giovedì 21 ottobre 2021

Il Mezzogiorno moderno. 19. La stampa periodica meridionale dal 1799 al 1848 (Antonio Cecere)


La stampa meridionale di tipo politico si può dire nasca con la rivoluzione del 1799, facendo sì che si celebrasse, secondo l’espressione di Benedetto Croce, «il Natale del giornalismo politico», riferendosi a quel giornalismo che nasceva allo scopo di educare il popolo alla vita democratica, ponendolo per la prima volta di fronte ai problemi di una “nazione” in trasformazione. Comunque, la libertà di stampa diede la possibilità a numerose testate giornalistiche di venire alla luce. Purtroppo, risulta molto difficile indicare in modo completo la produzione del ’99: molte pubblicazioni furono, infatti, distrutte, in seguito allo specifico editto che il 16 gennaio 1800 il principe del Cassaro, in qualità di luogotenente del Regno e su ordine di Ferdinando IV, fece pubblicare. Tra i diversi periodici pubblicati durante la breve vita della Repubblica Napoletana il «Monitore Napoletano», il periodico redatto da Eleonora Fonseca Pimentel, può essere considerato a ragione la memoria storica del tempo che efficacemente e in diretta restituisce la sensazione degli eventi. Se il «Monitore», comunque, si schierava come periodico semi-ufficiale e di prima fila nell’analisi e nel commento degli atti governativi, altri periodici fiorivano a Napoli, intendendo completare gli spazi lasciati vuoti dal periodico della Fonseca, quali gli aggiornamenti europei, i commenti non ufficiali sugli atti del Governo e gli “eventi” letterario-educativi. Ad esempio, già il 9 febbraio 1799 circolò l’annuncio di un nuovo periodico, il «Corriere d’Europa», con cui Angelo Coda, riproponendo una testata già nota, riprese la sua attività editoriale. Carattere esplicitamente “commentativo”, più che informativo, ebbe, invece, il «Corriere di Napoli e Sicilia», che si presentò ai lettori il 17 febbraio, considerandosi come l’unico periodico finanziato direttamente dal Governo repubblicano. Il «Corriere di Napoli e Sicilia» fu pubblicato dal 17 febbraio al 27 aprile, per venti numeri, con una cadenza variabile. Proprietario e direttore della testata fu Marcilly, che fu redattore con Mittois, per ordine del governo, del «Bollettino delle leggi della Repubblica Napoletana», in cui si raccoglievano tutti gli atti della pubblica amministrazione. Gli articoli e i servizi di cronaca erano divisi secondo una triplice classificazione: «Novelle Straniere», «Notizie Interne», «Varietà», presentate spesso in forma epistolare con corrispondenza da Parigi a Napoli e viceversa. I redattori del giornale assunsero come premessa la volontà, in un governo libero, di istruire il popolo, affinché fosse rispettato il diritto di ogni cittadino di conoscere l’operato di chi lo rappresentava: per questo motivo si proposero di pubblicare gli atti del governo, delle varie amministrazioni e del capo dell’Armata Francese; in quest’ottica, i redattori ritenevano che informare significasse anche esortare il popolo alla rettitudine e che ogni scritto dovesse considerarsi come un pubblico servizio, da incoraggiare quando realmente fosse indirizzato al bene del popolo, da censurare quando invece si allontanasse dai loro bisogni.

Nel Decennio napoleonico, invece, si diffusero periodici d’importazione, diremmo, riportanti notizie interne ed estere pubblicate su vari giornali francesi e tradotte dal francese all’italiano, come il Corriere di Napoli (16 agosto 1806 – 30 gennaio 1811, Napoli), che poi si fonde con il Monitore napoletano e continua con il Monitore delle Due Sicilie; il Giornale delle Due Sicilie (23 maggio 1815 – 9 dicembre 1816, Napoli), che è la continuazione del Monitore delle Due Sicilie e poi del Giornale del Regno delle Due Sicilie; Lo Spirito dei giornali politici (6 gennaio 1821 - 17 marzo 1821, Napoli); infine il Giornale degli amici della patria (1820, Napoli). Testate molto importanti furono anche altri giornali, stampati a Napoli, che riportavano notizie interne ed estere, scritte interamente in lingua francese:  L’Echo. Journal Politique, Commercial et Litteraire (1820, Naples); Journal de l’Empire ( 2 dicembre 1806 – 24 luglio 1807, Naples), che poi cambia il titolo in Journal Français (1807 – 31 dicembre 1813, Naples).

La stampa periodica napoletana, nel periodo compreso fra il 1820 e il 1821, impresse, invece, una visibile traccia negli intellettuali dell’epoca, nell’arco di un determinato momento storico, quale quello della Rivoluzione costituzionale, in cui le divergenze di carattere politico e letterario divennero sempre più diverse e marcate. In particolare, i giornali del 1820 -come accadde già nel 1799, anche se in circostanze diverse, in cui forte fu il sentimento dell’esperienza della Repubblica napoletana - hanno avuto il fine specifico di trasmettere e formare, negli animi dei lettori, una nuova coscienza politica nazionale: la Costituzione spinge l’uomo al bisogno necessario di sentirsi parte della Patria, all’interno di un più grande e compatto equilibrio europeo. I giornali furono, soprattutto, uno strumento di “ponte diretto” fra le ideologie maturate a Napoli e quelle affermatesi in nazioni straniere. 

Una tale determinatezza rivoluzionaria è emersa proprio nelle principali personalità, che sono stati i protagonisti delle vicende della Rivoluzione costituzionale del 1820. Ad esempio, Lorenzo De Concilj, deciso e fermo, scrivendo che «nella metà di giugno, che più non rimaneva tempo alla lentezza, incominciò la esecuzione del suo ardito progetto», come anche gli «eccellenti ufficiali» e «tra essi distinguevasi il giovane Morelli, calabrese di ardente spirito e di straordinario coraggio, al quale si diresse Luciani per indurlo ad agire e lo consigliò a profittare della risolutezza che dalla parte di Avellino manifestava de Concilj». 

A Michele Morelli premeva che si giungesse presto alla rivoluzione. A differenza di quanto scriveva Pietro Calà Ulloa su Morelli, definendolo «meno ardito e più scaltro» rispetto a Silvati, «noto per coraggio, non per acutezza», Morelli, invece, era fin troppo astuto nel pensare che, considerate anche le condizioni davvero complicate, bisognasse agire in poco tempo. Questo particolare profilo caratteriale di Morelli è, infatti, attestato da un interessante articolo pubblicato il 15 agosto 1820 sul Giornale politico-letterario La Voce del Popolo, in cui l’autore scrive, riferendosi a Morelli, che «il suo carattere fu pacifico e freddo, benché tenace e irritabile» anche se, egli aggiunge, «tutto interessa sul conto del nostro liberatore». 

Davvero interessante è, poi, la condizione di disagio collettivo, da un punto di vista politico e istituzionale (e qui iniziamo ad entrare nel vivo dell’analisi di questo lavoro scientifico), evidente in quanto scritto nel primo numero dell’agosto 1820 del giornale Voce del popolo, in cui, nella prima sezione, viene aperto un acceso dibattito, che - già dal titolo Che cosa è la libertà costituzionale? - manifesta chiaramente quello che l’autore stesso definisce «il bisogno di libertà». La particolare importanza di questo articolo risiede nel fatto che la discussione in esso riportata riprende un saggio, tradotto dal francese in italiano, pubblicato su La Minerve française, in cui Étienne Agnan riporta le opinioni di Benjamin Constant sulla libertà costituzionale e sul progresso della società dei popoli europei:

«Da che dipende che moltissimi uomini [...] faccian professione di odiarsi, pel solo motivo che differiscono per opinioni politiche; avegnachè questo non conosce altra via di salvezza, che nel governo costituzionale, mentre chè nella mente dell’altro l’autorità assoluta vien dipinta come il solo rimedio a’ disordini pubblici?».

Infine, si citano alcuni periodici di grande rilevanza di tipo storico-politico. Tra questi: La Minerva Napoletana (8 agosto 1820 – 10 marzo 1821, Napoli),  giornale ripreso e tradotto dal periodico francese La Minerve française; Voce del Popolo (1820, Napoli), che traduce testi pubblicati su La Minerve française e, poi, L’Amico della Costituzione (17 luglio 1820 - l7 marzo 1821, Napoli). Peraltro, nel corso della rivoluzione del 1820-21 in Basilicata fu edito un notevolissimo periodico, il «Giornale Patriottico della Lucania Orientale», che, pubblicato a Potenza a partire dal 10 luglio 1820 con cadenza decadale, esaurì la sua funzione informativa rapidamente all’indomani della concessione della libertà di stampa, voluta dal Parlamento napoletano il 26 luglio. Esso può considerarsi, dunque, data la breve esistenza e la mancanza di seguito, dopo l’entusiasmo rivoluzionario, alla stregua di una prova di giornalismo politico.

E in effetti, dopo i moti costituzionali del 20-21, fu solo dal 1830 che il nuovo sovrano Ferdinando II permise la pubblicazione, accanto ai fogli ufficiali, di testate indipendenti come, nella nostra provincia, il «Giornale Economico Letterario della Basilicata», un periodico trimestrale, che, pubblicato per la prima volta nel 1838, nell’ex tipografia dell’Intendenza, pubblicava non solo articoli tecnici, ma si occupava anche di argomenti letterari e culturali. 

Solo negli anni Quaranta apparvero i primi giornali politici, anche perché agli albori del 1848, comunque, due correnti di pensiero si fronteggiavano nel Regno delle Due Sicilie.  La prima, che si identifica nel progetto riformatore di Aurelio Saliceti, indicato dallo storico borbonico Pietro Calà Ulloa come  il capo indiscusso del movimento radicale nella città di Napoli, si caratterizzava per un’attitudine repubblicana-moderata. Il suo programma puntava a liberalizzare la società e le istituzioni attraverso un nuovo contratto sociale che fondasse, in termini leciti e senza capovolgimenti rivoluzionari, le strutture della democrazia politica. Questa cultura di governo, inoltre, divideva gli obiettivi politici da quelli sociali. Saliceti diffuse le sue idee principalmente attraverso la rivista «Le Charivari». 

La seconda tendenza faceva perno, invece, sulle necessità degli strati sofferenti della società di eliminare le disuguaglianze e le distanze sociali nonché di accedere in maniera più equa e giusta a migliori condizioni di vita. Suoi nemici dichiarati erano la corruzione e gli interessi non sempre leciti delle nuove classi agrarie ed affaristiche. 

Infine, quest’ultima linea di pensiero, se condivideva con la visione “moderata” di sinistra l’esigenza di un nuovo contratto sociale favorevole alla partecipazione del popolo al potere, non ne approva il carattere elitario di base né l’accentuato laicismo, condizionato com’era, dalle correnti del cattolicesimo liberale del tempo. 

Tale alveo radicale era presente in special modo nelle aree più deboli delle Due Sicilie. Esso rivestì un ruolo primario nell’ambito dei governi provinciali e più che ad amministratori della capitale del Regno fece capo ad importanti leader politici locali tra i quali i lucani Ferdinando Petruccelli della Gattina ed Emilio Maffei, il salernitano Costabile Carducci, il calabrese Benedetto Musolino, i pugliesi Francesco Raffaele Curzio e Francesco Cirielli. 

Dalle colonne del giornale è possibile ricavare il sistema di pensiero di Petruccelli in materia di governo. In termini analoghi ad altri radicali la concezione politica dell’intellettuale lucano si collegava in modo preminente ai principi illuministici che avevano finalmente determinato  il crollo irreversibile della vecchia Europa, «mondo di ineguaglianze sociale, di privilegi». Così, per il Nostro, l’insegnamento più importante lasciato dall’esperienza rivoluzionaria francese era l’affermazione dei diritti civili e l’uguaglianza di fronte alla legge. Minore simpatia veniva invece ravvisata nei confronti del successivo dominio bonapartista, del quale stigmatizzava in particolare modo la centralizzazione amministrativa, elemento, secondo lui, di soppressione di libertà individuali e  autonomie locali. 

Il senso più profondo del cambiamento ed il problema della democrazia ottocentesca dovevano consistere, per Petruccelli, nel limitare il potere politico e nell’eliminare i legami che ancora frenavano l’autonomia dell’individuo, nonché nell’allargamento delle libertà al popolo sino al conseguimento del traguardo ultimo, cioè la partecipazione della comunità alla politica della nazione. Per raggiungere questi obiettivi, soprattutto attraverso il suo giornale, Petruccelli iniziò una vera e propria battaglia che non si limitava alla denuncia delle questioni cruciali del rinnovamento del potere politico, ma tendeva a confrontarsi concretamente con i problemi della corruzione, delle disfunzioni e dell’inefficienza dello Stato.

Ma il problema sul quale si versarono fiumi di inchiostro era quello legato alla Costituzione ed alle modalità della sua elargizione. In particolare, in Mondo Vecchio e Mondo Nuovo veniva ribadita come inaccettabile la costituzione censitaria concessa per ‘volere sovrano’ il 12 gennaio e veniva confermata l’opportunità di ricostituire il nuovo stato sulle basi del consenso cittadino. 

Partendo, cioè, dalla convocazione dell’Assemblea costituente del Parlamento, atto politico preposto a rifondare le strutture della politica sulla base dell’adesione dei cittadini, si rivendicava a gran voce la necessità di attribuire al popolo il compito di riplasmare via via tutte le istituzioni. Solo in questo modo si sarebbe provveduto alla formazione del ‘vero’ cittadino quale parte attiva del Paese

giovedì 14 ottobre 2021

L'antica Lucania. 19. La vita quotidiana nell'Alto Impero

La Lucania dal II secolo a.C. viene densamente occupata dall’impianto di numerose villae che soprattutto nelle aree interne hanno prevalentemente carattere produttivo. Ora l’economia romana dal tipo pastorale passa al modello agricolo prima catoniano e poi varroniano; esso dà impulso alla diffusione delle ville a produzione schiavistica, funzionali ad attività produttive specializzate, come olive, frutta, ortaggi e legumi, nonché all’allevamento del bestiame ed alla lavorazione dei prodotti che ne derivavano, come lana, latte e formaggio . Accanto alla cella vinaria alcuni ambienti potevano essere adibiti a deposito per il foraggio .
Anche in Lucania le condizioni per questa forma di sfruttamento terriero erano evidentemente mature, e così i primi esempi di questo nuovo tipo di villae fecero la loro comparsa intorno alla metà del II secolo a.C.; a Monte Irsi (Irsina)  è stata rinvenuta una stalla, parte della villa rustica di una vasta proprietà , costituita da una serie di almeno nove stanze, per lo più aperte verso sudovest, che dovettero servire a ospitare i numerosi buoi utilizzati nei lavori di aratura .
Ugualmente importante sul piano economico continuava ad essere l’allevamento dei maiali. La Lucania era già nota per la sua salsiccia, conosciuta col nome di lucanica, ed è possibile che la carne di maiale venisse trasformata in salsicce e venduta fuori del territorio regionale .
Al II secolo a.C. si datano anche i resti di una villa più modesta in località Braida di Brienza, con i suoi locali addetti ad attività produttive . Ma essi spesso, a causa di eventi specifici e non sempre chiari che colpiscono i singoli impianti, non durano a lungo: a Monte Irsi, la prima fase della costruzione degli edifici domestici (solo parzialmente esplorati dallo scavo) si ebbe probabilmente dopo l’abbandono della stalla» nel I secolo d.C. 
L’immediato hinterland di Metaponto era ancora abitato, ma in misura molto ridotta. Ancora esistevano alcune masserie, ma la terra veniva impiegata in maniera sempre crescente per la produzione di foraggio. Varrone fa riferimento al saltus metapontino dove le pecore di C. Aufidio Ponziano, dopo esservi state trasferite dall’Umbria, vennero foraggiate prima di essere vendute al mercato di Eraclea .
Nell’antica Roma e negli anfiteatri provinciali, come a Venosa  e a Grumentum, ove ne rimane il ricordo in una epigrafe di II secolo d.C. , si organizzavano scontri tra gladiatori, o tra belve, o tra queste ed animali selvatici, o tra cani e selvaggina o tra cacciatori e belve; queste venivano ospitate in appositi locali al di sotto dell’arena, come a Venosa , o in carri muniti di gabbie, come a Grumentum, ove l’anfiteatro non era provvisto di tali locali ma di un corridoio frequentato da gladiatori e forse anche da belve . 
In Lucania prosperavano aceri, cipressi, querce, castagni, faggi, ed i cipressi con il loro frutto erano considerati anche un antidoto contro il morso di serpenti .
In epoca imperiale si diffuse l'allevamento di pesci in piscine e vivai, anche alimentati da acqua di mare lungo la costa. Alla fine del II secolo risale la nascita dei primi vivai di ostriche, costruiti proprio a Baia, località della costa campana, che riforniranno i ricchi possessori della Lucania (come quello della villa di San Giovanni di Ruoti). Il garum si produceva a Maratea nelle vasche dell’isola di Santo Ianni ; peschiere sono attestate anche a Licosa , oltre che nella stessa costa marateota, mentre saline, utili per la salagione del pesce e di ogni carne proveniente da allevamenti locali e non solo, erano in uso presso S. Marco di Castellabate (SA), ove funzionava un importante porto romano .
Molto più tardi della carne arrivò nell’alimentazione romana il pesce. Tra i pesci più mangiati troviamo l’orata, la triglia, la sogliola e il luccio.
 Essi erano accompagnati da verdure bollite, carni o fegati  e li troviamo illustrati, come altri animali, con significati diversi collegati anche al mito ed alle concezioni dell’al di là, anche nell’arte e nell’artigianato documentati nella Lucania romana in reperti sia locali che di importazione .
I bambini lucani e romani giocavano con carrettini provvisti di ruote e a forma di animali, gli stessi con cui convivevano quotidianamente nelle campagne lucane . Venivano usati come giocattoli anche i poppatoi che dovevano servire, oltre che ad attirare l’attenzione con forme avvincenti (spesso animali soprattutto cagnolini e maialini), con colori sempre molto vivaci e con il rumore che termina, una volta finita la poppata .

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
ADAMESTEANU D. (a cura di), Storia della Basilicata. 1. L’Antichità, Roma-Bari, Laterza, 1999.
DE LACHENAL L. (a cura di), Da Leukania a Lucania. La Lucania centro-orientale fra Pirro e i Giulio-Claudii, Venosa – Castello Pirro del Balzo 8 novembre 1992 – 31 marzo 1993, Roma 1993.
MAGALDI E., Lucania romana, Roma, Istituto Nazionale di Studi Romani, 1947.

giovedì 7 ottobre 2021

La Basilicata contemporanea. 38. L'emigrazione e i suoi contraccolpi

Una domanda centrale per quanto riguarda i flussi migratori di tardo Ottocento è se l’emigrazione di massa abbia esercitato una influenza nello sviluppo del Mezzogiorno e nella modernizzazione dei costumi. La dimensione del fenomeno, considerando anche i movimenti di ritorno, lascia il campo aperto a indagini sociologiche di comportamenti, di mentalità e di culture diversificate secondo aree geografiche. L’emigrazione sia transoceanica che continentale, specie nelle zone di più intenso esodo, continuava a distribuire in maniera relativamente bilanciata svantaggi e benefici.
Ascanio Branca, il relatore dell’Inchiesta Jacini per la Basilicata, scriveva: «È nello spirito di avventura, nell’impulso verso un miglioramento che tragga gli uomini dalle condizioni poco felici del paese nativo, piuttosto che una vera penuria o la mancanza di lavori, che deve riguardarsi il principale movente che spinge all’emigrazione i lavoratori delle campagne, braccianti coloni ed altri operai di mestieri e cittadini in copia anche maggiore» (Atti della Giunta per la Inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola, vol. IX, Fascicolo I, Relazione del commissario A. Branca, provincia di Potenza, Roma, Forzani e C., Tipografi del Senato, 1883, p. 65).
Non c'è dubbio che il complesso di esperienze che tanti “americani” portavano con sé nei loro paesi di origine contribuì in qualche modo o tonificare l’atmosfera stagnante della società rurale del Mezzogiorno, a insidiare vecchie costumanze, a scalfire qua e là secolari rapporti di soggezioni dei contadini verso i “galantuomini”. Per costoro si realizza come migrare non sia soltanto partire o inse-rirsi, ma possa consistere nel semplice lavorare lontano da casa per un tempo determinato e poi torna-re a sfruttare le conoscenze e le capacità economiche acquisite durante il periodo all’estero. In effet-ti, la recente ricerca storica ha messo in evidenza i riflessi che il fenomeno emigratorio poteva avere sui movimenti operai dei paesi di origine .
Per la Basilicata c’è il caso del «monaco bianco» Luigi Loperfido, ex emigrato in America, che nel 1902, promuove a Matera un movimento formalmente religioso, ma che nella sostanza è un moto agrario capace di scioperi . Si pensi infine alla Calabria, dove il rientro di una parte dell’emigrazione transoceanica che ne aveva svuotato borghi e campagne negli anni a ridosso della Grande Guerra non solo migliora l’alimentazione e l’abbigliamento, ma favorisce la nascita delle prime esperienze organizzative di stampo classista . In alcune realtà locali, poi, il nesso fra emigrazione e crescita del socialismo è strettissimo: lo dimostra l’esempio di Morano Calabro, dove, come emerge dalle ricer-che di Vittorio Cappelli, il periodico socialista «Vita Nuova» fu pubblicato dal 1913 al 1915 grazie alle sovvenzioni dei lavoratori moranesi emigrati in America . Per tanti “americani” delle campagne del Sud vi è ormai l’incapacità di raffigurarsi una società contadina, che si tende a vedere come un qualcosa di statico e di inerte, da rifiutare e da sostituire con rapporti sociali più dinamici .

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE DI RIFERIMENTO:
F. P. CERASE, Sotto il dominio dei borghesi. Sottosviluppo ed emigrazione nell’Italia meridionale. 1860-1910, Assisi-Roma, Carucci, 1976.
D. SACCO, La febbre d’America. Il socialismo e l’emigrazione (1898-1915), Manduria-BariRoma, Lacaita, 2001.
G. DE ROSA, L’emigrazione italiana dall’Ottocento alla fine del Novecento, in «Ricerche di storia sociale e religiosa», XXX (2002), n. 62


Le perle lucane. 4. Maratea

 «Dal Porto di Sapri, che aperto è fama inghiottisse la celebre Velia, raccordata dal Poeta dopo Palinuro, nel golfo di Policastro, à dodeci...