giovedì 21 aprile 2022

La Basilicata moderna. 41. Un sovrano in Basilicata

Nell’ambito del più generale contesto relativo al «tempo eroico» del Regno di Napoli, come fu definito da Bernardo Tanucci, ossia l’istituzione del Regno autonomo sotto la dinastia dei Borbone, solo da alcuni anni la storiografia ha ripreso ad analizzare il primo ventennio del riformismo borbonico, relativo ad una risistemazione della compagine statale e ad una ridefinizione delle direttrici di sviluppo del Mezzogiorno d’Italia. Certamente, dopo i fondamentali lavori generali di Michelangelo Schipa, Benedetto Croce, Raffaele Ajello, Raffaele Colapietra e Pasquale Villani, un nuovo impulso è stato dato da studiosi della scuola di Giuseppe Galasso e di Augusto Placanica, con nuovi, approfonditi, studi relativi alla persona di Carlo di Borbone al di là della tradizionale mitizzazione del “padre fondatore” del Regno quale fu imposta dalla pubblicistica fin dal cruciale 1759, alla sua partenza per la Spagna.

Particolare interesse, in tale direzione, riveste lo studio delle realtà provinciali nel corso del primo trentennio del XVIII secolo, un’epoca solo da pochi anni rivalutata e studiata a livello provinciale, con uno scavo archivistico ancora, certamente, agli inizi, ma che evidenzia come il Viceregno austriaco e i primi anni del regno carolino vadano ancora “dissodati” per scoprire le articolate realtà delle province che uscivano dalla crisi generale del Seicento con variegati contesti politico-istituzionali e socio-economici.

In una provincia interna come la Basilicata, era ancora prevalente, all’interno delle singole comunità rurali, dunque, un’organizzazione chiusa e fortemente gerarchizzata, nella quale il sacerdote-amministratore svolgeva un ruolo di primaria importanza. Intorno a questa figura ruotavano, come detto, non solo interessi religiosi, ma anche di carattere economico, attraverso censi sulle case e sui terreni, di concessioni e fitti per il pascolo come anche sui piccoli appezzamenti di terra coltivata. Tale tipologia di società a “grappolo” non era esclusiva delle chiese ricettizie, ma propria anche dei  nuovi gruppi dirigenti rappresentati da pochissimi proprietari, e dagli amministratori dei beni del feudatario. 

Al 1729, quasi tutti i bilanci delle Università lucane, comunque, presentavano un disavanzo, per così dire, “fisiologico”, mentre il rapporto tra le imposte di consumo e le altre imposte era mutato: infatti, si registrò un notevolissimo spostamento tra il gettito ottenuto dalle gabelle e quello ottenuto dal nuovo catasto, con un generale trend di riequilibrio della pressione fiscale e un calo della tradizionale, gravosissima, gabella della farina, che era stata il perno della fiscalità spagnola. Infine, l’operato della Giunta del Buongoverno aveva, altresì, creato una decisa riduzione delle somme sulle quali gravava l’ipoteca dei baroni, tradizionali creditori delle Università, pur se rimaneva, in sostanza, inalterata la percentuale delle locali finanze per il Regio Fisco. In realtà, ferma restando la pressione fiscale del Centro sulla periferia, le uscite ipotecarie per il baronaggio si erano ridotte, in Basilicata, almeno del 50%, sicché le Università poterono investire somme più consistenti per le spese amministrative o sociali.

In alcuni casi, l’affrancamento dalle ipoteche baronali produsse positivi trend, che crearono un circolo virtuoso notevolissimo per la crescita di un centro e del suo hinterland. È il caso di Tolve, dove il riscatto di 40.826 ducati che l’università versò alla principessa Pignatelli apportò un notevole contributo, tanto economico quanto politico, alla definizione del potere locale. Se in alcune famiglie si ebbero segni di crisi dovute alla parte di quota versata per il riscatto, altre trassero enormi benefici che ne accrebbero il prestigio. Sul versante demografico si registrò un incremento, dovuto in parte anche all’arrivo di famiglie (ben 115) provenienti da altri centri, attirati dai terreni finalmente disponibili, tanto che Tolve sarebbe passata dai 2550 abitanti del 1736 ai 3382 del 1794. Il nuovo massiccio incremento di terre coltivabili derivate dai beni feudali, ora in mano all’Università, ne scatenò la corsa all’occupazione: da un lato l’alleanza del nascente ceto degli ex «camparoli», che riuscirono ad aggiudicarsene l’affitto, dall’altro, però, i più poveri, che videro gradualmente svanire l’opportunità di coltivare un fazzoletto di terra di loro proprietà.

Tali situazioni creavano le premesse per gravi tensioni popolari, pronte ad esplodere in qualsiasi momento, come si era verificato, a Matera, proprio nel 1733, quando era giunta notizia delle vittorie di Carlo di Borbone. Popolo e detenuti nelle carceri dell’Udienza si unirono in un moto popolare diretto contro il Preside della Provincia, il marchese Sanfelice che, rifugiatosi nella Cattedrale sotto la protezione dell’arcivescovo Mariconda, riuscì a scampare al linciaggio e, come recita un documento dell’epoca, conservato nell’archivio vescovile «fugam arripuit, ut relatum fuit, et Viennae de Austria perrexit, sub cuius potestatem mansit usque ad eius obitum».

Nel 1735, fu lo stesso sovrano, diretto a Palermo per esservi incoronato ufficialmente rex utriusque Siciliae, a sostare in Basilicata. Il 14 gennaio, partito da Ascoli Satriano, Carlo e la corte, accompagnati dall’esercito guidato dal Montemar, fecero tappa a Venosa, dove, come riferisce un cronista dell'epoca, "Ritrovò essergli uscita allo ‘ncontro in muta a 6, e con tutta pompa l’Udienza in corpo della Città di Matera, Metropoli di quella provincia, unitamente con una buona quantità di Nobili, a presentargli i dovuto omaggio; e dopo aver questa inchinato con riverenti modi la M. S., montati sì il Preside che gli Uditori e Nobili su buoni cavalli, andaron sempre così servendola all’intorno […] per fin’entro della lor residenza di Matera".

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La corte risiedette, poi, in una casa di campagna in possesso dei Minori Osservanti, distante sei miglia da Matera, nella quale Carlo fece un trionfale ingresso alle 22, accompagnato dal vescovo Mariconda con il clero del Capitolo Cattedrale e i rappresentanti dell’Università, per fermarsi nel palazzo vescovile.

Dopo essersi fermato a Matera anche il giorno seguente, 18 gennaio, il sovrano e la sua corte si diressero, poi, verso la costa ionica, con due tappe, presso il Casale di S. Marco, nel territorio di Bernalda, ed infine nel castello di Policoro. 

Tra il 18 e il 20 gennaio, il sovrano si fermò a Montescaglioso, festeggiando nel grande monastero di San Michele Arcangelo anche il proprio compleanno. Il re e il proprio seguito occuparono buona parte del monastero: al sovrano furono attribuite le camere più sontuose, ovvero l'appartamento dell'Abate, al Conte di Santo Stefano furono assegnate alcune camere volte a sud. Altri ambienti e camere furono predisposti per le altre persone della corte, quali Lelio Carafa, Capitano della Guardia del Corpo, il principe Corsini, il marchese Acciajoli, il marchese della Miranda ed il marchese Malaspina. Le camere predisposte per la corte risultarono essere 36 al piano superiore, Al piano di sotto e nei chiostri furono sistemate le persone di servizio ed i reparti militari. 

Il giovedì 20 gennaio, come detto, Carlo volle celebrare il suo ventesimo compleanno. Dalle proprie camere si recò in chiesa, accompagnato dai monaci sotto il baldacchino e seguito dai nobili e dai generali della corte. In chiesa sedette sul trono dell'abate assistendo alla messa cantata celebrata dal Priore. Dopo la messa, lo scoppio dei mortaretti e la fucileria della guardia personale, il Reverendo Priore intonò il Te Deum di ringraziamento e impartì la benedizione. La giornata trascorse tra caccia e banchetti. Successivamente il Priore presentò a Carlo una supplica affinché volesse accogliere il monastero sotto la sua protezione. Il giorno dopo, al momento della partenza, il Sovrano manifestò tutto il proprio gradimento per l'accoglienza ricevuta e, in merito alla supplica del Priore, il Conte di Santisteban, udito il re, sul portone d'ingresso dell‘Abbazia, al momento del commiato, poté solennemente dichiarare: «Il padre Abate è già servito».

giovedì 7 aprile 2022

Potenza. 4. Una sfilata per il conte Guevara

Alfonso II Guevara, sesto conte di Potenza, fu un uomo di cultura, molto interessato alla filosofia ed alla medicina e, quando risiedette a Potenza, amò accogliere a palazzo letterati e poeti come Francesco Teleo e Pietro de Cannutis. Il suo nome è noto, nella storia di Potenza, per l’occasione in cui entrò per la prima volta in città a prendere possesso del feudo: infatti, il 16 marzo del 1578, per ottenere gli Statuti che avrebbero regolamentato l’ordinamento cittadino e la dispensa dall’obbligo di ospitare militari (opzione gravosa per l’ordine sociale e le casse cittadine), il Parlamento potentino aveva deciso di offrire ai Guevara duemila ducati, metà dei quali per onorare Alfonso II per la sua prima entrata in città, di cui era giunta notizia. Si stabilì l’ordine dei portatori del Palio che, insieme alla cavalleria della città (comandata da Orazio Teleo), avrebbero per primi accolto il conte. 

Da marzo a giugno del 1578, la città si impegnò alacremente a prepararsi per accogliere degnamente Alfonso, che giunse, finalmente, il 24 giugno. Tre miglia fuori dalle mura, il conte assistette ad una parata della fanteria, che inscenò una battaglia, con una sfilata di cittadini vestiti da Turchi che si scontrarono con i cavalieri, finendo catturati e incatenati, per ricordare l’impresa di Algeri cui aveva partecipato l’avo del conte, Carlo. 

Quando Alfonso giunse in vista delle mura, gli andarono incontro numerosi bambini vestiti di bianco e con cartelli di elogio per la famiglia, tra le acclamazioni del popolo e i rulli di tamburo; a quel punto, entrando da Portasalza, il conte fu accolto da Francesco Centomani, Mastrogiurato della città, accompagnato dagli eletti cittadini e dal clero locale e che gli consegnò le chiavi di Potenza, richiedendo la Carta degli Statuti. 

Subito dopo, Alfonso II entrava nelle mura sotto un Palio di taffetà e teletta d’oro retto dagli Eletti e che fu la causa di un piccolo screzio tra il conte e il governo potentino: infatti, una volta entrato in Cattedrale, Alfonso ordinò, tramite il suo portavoce, di consegnargli il Palio o pagare, come dono al nuovo conte, mille ducati. Quando, però, il feudatario si accorse che gli animi si erano scaldati, ordinò che il Palio rimanesse alla città di Potenza. 

Tuttavia, Alfonso II Guevara aveva trascurato il fatto che don Francesco Centomani gli avesse chiesto a gran voce, alla sua entrata, di concedere ai cittadini la Carta degli Statuti; la richiesta non aveva ottenuto risposta e, in una seduta del Parlamento potentino, il 7 luglio 1578 il nuovo Mastrogiurato, Agostino Carsia e gli Eletti avevano chiesto nuovamente di confermare gli antichi privilegi di Potenza, decidendo, in una seconda seduta, di inviare ad Ariano, altro feudo dei Guevara, una delegazione con il compito di ritirare una copia del locale Statuto per poter modellare su esso la Carta di Potenza. Le trattative sembrarono concludersi il 17 gennaio del 1579, quando Carsia comunicò agli amministratori che i Guevara avevano deciso di accogliere la richiesta previo compenso straordinario di tremila ducati. Una richiesta che, tutto sommato, era prevista dall’uso feudale dell’epoca, ma che metteva di fatto in ginocchio l’economia di Potenza, tanto che, tre giorni dopo, Carsia si recò a Napoli per chiedere al conte Alfonso di limitare la richiesta. 

Alla fine, il 20 marzo del 1579, lo Statuto fu concesso dai Guevara e letto al popolo potentino convocato in pubblico Parlamento in Piazza del Sedile. Si chiudeva, così, una lunga trafila che avrebbe, comunque, lasciato ai potentini una tradizione di cui parleremo, la sfilata dei Turchi.