque da individuare in questo raffinato epicureo di Gela, messo in rapporto da Ennio o direttamente conosciuto da Orazio, data la grande cultura letteraria del venosino.
Di seguito, i frammenti nella traduzione di Domenico Scinà del 1823:

Quanto conobbi in viaggiar mostrando
A Grecia tutta, ove miglior si trova
ogni cibo dirò ogni liquore.
Di vivande squisite unica mensa
Accolga tutti, ma di tre o di quattro
O di cinque non più sia la brigata:
Perchè se fosser più cena sarebbe
Di mercenari predator soldati.
Dirotti in prima, o caro Mosco, i doni
Di Cerere, la Dea di bella chioma;
Tu nella mente i detti miei conserva.
Il pan, che fassi senza alcun mescuglio,
Tutto d’orzo fecondo, il più prestante
E tra gli altri il miglior prender si puote
In Lesbo là sul colle da’ marini
Flutti bagnato, ove è l’inclita Erisso,
Pane sì bianco, che l’eterea neve
Vince in candor. Che se i celesti Numi
D’orzo mangiano il pan, Mercurio al certo
In Erisso sen va loro a comprarlo.
In Tebe è ver da sette porte, e in Taso,
Ed in altre cittadi ancora è buono,
Ma a quel d’Erisso in paragon pattume
Ti sembrerà. Chiaro oltre a ciò ritieni
Quel che ti aggiungo. Il collice procura
Pan di Tessaglia, che crimazia appella
Questi, e quegli altri suol chiamar condrino;
Pane che a turbo si conforma in giro,
Ed affinato è dalla man, che intride:
L’arcade encrifia ancor degno è di lode,
Nato dal fior della farina: in piazza
L’illustre Atene poi venal prepara
Pane eccellente: ma diletto a cena
Ti darà quel, che dal teglion si cava
Bianco, vistoso, di color splendente
Nell’Eritrea città ferace d’uva.
Lidio o fenicio poi t’abbii il fornajo
In casa, il quale il tuo piacer conosca;
E vada a tuo volere ogni maniera
Di pane in ciascun giorno lavorando.
Eno di mie, che sono grosse, è ricca,
D’ostriche Abido, Pario di granchi,
Mitilene di pettini, e a più conche
Giunge Ambracia il cinghial, Messina abbonda,
Là sullo stretto angusto ove ella è posta,
Di conchiglie peloridi, daratti
Efeso came, che non son cattive,
Tetee Calcedonia; le trombe,
Tanto quelle del mar, quanto del foro,
Ed anche i trombettier stritoli Giove,
Tranne il mio amico abitator di Lesbo
Ricca di viti, che Agaton si appella.
Ma lasciando le ciance, abbiti cura
L’astaco di comprar, quel che ha le mani
Lunghe, ed insiem pesanti, i piè piccini,
E sulla terra lentamente salta.
L’isole di Vulcano assai ne danno,
Che avanza tutti nel sapore, e molti
Il mare di Bizanzio anche ne aduna.
In Abdera le seppie, e in Maronea
Le lolligini in Dio di Macedonia,
Cui scorre a canto il fiumicel Bafira,
Moltissime in Ambracia ne vedrai.
Ottimi i polpi in Caria e in Taso; e molti
Ne nutre e grossi per lo più Corcira.
L’ippuro eccelle di Caristo, e inoltre
Ricca è Caristo di squisiti pesci.
Là nello stretto che riguarda Scilla
Nella piena di selve Italia, il mare
Il pesce lato, ch’è famoso alleva,
Boccone in vero da recar stupore.
Se unqua de’ Carii in Taso giungi, avrai
Grosse le squille, ma di rado in piazza
Si possono comprar; d’Ambracia il mare,
E quel di Macedonia assai ne appresta.
Il cromi in Pelle avrai ben grande (e pingue
Nella state si trova) anche in Ambracia.
L’asino pesce, che callaria alcuni
Chiaman, ben grosso nutrica Antidone;
Ma certa carne tien, che par spugnosa,
E, almeno al gusto mio, niente soave.
Molti lodanla assai, suole diletto
Prender costui di questo, e quegli d’altro.
Nel suol felice d’Ambracia giungendo,
Il marino cinghial compra se il vedi,
E s’anco si vendesse a peso d’oro
Non lo lasciare, affine che vendetta
Crudele degli dèi su te non piombi:
Fior di nettare al gusto egli è quel pesce.
Ma non a tutti li mortali è dato
Di poterne mangiar, neppur cogli occhi
Di poterlo guardar; solo è concesso
A color che cestelli ben tessuti
Di giunco, che si nutre in la palude,
E ben capaci nelle man tenendo
Di presto conteggiare hanno il costume.
Di agnel le membra ancora in dono sprezza.
In Taso compra non maggior d’un cubito
Lo scorpion, ma s’è maggior lo lascia.
Se nell’angusto fluttuoso stretto
Che parte Italia presa vien la plota
Detta murena, comprala, chè questo
Ivi è boccone di stupendo gusto.
Lodo ogni anguilla, ma la più squisita
È quella che si pesca dello stretto
Nel mar, che Reggio di rincontro guarda.
O di Messina abitator felice
Sopra ogni altro mortal’che questo cibo
In copia mangi! Levan pur gran fama
Le anguille di Strimona e di Copea
Perchè son grosse e pingui a maraviglia.
Ma d’onde pur si fosse, a mio parere,
Signoreggia tra tutte le vivande
E ogni altra avanza per la sua dolcezza
L’anguilla, il pesce sol ch’è tutto polpa.
Il sinodonte poi, pesce che devi
Cercar ben grosso, questo ancor t’ingegna
D’acquistar dallo stretto, o caro amico.
Tutto ciò dico a Ciro e a te, Cleano.
La lebia poi, ch’epato ancor si chiama,
In Delo e Teno di mar cinte, piglia.
Dalla cinta di flutti Egina compra
Il muggine, così tu pregio avrai
Di conversar tra le gentil persone.
Se non si vuole a te vendere in Rodi
Il galeo volpe, ch’è assai pingue, il quale
Suole cane chiamarsi in Siracusa,
Ben anco a rischio di morire, il ruba,
Ed alla fine quel che può t’avvenga.
L’elope, ma il miglior, vanne a mangiarlo
Nell’insigne città di Siracusa
Più che in ogni altro suol; perchè là nato,
E di colà che poi si porta altrove.
Che se all’isole intorno, o ad altra terra
Vien l’elope a pescarsi, o intorno a Creta,
Di là venendo giungerà magretto,
Duro, e dall’onde travagliato e stanco.
Compra la rana dovunque la trovi,
E cura poi di prepararne il ventre.
Allo spuntar di Sirio il fagro mangia
In Delo e in Eritrea, colà ne’ luoghi,
Che a’ bei porti vicin stansi sul mare;
Ma testa e coda sol ne compra, il resto
Neppur permetti che in tua casa venga.
Cerca lo scaro d’Efeso; in inverno
Mangia la triglia presa in Tichiunte
Piena di sabbia, borgo di Mileto,
Vicino a’ Carj dalle gambe storte.
Comprala in Taso ancor, che per sapore
Non cede a quella, e se la trovi in Tio
Meno gustosa, non è tal che giunga
A potersi sprezzar. E saporita
La triglia poi, che là nel mar d’Eritro
Da quella spiaggia non lontan si pesca.
Di fresca e grossa aulopia la testa
Cerca comprare in mezzo della state,
Allor che Febo sull’estremo cerchio
Guida il suo carro; e presto presto, e calda
La reca a mensa insiem con una salsa
Di triti aromi: convien poi che tutti
Collo schidon gli addomini ne arrosti.
Sempre la salpa ho per malvagio pesce,
Al più nel tempo in cui si miete il grano
Si può mangiar: ma sia di Mitilene.
Quando Orione in ciel sta ver l’occaso,
E del racemo produttor del vino
La madre getta la sua chioma in terra,
T’abbi allora alla mensa un sargo arrosto
Grande quanto si può, sparso di cacio,
Caldo, ammollito dal vigor d’aceto,
Perchè sua carne di natura è tosta.
Di condirmi così ti figgi in mente
Qualunque pesce, la cui carne è dura;
Ma quel che ha carne dilicata e pingue
Basta soltanto che di fino sale
L’aspergi, e l’ungi d’olio, perchè tutta
Tiene in sè la virtù di bel sapore.
L’amia in autunno, quando son calate
Ver l’occaso le Plejadi, apparecchia
Come ti piace: e perchè dir più oltre?
Quella guastare, se ne avrai pur voglia,
Tu non potrai. Ma se desir ti spinge,
O caro Mosco, di sapere il modo
Con cui vien più gustosa, io pur dirollo.
Nelle foglie di fico la prepara
Con rigamo non molto, senza cacio,
Senz’altro untume; quando l’hai sì concia
Semplicemente, in mezzo a quelle foglie
L’avvolgi, e sopra legala con giunco.
Mettila poscia sotto il cener caldo,
E colla mente va cogliendo il tempo
Che sia bene arrostita, e statti all’erta
Di non farla bruciar: ma t’abbii quella
Dell’amena Bizanzio se eccellente
Aver la vuoi; buona la trovi ancora
Se a Bizanzio vicino ella è pescata;
Ma se ti scosti più di gusto manca;
E se del mare egeo passi lo stretto,
Tanto di quella nel sapor diversa
Ritrovando s’andrà, che scorno reca
Alle lodi da me fattele in pria.
L’asia disprezza, che non è d’Atene,
O sia di quella razza che da’ Joni
Spuma s’appella. Sì questa tu prendi
Fresca e pescata ne’ profondi e curvi
Sen di Falero, o, se ti piace, in Rodi
Circondata di mar, dove gentile
Trovasi ancor quando là proprio nasce.
Ma se vago tu sei di ben gustarla,
Comprar bisogna le marine ortiche
Tutte intorno comate, e poi che insieme
Mescolate tra lor le avrai, le friggi
In padella nell’olio, in cui tritati
Vi sien d’erbucce gli odorosi fiori.
Compra in Eno ed in Ponto il pesce porco,
Che alcuni chiaman cavator di sabbia,
Lessane il capo senza condimento,
Ma dentro l’acqua lo rivolta spesso.
Indi v’aggiungi ben tritato issopo,
E, s’altro vi desii, sopra vi spargi
Aceto forte. Poscia intigni, e ’l mangia
Con tal fretta inghiottendo, che ti paja
Di soffocarti. Il dorso e la più parte
Di tal pesce convien di farli arrosto.
Prendi in Mileto dal Gesone il cefalo,
E il pesce lupo dagli dei allevato,
Perchè quel luogo per natura porta
Questi eccellenti. Altri, ver è, più grassi
Ve n’han, che nutre la palude Bolbe,
Ambracia ricca, e Calidon famosa;
Ma a questi pare che nel ventre manchi
Quel tale grasso, che soave olezza,
E quel sapore, che soave punge.
Son quelli, amico, di stupendo gusto.
Gli stessi interi, con tutte le squame,
Arrosti acconciamente a lento fuoco,
E poi con acqua e sale a mensa reca.
Ma non ti assista mentre gli apparecchi
Di Siracusa o dell’Italia alcuno,
Giacchè costoro preparar non sanno
I buoni pesci, e guastan le vivande
Ogni cosa di cacio essi imbrattando,
E di liquido aceto, e di salato
Silfio spargendo. I pesciolin di scoglio,
Questi che son del tutto da esecrarsi,
Sanno essi preparar meglio che gli altri:
E son valenti nel formar con arte
Più e più sorti di manicaretti
Pieni tutti d’inezie e di leccumi.
Il citaro, se carne ha bianca e soda,
Voglio che bolli in semplice acqua e sale,
In cui solo sien poste alcune erbucce
Se non è molto grosso, ed alla vista
Par che rosseggi, voglio che l’arrosti,
Ma pungere ne dei da prima il corpo
Con un dritto coltel di fresco aguzzo;
E tutto d’olio e d’abbondante cacio
Ungerlo poi. Gli spenditor vedendo,
Gode tal pesce, che di spesa è ghiotto.
In Torone convien del can carcaria
Comprare i voti addomini, che stansi
Di sotto al ventre: questi poi gli arrosti,
Di poco sale e di cimino aspersi,
E d’olio glauco in fuori, o dolce amico,
Altro non giungi: quando già son cotti,
Reca una salsa di tritati aromi,
E quei con questa. Che se qualche parte
D’un cavo tegamin dentro l’interno
Cuocer ti piace, non mischiarvi insieme
Acqua né aceto, ma vi spargi solo
Olio abbastanza con cimino asciutto,
Ed erbette spiranti odor soave.
Poi senza fiamma, e sul carbon li cuoci,
E spesso li rivolta, affin che intanto
Senza che te ne accorgi non si brucino
Ma tra i mortali non son molti quelli
A cui noto è tal cibo, ch’è da numi.
Anzi coloro, a cui toccò d’insetto
D’erbe sol roditor la stupid’alma,
Lo ricusan per cibo, e n’han ribrezzo,
Come di fiera, che d’uom carne mangia,
Ma tutto il pesce gran diletto piglia
Carne umana a mangiar dove l’incontra.
Però costor che van così da stolti
Ciarlando, uop’è che solamente all’erbe
Si riducano, e al sofo Diodoro
Correndo temperanti insiem con lui,
Seguan pitagorèa scuola e costume.
Esser vuol la torpedine bollita
In olio e vino con erbe odorose,
E un pocolin di grattugiato cacio.
In Calcedonia, che al mar presso siede,
Il grosso scaro ben lavato arrosti.
Buono è quel di Bizanzio, ed ha suo dorso
A tondo scudo di grandezza eguale.
Tu questo inter com’è così prepara:
Piglialo, e come l’hai d’olio e di cacio
Tutto coperto, appendilo al fornello
Già fatto caldo, e poi ben ben l’arrosti.
Ma spargilo di sal’cimino trito
Ed olio glauco, dalla man versando
Fluido sì squisito a goccia a goccia.
D’Efeso non lasciar la pingue orata
Che quegli abitator chiaman jonisco,
Ma scegli quella che nutrisce e alleva
La veneranda Selinunte, e questa
Lava prima ben bene, e poscia intera
Arrosti, e reca a mensa, ancor se grande
In sino a dieci cubiti ella fosse.
Di pingue, denso e grosso congro il capo
E tutti gl’intestini aver tu puoi
Nella cara Sicion, ma quello e questi
Tutti sparsi d’erbucce verdeggianti
A lungo bolli dentro l’acqua e ’l sale.
Nell’Italia si pesca esimio il congro,
E tanto gli altri pesci nel sapore
Vien tutti a superar, quanto il più grasso
De’ tonni avanza il coracin più vile.
Con cacio e silfio in mezzo dell’inverno
Mangia a lesso la razza i pesci tutti
Figli del mar che mancano di grasso
Voglion tale apparecchio; io già tel dissi,
Ed or tel dico la seconda volta.
Pesce è malvagio il mormile di spiaggia,
In alcun tempo non si trova buono.
Mileto illustre saporiti nutre
I pesci ad aspra pelle; ma tra questi
Più lo squadro si pregi, o quella razza,
Che largo porta e liscio il dorso. Intanto
Ghiotto sarei del lucerton di mare
Ben dal forno arrostito, il quale forma
De’ figliuoli de’ Joni la delizia.
Del glauco voglio che mi compri il capo
In Olinto e Megara, che gustoso
Pigliasi in luoghi pien di guadi e d’alga.
Il passer prosso poi, l’aspretta sogliola,
E questa nella state, aver si denno
Là ’ve degna d’onor Calcide siede.
Alla sacra d’intorno ed ampia Samo
Molto grosso vedrai pescarsi il tonno,
Ch’orcino alcuni, ed altri chiaman ceto.
Convien di questo a te comprar se a’ numi
Cena imbandissi, e ti convien comprarlo
Senza tardar, senza far lite al prezzo.
In Caristo e Bizanzio è poi gustoso;
Molto miglior di questo è quel che nutre
Nell’isola famosa de’ Sicani
Di Tindari la spiaggia, e Cefaledi.
Ma se d’Italia sopra il santo suolo
In Ipponio verrai dove corona.
Hanno i Bruzii di mar, colà vedrai
I tonni più eccellenti, che la palma
Portan, vincendo di gran lunga gli altri.
Ma tra’ Bruzii e tra noi di là vagante
Pelaghi molti traghettando in mezzo
A1 mar fremente questo pesce arriva.
Però da noi fuor di stagion si pesca.
T’abbi la polpa, che di coda è nodo,
Di quel pesce ch’è femina di tonno,
Il quale è grande, e per sua patria vanta
Il bizantino mar; tu quella in pezzi
Tagliata arrosti ben, di fino sale
Spargendola soltanto, e d’olio ungendo.
Poscia i pezzi ne mangia e caldi e intrisi
In forte salsa, e se ti vien la voglia
Asciutti di mangiarli, ancor gustosi
Questi ritrovi: per sapor, per vista,
Degl’immortali numi in ver son degni;
Ma perdon tosto il pregio lor se aceto
Spargendovi li rechi alla tua mensa.
Il salume del Bosforo è degli altri
Bianco assai più, ma della dura carne
Nulla ci rechi di quel pesce, il quale
Nella palude di Meote ingrossa,
E in questo metro nominar non lice.
In Bizanzio arrivando, un pezzo piglia
Di pesce spada, e sia di quella polpa
Che della coda la giuntura veste.
Saporito tal pesce ancor si pesca
Dello stretto nel fin verso Peloro.
Di tonno di Sicilia un pezzo mangia,
Di quel che a fette conservar salato
Nell’anfore si suol; ma la saperda
Che di Ponto è vivanda, e que’ che lode
Ne fanno, io voglio che compiangi a lungo:
Pochi san tra, mortali esser quel cibo
Vile e meschin. Ma a te convien senz’altro
D’aver lo sgombro per metà salato,
Quasi ancor fresco, posto da tre giorni
Dentro d’un vaso, e prima che si stempri
In acqua salsa. Se dipoi tu giungi
Nella santa città della famosa
Bizanzio, allora del salume oréo
Un pezzetto per me mangia di nuovo
Che veramente è saporito e molle.
Son molti i modi e molti li precetti
Di preparare il lepre, ma eccellente
È quel d’apporne in mezzo a’ commensali
Cui punge l’appetito, per ciascuno
La carne arrosto, sparsa sol di sale,
Calda, dallo schidon crudetta alquanto
Strappata a forza; né t’incresca il sangue
Che ne vedi stillare, anzi la mangia
Avidamente. Inopportuni e troppi
Son del tutto per me gli altri apparecchi
Di molto cacio, di molto olio e untume,
Come se a gatti s’imbandisse mensa.
Insiem prepara un grasso paperino
E questo ancor vo’ che soltanto arrosti.
Grinze e all’alber mature abbi le olive.
A cena sempre di ghirlande il capo
D’erbe cingi e di fior, di cui s’adorna
Il ricco suolo della terra, ed ungi
La tua chioma di fin liquidi unguenti;
Su lento fuoco di continuo spargi
Mirra ed incenso, che d’odor soave
Siria produce. Ma finito il pasto,
Quando cominci a ber, ti rechin questi,
Ch’io ti dico, piattel, ti rechin cotti
Ventre e volva di scrofa, che conditi
Sien di silfio cimino e forte aceto,
E teneri augellini arrosto fatti
Quelli che porta la stagion dell’anno.
Né questi abitator di Siracusa
Tu cura, i quali, come fan le rane,
Senza nulla mangiar bevono solo;
Non seguir l’uso loro, i cibi mangia
Che t’indicai: tutti quegli altri, e mela
E fave e ceci cotti e fichi secchi
Per sè di turpe povertà son mostra.
Ma pregia il confortin fatto in Aten;
Che se questo ti manca, e d’altro luogo
Vieni forse ad averlo, almen ti parti,
Cerca l’attico miele, è questo appunto
Che fa di Atene il confortin superbo.
Convien così che liber’uom si viva
O pur sen vada giù sotto la terra
Sotto l’abisso il tartaro a rovina,
E per istadii che non hanno numero
Lontan sotterra se ne stia sepolto.
Quando l’ultimo nappo a Giove sacro
Liberator colmo ti rechi in mano,
Il vecchio vin bevrai, che il capo inalza
Molto canuto, e tutta gli ricopre
Candido fior l’umida chioma, vino
Che la cinta di mar Lesbo produsse.
Anche il vin lodo, che si nasce in Biblo,
Città vetusta di Fenicia santa,
Ma a quel di Lesbo pareggiar nol posso.
E ver che, a bere del biblin, se pria
Uso non sei, nel punto che lo gusti
Più del lesbio parratti odor spirante,
Soave odor, che da vecchiezza prende:
Ma bevendolo poi vedrai che molto
Quello di Lesbo il vin di Biblo vince,
Parendoti destar non già di vino
Ma d’ambrosia il sapor l’odore e il gusto:
Che se qualche ciarlon tronfio cavilla,
Cianciando del fenicio, come fosse
Di tutti il più soave, io non lo curo.
Il Tasio ancora è generoso a bersi
Quando conta dell’altro età più lunga
Per molte belle primavere. Al pari
D’altre cittadi ricordar le viti
Uve stillanti ed inalzar saprei
Anche con lode, che i lor nomi ignoti
A me non son. Ma, a schietto dir, non puossi
Altro vin comparare a quel di Lesbo.
Sonvi di quelli poi ch’hanno vaghezza
Lodar le cose delle lor contrade.

giovedì 10 luglio 2014

Scrittori di Magna Grecia. 5. Diodoro Siculo

Di Diodoro sappiamo quel poco che egli ci dice nel proemio della sua opera. Nato ad Agirio (oggi Agira, in provincia di Enna) e perciò detto oggi "Siculo" per antonomasia, intraprese vari viaggi, soggiornando tra l'altro ad Alessandria per comporre la sua opera storica, redatta tra il 60 ed il 30 a.C. Da cenni che egli fa su Augusto, si presume che Diodoro sia morto intorno al 20 a.C.
Diodoro è l'autore della Biblioteca Storica, una storia universale in 40 libri dalle origini mitiche alla spedizione di Cesare in Gallia. Dell'opera rimangono i libri I-V e XI-XX, e degli altri libri solo estratti e riassunti (spesso molto ampi), dovuti alla grande circolazione e notorietà della Biblioteca nel Tardo Antico. Nel proemio Diodoro presenta le sue ricerche storiche ed introduce come scopo della sua opera, e della storia in generale, l'utilità e l'insegnamento che da essa possono trarre gli uomini. La storia universale è esempio della fratellanza tra gli uomini: Essa riconduce ad un'unica compagine gli uomini, divisi tra loro per spazio e tempo, ma partecipi di un'unica parentela (I 1, 3). La storiografia è dunque in stretto rapporto con la filosofia, essendo entrambe ricerca di verità e comprensione dei meccanismi dell'agire umano. In linea con queste argomentazioni, che rivelano un influsso stoico, 
Diodoro espone l'origine della civiltà umana e parla della prima grande civiltà, l'Egitto (libro I). Segue poi la storia dei grandi imperi d'Asia (II-III), a cui si connettono i miti eroici dei greci (specie quelli di Eracle e degli Argonauti: IV). Una breve sosta in senso geo-etnografico è il "libro sulle isole" (V), in cui si esaminano le isole occidentali, seguendo un percorso che dalla Gallia giunge all'Egeo, a Rodi e Creta, non trascurando le isole "mitiche" come quelle del Sole e di Pancaia (teatri di romanzi utopistici celebri nell'Ellenismo, ma che Diodoro, ingenuamente, scambia per reali). Con un'ulteriore esposizione e razionalizzazione dei miti si chiude la prima parte della storia universale (VI). Nei libri VII-X si narrava il periodo dalla guerra di Troia al 480; questi libri, come già detto, sono perduti, ma i successivi, fino al XX, ci sono arrivati. Nei libri XI-XV si tratta in parallelo della storia greca e di quella siciliana, con brevi flash su Roma; il libro XVI è dedicato a Filippo II e il XVII ad Alessandro. La storia ellenistica occupava i libri XVIII-XXII, per poi essere soverchiata da quella romana, che con le guerre puniche (XXIII-XXVII) prendeva ora il sopravvento. I libri XXVIII-XXXVIII si occupavano dell'età dell'imperialismo romano (168-88), per poi proseguire con la storia romana fino alla guerra gallica di Cesare nel 60, con cui l'opera si concludeva.
La Biblioteca Storica rivela fin dal titolo che Diodoro, come egli stesso afferma, ha inteso raccogliere in un'ampia sintesi il contenuto di varie opere storiche per permettere agli studiosi di non disperdersi nella lettura dei singoli autori. L'opera è, dunque, la summa della storiografia greca classica ed ellenistica, "un prezioso deposito di tradizioni diverse, atte a mostrare il nuovo che la storiografia greca ha prodotto dopo la grande stagione tucididea" (Musti). Le fonti utilizzate e ricopiate spesso letteralmente da Diodoro sono quindi numerosissime: nei primi libri Diodoro si avvale di Ctesia di Cnido (medico di corte del re persiano Artaserse II), autore di Storie Persiane in 23 libri, attratto dall'esotico e dal meraviglioso, gli scrittori del III secolo a.C. Ecateo di Abdera e Megastene, interessatisi all'Egitto e all'India; Eforo e Teopompo per ampia parte della storia greca; Clitarco per la storia (ampiamente romanzata) di Alessandro; Timeo e Duride per la storia ellenistica e siciliana; gli annalisti romani e Polibio per la storia romana. Diodoro include nella storia anche il mito, sentito, in linea con Ecateo ed Erodoto, come parte irrinunciabile della conoscenza delle azioni umane. A tale scopo egli utilizza una visione razionale del mito, attingendo a scrittori che già avevano intrapreso tale operazione. 
Se la sua opera è solo una congerie di materiali storiografici, qual è allora la sua importanza? A prescindere dai durissimi giudizi della critica dell'Ottocento (fu definito "il più miserabile degli scrittori" dal tedesco Schwartz), la Biblioteca ha come perno l'ammirevole intento di una storia universale, che racchiude in sintesi il lavoro della migliore (e spesso anche dei "minori") storiografia greca. L'opera si inserisce dunque nella temperie culturale dell'età augustea, in cui Roma è sentita come punto d'arrivo del divenire storico e si rende necessaria la compilazione di storie universali. Diodoro usa un metodo accurato di selezione delle fonti, spesso integrando l'esposizione principale della fonte-base con raccordi ad altri ambiti storico-geografici, sull'esempio del suo modello Eforo e di Polibio. E' vero che il valore storico e cronologico di Diodoro dipende molto dalle fonti utilizzate e che spesso egli si confonde nell'usare le datazioni, ma spesso il racconto diodoreo ci offre narrazioni alternative a quelle di grandi storici, come Tucidide e Senofonte per la storia fino alla guerra del Peloponneso e del periodo immediatamente successivo. Anzi, per il periodo 480-302 Diodoro è la nostra unica fonte continuata, spesso l'unica quando mancano altri autori. Le diversità di stile nelle varie parti si spiega con il cambiamento di fonte, ma nel complesso Diodoro scrive in uno stile scorrevole, usando la koinè, e spesso alleggerisce la narrazione con aneddoti, rinunciando, nel contempo, ad inserire lunghi discorsi come in Tucidide e Polibio proprio in ossequio ai dettami della sinteticità e della praticità.

Scrittori di Magna Grecia. 4. Il Ciclo Epico

Sotto questa denominazione complessiva si indicano i poemi posteriori ad Omero che intendevano completare il racconto della guerra troiana, narrandone le cause e gli sviluppi post-iliadici, inquadrando i miti di Troia nel contesto delle imprese eroiche dall'origine degli dei alla morte di Odisseo.
In tal modo i poemi epici formavano un "ciclo", ossia una narrazione continua dei grandi miti divini ed eroici, in cui venivano inseriti, con opportune modifiche a proemi e finali, i poemi omerici. Purtroppo di questa "catena epica" non abbiamo che pochi ed insignificanti frammenti, che ci consentono solo di capire come gli antichi avevano disposto le varie narrazioni in un corpo organico.
Sappiamo che all'inizio del racconto ciclico erano posti due poemi che narravano la nascita degli dei e i regni divini di Urano, Crono e Zeus (Teogonia), seguiti dall'instaurazione del dominio di Zeus dopo la guerra contro i Giganti (Gigantomachia).
I poemi che narravano la storia mitica di Tebe e dei sovrani Labdacidi, discendenti di Cadmo, formavano il Ciclo Tebano, spesso attribuito ad Omero stesso: ma su questa attribuzione già Erodoto avanzava seri dubbi. Il mito di Edipo, che sconfigge la Sfinge e inconsapevolmente infrange il tabù dell'incesto sposando sua madre Giocasta e accecandosi quando ne veniva a conoscenza, era narrato nell'Edipodia, in cui la discrepanza maggiore rispetto al mito poi divenuto canonico grazie alla tragedia greca era che Edipo non abbandonava Tebe, ma si risposava dopo il suicidio di Giocasta, avendo da questa seconda moglie i figli e le figlie. Al poema di Edipo seguiva la Tebaide, in cui Edipo, cieco e umiliato dai figli, aveva lanciato su di essi due maledizioni consecutive, per cui avrebbero dovuto dividersi il regno con le armi in pugno e avrebbero dovuto uccidersi l'un l'altro. La spedizione dei Sette duci di Argo avveniva, e con esiti catastrofici, per cui i due fratelli si uccidevano a vicenda, l'indovino Anfiarao veniva inghiottito dalla terra e Tideo, mortalmente ferito da Melanippo, lo uccideva e ne beveva il cervello. L'unico a salvarsi era Adrasto, re di Argo, con il suo cavallo divino Areion, mentre i Sette venivano onorati con solenni funerali, come nel finale dell'IliadeGli Epigoni, sulla conquista di Tebe da parte dei figli dei Sette, molti dei quali avrebbero partecipato alla guerra di Troia, chiudevano la saga tebana, ampiamente nota e presupposta nell'Iliade.

Il Ciclo Troiano
Si giungeva, così, all'evento mitico centrale, la guerra troiana, e al cosiddetto Ciclo Troiano, i cui contenuti ci sono noti grazie al riassunto dei vari poemi fatto nel V sec. d.C. dal filosofo Proclo nella sua Crestomazia, una sorta di corso di letteratura greca di cui il patriarca bizantino Fozio (IX d.C.) ha riassunto i primi due libri, sull'epica e la lirica.
1. Canti Cipri (Kypria)
In 11 libri, attribuito a Stasino di Cipro (genero di Omero), era il primo, e più ampio, poema del Ciclo Troiano e narrava le vicende che avevano portato alla guerra di Troia. Il titolo del poema era già agli antichi poco chiaro: si oscilla tra l'ipotesi che indicherebbe il fatto che il poeta che lo compose era nativo di Cipro e quella che incentra il titolo sull'azione di Afrodite, appunto la dea di Cipro.
Sicuramente i Canti Cipri erano successivi all'Iliade, in quanto ne presuppongono vari particolari, come ad esempio il viaggio di Elena e Paride-Alessandro verso Troia, la contesa di Achille e Agamennone su Briseide e Criseide e il "consiglio di Zeus" di suscitare l'ira di Achille. Lo stesso Zeus, nel fr. 1, appare suscitatore della guerra per un motivo "provvidenziale", mosso a pietà dal fatto che:

Infinite schiere d'uomini calcavan la Terra col loro peso:
Zeus d'essa ebbe pietà e in cuor decise
di suscitare una terribile guerra.

Nonostante la mancanza di un filo conduttore, anche etico, i Kypria sono da rivalutare, attraverso l'esame dei 24 frammenti rimastici, per la complessità della visione narrativa e per l'accorta rielaborazione di elementi tradizionali (Huxley).
Ecco quanto riferisce Proclo sulla trama del poema:

"Zeus si accorda con Temi sulla guerra di Troia.
Eris, trovatasi mentre gli dei banchettano alle nozze di Peleo, suscita una contesa per la bellezza tra Atena, era ed Afrodite che, per ordine di Zeus, vengono da Ermes portate sull'Ida da Alessandro per il giudizio: e Alessandro sceglie Afrodite, eccitato per le nozze con Elena. In seguito, poiché glielo consiglia Afrodite, costruisce una flotta, Eleno (figlio di Priamo) predice loro il futuro ed Afrodite invia Enea a navigare insieme a lui. E Cassandra presagisce ciò che sta per accadere.
Arrivato nella regione di Sparta, Alessandro viene ospitato dai Tindaridi (Castore e Polluce, fratelli di Elena) e, in seguito, a Sparta da Menelao: Alessandro, durante il banchetto, dà ad Elena dei doni. In seguito, Menelao naviga verso Creta, avendo esortato Elena a provvedere al necessario per gli ospiti finché non se ne fossero andati. In questo momento Afrodite unisce Elena ad Alessandro e, dopo l'unione, caricata la maggior parte delle ricchezze, salpano nottetempo.
Ma Era scatena contro di loro una tempesta e, giunto a Sidone, Alessandro conquista la città. Salpato verso Ilio, si unisce in matrimonio con Elena.
Nel frattempo s'era scoperto che Castore e Polluce erano ladri dei buoi di Ida e Linceo (loro cugini). Mentre Castore è ucciso da Ida, Linceo e lo stesso Ida, però, sono uccisi da Polluce, e Zeus concede loro l'immortalità a giorni alterni.
Dopo ciò, Iride annuncia a Menelao ciò che è avvenuto a casa sua. Sopraggiunto, si accorda col fratello sulla spedizione contro Ilio, e Menelao va da Nestore.
Nestore, in un colloquio, gli narra come Epopeo, violentata la figlia di Licurgo, fu ucciso, le vicende di Edipo, la pazzia di Eracle e le vicende di Teseo e Arianna.
Poi riuniscono i capi dopo esser giunti in Ellade e, rapito il piccolo Telemaco per punizione, per consiglio di Palamede, svelano che Odisseo si fingeva pazzo perché non voleva unirsi alla spedizione.
In seguito, riunitisi ad Aulide, compiono dei sacrifici, si spiegano gli eventi del serpente e dei passeri e Calcante predice loro le conseguenze.
Poi, partiti, arrivano a Teutrania e la saccheggiano credendola Ilio. Telefo porta soccorsi, uccide Tersandro, figlio di Polinice, ma è lui stesso ferito da Achille.
Mentre salpano dalla Misia, si abbatte su di loro una tempesta e si disperdono. Achille, arrivato a Sciro, sposa Deidamia, figlia di Licomede.
Poi Achille guarisce Telefo, arrivato ad Argo per diventare, secondo un oracolo, un capo della navigazione contro Ilio.
Radunata una seconda volta la flotta in Aulide, Agamennone, colpito un cervo durante la caccia, afferma di essere migliore anche di Artemide e la dea, adirata, impedisce loro di navigare scatenando delle tempeste. Poiché Calcante rivela l'ira della dea ed esorta a sacrificare Ifigenia ad Artemide, si accingono a sacrificarla come se la conducessero in sposa ad Achille: ma Artemide, rapitala, la porta in Tauride e la rende immortale, mentre sull'ara pone un cervo al posto della ragazza.
In seguito navigano verso Tenedo e, mentre banchettano, Filottete, colpito da un serpente d'acqua, viene lasciato a Lemno per la puzza (della ferita), e Achille, invitato tardi, litiga con Agamennone.
Poi, giunti ad Ilio, i Troiani li ricacciano e Protesilao muore per mano di Ettore: in seguito Achille li respinge dopo aver ucciso Cicno, figlio di Poseidone, e rimuovono i morti.
(I Greci) mandano ambasciatori dai Troiani a chiedere Elena e le ricchezze ma, poiché quelli non ascoltano, allora assalgono le mura. Poi, attraversata la regione, saccheggiano anche le città vicine. Dopo questo, Achille vuole ammirare Elena, e Afrodite e Teti li portano in uno stesso luogo.
Achille trattiene gli Achei che si preparano a tornare indietro e poi allontana i buoi di Enea, saccheggia Lirnesso e Pedaso e molte delle città vicine ed uccide Troilo. Patroclo vende Licaone dopo averlo portato a Lemno e Achille prende in dono dalle prede Briseide, mentre Agamennone (prende) Criseide.
In seguito c'è la morte di Palamede ed il consiglio di Zeus per alleggerire i Troiani allontanando Achille dall'alleanza con i Greci.
E (c'è) un catalogo di quelli che combattono insieme ai Troiani".

2. Etiopide (Aithiopìs)
Uno dei più noti poemi del Ciclo era il proseguimento dell'Iliade nel poema in 5 libri di Arctino di Mileto (VII sec. a.C.), che traeva il titolo, Etiopide, dall'episodio centrale, l'arrivo dell'etiope Memnone, nipote di Priamo, in soccorso a Troia.
Arctino, autore anche di una Presa di Ilio ugualmente riassunta da Proclo, era celebrato dagli antichi per la drammaticità e l'attenzione metrica e stilistica del suo poema (di cui abbiamo solo due frammenti), che si saldava all'Iliade già in un finale "a catena" che chiudeva il poema omerico al posto di quello consueto. Infatti l'ultimo verso della nostra Iliade è:

così essi onoravano la sepoltura d'Ettore domator di cavalli.

Mentre le note marginali a questo verso affermano che il finale "ciclico", o anche l'inizio del poema di Arctino, era:

così essi onoravano la sepoltura d'Ettore domator di cavalli;
e venne l'Amazzone figlia del magnanimo Ares uccisor d'uomini.

Qui di seguito diamo il riassunto di Proclo:

"Giunge in aiuto dei Troiani l'Amazzone Pentesilea, figlia di Ares e di stirpe tracia: Achille la uccide mentre combatte con valore, ma i Troiani la seppelliscono. Achille uccide Tersite, offeso e deriso da lui che parla di un innamoramento per Pentesilea: e per questo tra gli Achei nasce una rivolta per l'omicidio di Tersite. In seguito, Achille naviga per Lesbo e, fatti sacrifici ad Apollo, Artemide e Leto, viene purificato dell'assassinio da Odisseo.
Il figlio dell'Aurora, Memnone, arriva a portare aiuto ai Troiani con un'armatura lavorata da Efesto; e Teti predice al figlio le vicende di Memnone. Durante uno scontro, Antiloco (figlio di Nestore) è ucciso da Memnone, e poi Achille uccide Memnone: ed Aurora, che l'ha chiesta a Zeus, gli dà l'immortalità.
Achille, respinti i Troiani e spintosi all'interno della città, è ucciso da Paride ed Apollo: accesasi una violenta battaglia per il cadavere, Aiace lo raccoglie e lo porta alle navi, mentre Odisseo combatte i Troiani. Teti, arrivata con le Muse e le sorelle (Nereidi), eleva il lamento funebre sul figlio: poi Teti (stessa), portato via il figlio dalla pira, lo trasporta nell'isola Leuca.
Gli Achei, innalzato un tumulo, bandiscono i giochi funebri, e tra Odisseo ed Aiace scoppia una lite per le armi di Achille".

3. Piccola Iliade (Mikra Iliàs)
Il poema di Arctino sembra interrompersi, nel riassunto di Proclo, alla contesa per le armi di Achille tra Aiace ed Odisseo, già nota all'Odissea, ma i frammenti dell'Etiopide in nostro possesso sembrano indicare che l'Etiopide proseguiva il racconto del giudizio delle armi fino al celebre suicidio di Aiace. Probabilmente Proclo ha tagliato l'Etiopide e ha proseguito con la Piccola Iliade di Lesche di Mitilene (probabilmente contemporaneo e rivale di Arctino, come sostenevano gli antichi) per non spezzare l'esposizione.
Il poema di Lesche, in 4 libri, ha interessato gli studiosi perché i suoi 19 frammenti mostrerebbero che si trattava di un poema orale, basato sulla dizione formulare e su tradizioni ignote ad Omero, come il mito di Euripilo e il ratto del Palladio, la celebre statua di Atena protettrice dell'inviolabilità di Troia. Lo stesso incipit del poema richiama inizi formulari:

Canto d'Ilio e di Dardania vasta, ove gli Achei soffersero aspre pene.

"Si ha il giudizio delle armi ed Odisseo le riceve per volere di Atena, mentre Aiace impazzisce, distrugge il bottino degli Achei e si uccide.
Odisseo poi tende un'imboscata ad Eleno e lo cattura e, poiché costui ha vaticinato sulla presa di Troia, Diomede porta Filottete via da Lemno. Costui, curato da Macaone, combatte in duello con Paride e lo uccide: i Troiani raccolgono e seppelliscono il cadavere oltraggiato da Menelao. Dopo questi eventi, Deifobo (fratello di Paride) sposa Elena.
Odisseo, condotto Neottolemo via da Sciro, gli dà le armi del padre ed Achille gli appare in sogno. Euripilo, figlio di Telefo, arriva in soccorso dei Troiani e Neottolemo lo uccide mentre combatte con valore.
(A questo punto) i Troiani sono bloccati ed Epeo, su ispirazione di Atena, costruisce il cavallo di legno. Odisseo, sfiguratosi da solo, va ad Ilio come spia e, riconosciuto da Elena, si accorda per la presa della città e torna alle navi dopo aver ucciso alcuni Troiani. Dopo questi fatti, porta via da Ilio il Palladio insieme a Diomede.
Poi, dopo che i migliori sono entrati nel cavallo di legno e le tende sono state bruciate, gli altri Greci salpano verso Tenedo. I Troiani, credendo di essersi liberati dai guai, accolgono in città il cavallo di legno, distruggendo parte della muraglia, e banchettano come se avessero vinto sui Greci".

4. Presa di Troia (Iliupersis)
L'altra opera di Arctino di Mileto si saldava alla sua Etiopide narrando la presa di Troia in 2 libri, un tema poi divenuto canonico nell'arte e nella letteratura (basti pensare al II libro dell'Eneide virgiliana o alla Tabula Iliaca, un rilievo che rappresenta la presa di Troia in base all'omonimo poema di Stesicoro).
Dai frammenti della Piccola Iliade di Lesche, però, pare di capire che il suo poema (il cui riassunto è stranamente "appeso" nel finale) narrasse anche la presa della città, con una narrazione particolareggiata dell'ultima notte di Troia e degli episodi che si erano svolti: il che fa pensare che ancora una volta Proclo abbia tagliato il riassunto di un poema (la Piccola Iliade) per non rompere l'omogeneità del racconto:

"I Troiani, poiché sono sospettosi su ciò che riguarda il cavallo, lo circondano e discutono su cosa convenga fare: ad alcuni sembra opportuno buttarlo in mare, ad altri bruciarlo, e altri ancora dicono che bisogna consacrare quell'offerta ad Atena, e infine vince la loro opinione. Datisi alla gioia, banchettano come se avessero finito la guerra.
In questo momento, due serpenti appaiono e uccidono Laocoonte ed uno dei suoi figli. Atterriti dal prodigio, Enea ed i suoi compagni se vanno sull'Ida.
Sinone, che prima era entrato travestito, tiene alte le torce per gli Achei, e quelli che erano salpati da Tenedo, con quelli del cavallo di legno, piombano sui nemici, ne eliminano molti e conquistano la città con la forza.
Neottolemo uccide Priamo che s'era rifugiato sull'altare di Zeus Erceo, mentre Menelao, ritrovata Elena ed ucciso Deifobo, la riporta sulle navi. Aiace Oileo, invece, mentre tira a forza Cassandra, rovescia la statua lignea di Atena, per cui i Greci, inaspritisi, decidono di lapidare Aiace, che però si rifugia sull'ara di Atena e si salva dal pericolo incombente. Poi i Greci salpano, ed Atena progetta per loro la rovina proprio in mare.
Dopo che Odisseo ha eliminato Astianatte, Neottolemo prende in premio Andromaca e viene distribuito ciò che resta. Demofonte ed Acamante (figli di Teseo), invece, che hanno ritrovato Etra (loro nonna e schiava di Elena), la portano con loro. Poi, incendiata la città, (i Greci) immolano Polissena sul sepolcro di Achille".

5. Ritorni (Nostoi)
I ritorni degli eroi erano narrati nel poema omonimo in 5 libri scritto da Agia di Trezene, sicuramente posteriore all'Odissea con la sua intenzionale esclusione del ritorno di Odisseo.
Il poema è notevole perché Agia è il primo poeta della Grecia continentale a trattare il tema omerico, allargando i cenni odissiaci sui ritorni sfortunati degli Achei e fondendoli con elementi complessi e stratificati del folklore o dell'epica preomerica, come già Stasino.

"Atena mette in contrasto Agamennone e Menelao sulla navigazione e, mentre Agamennone resta per placare l'ira di Atena, Diomede e Nestore si avviano e arrivano salvi a casa, Menelao, partito con loro, arriva in Egitto con cinque navi, mentre le altre periscono in mare.
Quelli con Calcante, Leonteo e Polipete, marciando a piedi verso Colofone, vi seppelliscono Tiresia che è morto.
Mentre il seguito di Agamennone sta per salpare, il fantasma di Achille appare e prova a bloccarli predicendo ciò che accadrà. Poi si descrive la tempesta alle rocce Caferidi e la rovina di Aiace locrese.
Neottolemo, su consiglio di Teti, compie a piedi il tragitto; arrivato in Tracia, trova Odisseo a Maronea e compie il resto del viaggio e seppellisce Fenice (suo maestro) che è morto: lui, poi, giunto presso i Molossi, è riconosciuto da Peleo.
Poi, dopo che Agamennone è stato ucciso da Egisto e Clitemnestra, c'è la vendetta da parte di Oreste e Pilade e il ritorno a casa di Menelao".

6. Telegonia
La Telegonia, in 2 libri, era l'ultimo dei poemi del Ciclo Troiano e narrava le ultime vicende di Odisseo.
Essa risale alla metà del VI secolo, datazione a cui ci riconduce la provenienza del suo autore, il poeta Eugammone di Cirene, la cui patria era stata fondata all'inizio del secolo.
Eugammone appare, dal riassunto, come un poeta innovatore del mito presupposto nell'Odissea, di cui sviluppa in senso originale i cenni sulle avventure e sulla morte di Odisseo dopo il ritorno ad Itaca. Tuttavia niente di più possiamo dire, poiché di esso ci rimane ancor meno che degli altri poemi, in quanto ne abbiamo un solo frammento, non testuale, ed anche lo stesso Proclo ne offre un sunto più che essenziale:

"I Proci vengono seppelliti dai loro congiunti.
Odisseo, dopo aver sacrificato alle Ninfe, parte per l'Elide ad ispezionare le greggi ed è ospitato da Polisseno e riceve in dono un cratere su cui ci sono le vicende di Trofonio ed Agamede e di Augia.
In seguito, Odisseo torna ad Itaca e offre i sacrifici prescritti da Tiresia, poi si reca dai Tesproti e ne sposa la regina Callidice, conducendoli in battaglia contro i Brigi. Qui Ares mette in fuga Odisseo e la sua gente e Atena lo affronta in battaglia, ma Apollo li riconcilia. Dopo la morte di Callidice sale al trono Polipete, figlio di Odisseo, il quale torna ad Itaca.
Intanto Telegono, partito in cerca del padre, sbarca ad Itaca e razzia l'isola; Odisseo, che si arma per scacciarlo, è ucciso dal figlio ignaro.
Riconosciuto il suo errore, Telegono porta il corpo del padre, Telemaco e Penelope a sua madre (Circe), e lei li rende immortali. Telegono sposa Penelope e Telemaco sposa Circe".

Le scarse notizie e frammenti del ciclo troiano sono ancor più drammaticamente ridotte per altri cicli di cui abbiamo solo notizie isolate, come quello di Eracle e quello, antichissimo, degli Argonauti.
Dobbiamo dunque a Proclo la conoscenza delle trame altrimenti ignote di poemi che aiutano ad inquadrare meglio lo sviluppo di una tradizione rapsodica amplissima, che faceva capo alle colonie greche d'Asia Minore, da cui quasi tutti i poeti "ciclici" provenivano, e che si sviluppò in maniera ampia soprattutto tra VIII e VI secolo.
Per il resto, questi poeti provano la diffusione dei poemi omerici, intenzionalmente presupposti e "completati" con le vicende pre e post omeriche: sta di fatto che essi, in modo più o meno prolisso, non hanno però colmato la lacuna dei dieci anni di guerra assenti in Omero, pur operando spesso su materiale che dev'essere di provenienza anche piuttosto antica (Canfora) e ampiamente diffuso in Magna Grecia da Stesicoro e Ibico.
La ragione di un naufragio così totale dei poemi del Ciclo è di carattere stilistico. Gli antichi notavano, a partire da Aristotele nella sua Poetica, la loro mancanza di unità, in quanto i poeti ciclici sovrapponevano le diverse vicende in una monotona sequenza di tipo più "storico" che epico, ossia come un semplice succedersi di eventi senza un centro unificatore di tipo morale o concettuale: nell'Iliade filo conduttore era la celebre "ira di Achille" e nell'Odissea il ritorno di Odisseo, mentre nei poemi ciclici si offriva una pura e semplice "descrizione complessiva del passato mitico incentrato intorno alla guerra di Troia" (Meister).
Tale concezione, sia pure di carattere tipicamente greco nella sua razionalità (Schwartz ha parlato del Ciclo come di "storicizzazione dell'epos"), produceva sicuramente un carattere di prolissità e pesantezza (nonostante la relativa brevità dei testi rispetto ai poemi di Omero), anche per la diversa tempra dei poeti, e che finì per passare in proverbio.
Gli Alessandrini, infatti, bollavano con l'aggettivo "ciclico" ogni opera sciatta e priva d'arte, come appare ad esempio negli epigrammi di Callimaco, e la loro condanna estetica finì per decretare fin dal V secolo d.C. (un contemporaneo più giovane di Proclo, il commentatore filosofico Giovanni Filopono, nota che i poemi ciclici erano scomparsi alla sua epoca) la scomparsa di questi poemi, relegati ad essere consultati solo dai mitografi e dagli eruditi e sicuramente non trascritti sui codici in minuscola, cosa che rende piuttosto improbabile un futuro arricchimento delle nostre conoscenze grazie a scoperte papiracee, data questa scarsissima diffusione.

lunedì 7 luglio 2014

Scrittori di Magna Grecia. 3. Evemero

Su Evemero abbiamo pochissimi dati. Nato a Messene, probabilmente l’odierna Messina, intorno alla metà del IV secolo a.C., orbitò nella corte di Cassandro, figlio di Antipatro, il generale di Filippo II di Macedonia che Alessandro aveva nominato reggente in sua assenza. Alla morte di Antipatro, nel 316, Cassandro si nominò re di Macedonia, dopo essere stato reggente in nome del figlio di Alessandro, che fece eliminare per assicurarsi il trono.
Evemero divenne così uno dei “sodali” o eteri del nuovo sovrano, svolgendo mansioni militari e diplomatiche: secondo la tradizione, Cassandro lo incaricò di effettuare dei viaggi di esplorazione nella zona del Golfo Persico, partendo dalla penisola arabica. Il viaggio dovette collocarsi senz’altro prima del 297, data della morte di Cassandro, e da esso Evemero trasse spunto per comporre un’opera dedicata appunto al sovrano macedone. Dopo questa data, non abbiamo altre notizie dell’autore.
Evemero fu famoso, nell’antichità, per la sua opera intitolata Scritto Sacro, in 3 libri, di cui restano 26 frammenti. Lo Scritto aveva la forma, ormai consueta dopo la pubblicazione di numerosi resoconti di viaggio degli alessandrografi, di una descrizione geo-etnografica abbinata a riflessioni di tipo, appunto, etnografico e sociale, come nella Navigazione dell’India di Nearco, ammiraglio di Alessandro.
Grazie al compendio in Diodoro Siculo (V 41-46 e VI 1) ed ai numerosi frammenti della traduzione di Ennio (Euhemerus), abbiamo un’idea piuttosto completa del contenuto di questo scritto particolare, probabilmente diviso in tre libri, come si è detto, rispondenti alla descrizione geografica (I), politica (II), teologica (III).
Nel I libro, Evemero raccontava di essere partito dall’Arabia per dirigersi in esplorazione nell’Oceano Indiano. Persa la rotta, la spedizione approdò in vista di un arcipelago di cui l’isola principale era Pancaia o Iera.
Seguiva una descrizione dei mirabilia dell’isola, notevole per i suoi aspetti naturali e per le particolari usanze religiose degli abitanti. Iera-Pancaia, un’isola sacra ricca di alberi di incenso ed altre essenze vegetali adatte ai sacrifici ed ai riti religiosi, era larga quasi 36 chilometri, ed aveva a poca distanza un altro isolotto che fungeva da cimitero reale.
I Pancei erano non solo indigeni, ma anche di provenienza orientale, come Oceaniti ed Indiani, nonché Sciti e Cretesi, quindi popoli di grande saggezza, ed abitavano nella capitale, Panara, che aveva leggi proprie e non era retta da un sovrano, ma da tre magistrati annuali, che si occupavano della giustizia ordinaria coadiuvati dai sacerdoti.
A 10 chilometri da Panara era stato eretto, in una pianura, il tempio di Zeus Trifilio, ossia delle tre tribù primitive dell’isola, i Pancei, gli Oceaniti ed i Doi. La zona del tempio, descritta con dovizia di particolari, era ricchissima di flora e fauna, così come notevole era il tempio, lungo 60 metri ed al quale si accedeva tramite un viale lungo 720 metri e largo 30. Dominava la piana il monte Olimpo Trifilio, sede dei primi abitatori dell’isola e di osservatori astronomici naturali.
Oltre a Panara, l’isola aveva come città notevoli Iracia, Dalis ed Oceanis.
Evemero doveva poi dedicare il II libro alla descrizione della politeia, della costituzione e della società di Pancaia.
La società era tripartita: alla prima “casta”, quella dei sacerdoti, spettava la direzione degli affari pubblici e delle controversie giuridiche. La seconda “casta”, degli agricoltori, si occupava della lavorazione della terra e dell’immagazzinamento dei prodotti per l’uso comune: come incentivo al lavoro, i sacerdoti stilavano una classifica dei più meritevoli, il primo dei quali riceveva un premio. Ultima casta era quella dei soldati, che, stipendiati dallo Stato, proteggevano il paese vivendo in accampamenti fissi e tenendo lontani i briganti che, in una zona del paese, attaccavano gli agricoltori. Principale arma da guerra, come nella Grecia omerica, era il carro.
Seguiva poi, nella descrizione della società, un’ampia sezione dedicata ai prodotti metalliferi dell’isola ed ai costumi dell’abbigliamento dei Pancei.
Il III libro, infine, svolgeva l’argomento da cui l’intera opera traeva il nome e lo scopo “politico”: la religione ideale dei Pancei.
Ritornando alla descrizione del tempio di Zeus Trifilio, Evemero descriveva brevemente il culto tributato agli dei dai Pancei e la struttura interna del tempio, nel quale era posta una stele d’oro che recava iscritte, in geroglifici, le imprese degli dei che i sacerdoti cantano negli inni e nei riti divini.
Secondo la casta sacerdotale di Pancaia, gli dei erano nati a Creta ed erano stati condotti a Pancaia dal grande re Zeus, di cui Evemero narra la genealogia e le imprese. Dopo essersi dilungato ad esporre le complesse trame di potere che portarono Urano a divenire il primo re del mondo abitato e ad essere onorato per la sua conoscenza dell’astronomia come dio del cielo, Evemero riporta che Crono, figlio minore di Urano, spodestò il legittimo erede, il fratello Titano, dopo una guerra e, sposata Rea-Opis, sua sorella, generò Zeus, Era e Poseidon.
Ultimo gran re fu appunto Zeus, figlio di Crono, che liberò fratelli e zii dalla prigionia in cui Crono li aveva costretti e, con diversi matrimoni, si assicurò una numerosa discendenza. Assicuratasi l’alleanza con Belo, re di Babilonia, Zeus conquistò poi la Siria e la Cilicia, nonché l’Egitto, dove ricevette il titolo onorifico di Ammone e con questo nome vi venne onorato sotto le spoglie di un ariete, poiché in battaglia indossava un elmo aureo ornato appunto da corna d’ariete.
Percorsa cinque volte la terra e beneficatala con i semi della civiltà e della religione, Zeus, in tarda età, prima di morire, condusse appunto a Pancaia i suoi discendenti, ai quali lasciò compiti specifici di governo: suo fratello Poseidon governò i mari ed i percorsi marittimi, così come Ade si occupò dei riti e dell’amministrazione dei morti ed Ermes presiedette all’alfabetizzazione ed alla diffusione della cultura. Morto Zeus, che aveva fatto incidere su una stele d’oro le imprese sue e dei suoi avi, gli fu eretto un tempio, appunto di Zeus Trifilio, ed Ermes incise sulla stele le imprese dei suoi discendenti, che come lui sono onorati come dei dagli uomini per le grandi imprese compiute.
L’opera utopistica di Evemero, come si è visto, si imperniava quindi su due concetti fondamentali: innanzitutto, la descrizione, secondo il grande modello platonico, di una società ideale, basata sull’interazione tra uomo e natura, senza sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali ed umane, ma anzi con un’equa ripartizione dei compiti, e sulla possibilità, per un sovrano di ricevere onori divini se attento a beneficare, più che a sfruttare, i suoi sudditi.
In tal modo, Evemero si ricollega all’utopismo ellenistico di cui abbiamo altri notevoli esempi, ma al contempo lo storicizza: con la sua opera non solo offre un modello di società organizzata e in cui il lavoro è perfettamente e sistematicamente ripartito, ma offre la legittimazione teorica del culto divino tributato ai sovrani, che già all’epoca di Alessandro aveva suscitato scalpore. Evemero, in linea con quanto si andava affermando sul modello teocratico di tipo orientale, legittima il culto divino del re come salvatore e benefattore, non allontanandosi, però, eccessivamente dall’ortodossia, anzi riconoscendo come divinità le forze della natura. Quindi ad Evemero premeva non tanto la spiegazione razionalistica del mito, quanto la legittimazione di un uso politico in costante ascesa nell’epoca ellenistica.
Fu però l’intento razionalistico a prevalere nella lettura della sua opera e a decretarne la conservazione in autori posteriori. La spiegazione del divino presente nello Scritto Sacro ebbe poco seguito nell’ambito della cultura antica, scatenando anzi numerose polemiche in un senso o nell’altro, come il rifiuto, ad esempio, di Callimaco nell’Inno a Zeus o l’ammirazione di Ennio, che tradusse e rielaborò l’opera, probabilmente dedicandosi soprattutto al III libro. Tuttavia, con tutte le riserve suscitate, la spiegazione “evemeristica” restò l’unica sistematica sugli dei nell’antichità e venne quindi ampiamente utilizzata negli apologisti cristiani come Lattanzio, Tertulliano ed Eusebio, che così trasmettono numerosi frammenti dello Scritto

giovedì 3 luglio 2014

L'antica Lucania. 15. Uno storico: Posidonio di Apamea

Nato intorno al 135 nell'importante metropoli di Apamea in Siria, direttamente soggetta ai Seleucidi, Posidonio ne visse gli ultimi decenni di guerra contro Roma, conclusisi nel 129, con la morte di Antioco VII in Media nelle lotte contro i Parti. Intorno al 117 Posidonio si recò ad Atene, aderendo alla scuola stoica di Panezio, di cui fu allievo fino alla sua morte, avvenuta nel 110 circa.
In seguito il filosofo si trasferì a Rodi, che all'epoca era, grazie all'alleanza con Roma e ad una politica sostanzialmente moderata, un fiorente centro mercantile e culturale: Posidonio ne divenne cittadino e fece parte del governo con la carica di pritano, fondando nel contempo una sua scuola che vide come allievi, tra gli altri, Varrone e Cicerone.
Posidonio, che doveva sicuramente essere di origine nobiliare, poiché si spostò spesso da Rodi, intraprese una serie di viaggi di studio nelle regioni nord-occidentali del Mediterraneo, in Italia e nell'Adriatico, spingendosi fino a Cadice, sullo stretto di Gibilterra.
Nell'87 Rodi lo inviò come ambasciatore a Roma presso Mario; in seguito il filosofo si ritirò definitivamente a Rodi, dove strinse amicizia con Cicerone, che ne fu ascoltatore nel 77, e Pompeo, che gli fece visita nel 66, partendo per la guerra contro i pirati, e nel 62, dopo aver sconfitto Mitridate. D'altra parte, Posidonio ne ricambiò il favore scrivendo una monografia sulle sue imprese.
Dopo un'ultima ambasceria a Roma nel 51 per rinnovare il trattato tra Rodi e Roma, Posidonio, da tempo tormentato dall'artrite, si spense poco dopo.

Posidonio scrisse più di 25 opere, di tipo filosofico, ma anche scientifico e storico. Di tutto questo non abbiamo che i titoli e pochi frammenti.

1.     Opere scientifiche 
Posidonio osservò le maree e i fenomeni tipici dell'Atlantico nel suo soggiorno a Cadice nel 100, traendone osservazioni confluite nel trattato Sull'Oceano (di cui restano 32 frammenti); si occupò, inoltre, di astronomia nelle opere Sulle Meteore e Sulla grandezza del sole. In queste opere, di cui gran parte è confluita nelle Naturales Quaestiones di Seneca e all'inizio del III libro di Strabone, il filosofo cercava di spiegare le relazioni tra i fenomeni naturali alla luce dell'unione simpatetica tra gli elementi del cosmo, che sono parti di un tutto costituito dal Logos divino. Infatti metteva in relazione le maree con la Luna e il Sole e ipotizzava la nascita improvvisa di isole e bracci di mare con l'ipotesi di innalzamenti del fondo marino, riallacciandosi così alla teoria delle catastrofi "cicliche" che colpirebbero il mondo secondo gli stoici.

2.     Opere retoriche 
In conformità agli interessi stoici sul linguaggio e sulle parti del discorso, Posidonio compose un trattato Sul sublime, delle Esercitazioni retoriche e gli Argomenti di Demostene.

3.     Opere filosofiche 
Come stoico, Posidonio incentrò innanzitutto la sua riflessione (probabilmente racchiusa in nuce nei Discorsi protettrici) sulla liberazione dalle passioni e sul ruolo di onesto ed utile nella condotta umana (Sul dovere, Sulle passioni, Sull'anima), come riferito da Cicerone, che lo utilizzò nella seconda parte del suo De officiis.
Il discorso teologico e metafisico veniva ad integrare quello etico, in quest'ottica stoica, seguendo le direttive del suo maestro Panezio, il ruolo della provvidenza divina nel regolare il mondo e l'inutilità di poterne conoscere i disegni tramite la divinazione (Sugli dei, Sul mondo, Sulla divinazione). Il saggio può solo conformarsi alla razionalità insita nel disegno del cosmo cercando di regolare le passioni umane, che sono un elemento connaturato al suo essere, simbolo del potere finito e deviante del corpo che l'anima razionale può dirigere al bene.

4.     Opere storiche 
Oltre alla monografia Su Pompeo, l'opera storica di Posidonio più rappresentativa è il suo capolavoro Storie dopo Polibio, in 52 libri, che partiva dal 144 (data terminale dell'opera di Polibio) per arrivare almeno all'età sillana. L'ultimo frammento databile parla della guerra mitridatica dell'85 e si può quindi ipotizzare che fosse quindi questa la data terminale, che veniva proseguita nella monografia su Pompeo. I caratteri ed ampi brani dell'opera sono ricostruibili dalle citazioni di Ateneo e dall'ampio uso fattone nei libri XXXII-XXXVII di Diodoro Siculo, ma l'articolazione complessiva ci sfugge.
Posidonio, affrontando un periodo delicato e pieno di sconvolgimenti come l'età dell'imperialismo successivo alla conquista del Mediterraneo, si è posto la domanda di come farlo e di quali fossero le direttive della politica di quest'età.
Dal proemio diodoreo sappiamo che egli dava alla storiografia un valore pragmatico e didascalico, cioè quello di rispecchiare l'universalità del Logos, di cui il mondo nel suo complesso fa parte (giustificando quindi una storia universale), e di criticare gli eccessi del potere degli equites, colpevoli di abusi ai danni di altri esseri umani (F 7, 108 J.), in un'ottica paternalistica verso gli schiavi poi ripresa nella celebra lettera "sulla schiavitù" di Seneca.
Ne conseguiva che Posidonio, in linea con l'orientamento politico degli optimates romani, svalutava l'ascesa al potere degli equites (F 111 J.). Quest'ottica corrisponde alle origini nobiliari dello storico e, se da un lato è insistente la critica alla demagogia dei populares, come nella svalutazione dei Gracchi (F 110-112 J.) e di Mario (F 45), da lui conosciuto personalmente, questo non gli impedisce di riconoscere che gli inizi politici di questi personaggi sono stati ottimi, ma poi viziati dall'aver scelto una strada eccessiva e sbagliata: di Mario stesso esaltava le capacità strategiche, dando un'ampia narrazione delle su guerre contro Cimbri e Teutoni, cui attinse Plutarco nella sua biografia di Mario.
Posidonio si fa dunque portavoce non solo del cosmopolitismo stoico, ma lo unisce alla teoria aristotelica del giusto mezzo: in tale ottica criticava lo sfruttamento indiscriminato degli schiavi che aveva cerato le spaventose rivolte servili in Sicilia, su cui giocava gran parte della sua narrazione, mirata ad una rappresentazione retorica e drammatizzata.
Gli eccessi, sosteneva Posidonio, sono criticabili da una parte e dall'altra, specie quando portano abili demagoghi al potere: quest'assunto era ampiamente sviluppato a proposito del tiranno ateniese Atenione, capo della resistenza attica contro Silla, di cui Posidonio dava una caratterizzazione quasi parodica, tramandata integralmente da Ateneo (F 36 J.).
Infine, per amor di completezza, Posidonio inserì nella sua opera numerosi excursus etnografici e geografici sui popoli con cui i Romani entrarono in contatto all'epoca, diventando il massimo etnografo antico (Muller): in queste digressioni, come quelle sui Cimbri (F 13 J.), sui Celti (F 15 J.) e sulle miniere della Spagna (F. 37 J.), emergeva l'attenzione moralistica del filosofo, che nell'attenzione ai popoli primitivi vedeva l'affermazione pratica del concetto per cui al progresso materiale corrisponde una decadenza dei costumi (concetto poi fatto proprio dal Sallustio della Congiura di Catilina e dal Tacito della Germania).
Nelle digressioni Posidonio sfruttava il materiale raccolto nei suoi viaggi occidentali, egli tentava di offrire un quadro d'insieme degli eventi e delineare l'oggetto della sua storia come "narrazione di un periodo della civiltà umana" (Meister).
Posidonio rappresenta una figura di eclettico ben inserito nel clima della curiositas tardo-ellenistica: egli cerca di unire le scienze, riprendendo l'ottica unitaria di Aristotele all'interno di una concezione stoica che vedeva il molteplice come espressione dell'Uno. E' questa la sua originalità, che ne fa uno dei maggiori esponenti dello Stoicismo di mezzo, con il suo maestro Panezio.
Si tratta, dunque, non solo di una filosofia metafisica e mistica, ma soprattutto pragmatica (Musti), che spiega l'enorme fortuna del filosofo presso i Romani, che ne assimilarono la lezione di ricerca e di unione delle branchie dello scibile in un sistema intercorrelato, come in Varrone e nelle opere filosofiche di Cicerone. Gli storici come Cesare, Sallustio, Tacito, con l'attenzione ai popoli "diversi" in chiave moralistica, ne assimileranno la lezione storiografica e metodologica.

"Era comunque quella di Posidonio la risposta lungimirante di chi guardava più lontano … e traeva da quelle guerre sanguinose ed infelici l'intuizione di una crisi" (Canfora), come già Polibio nel suo VI libro.