giovedì 24 giugno 2021

La Calabria. 6. La regione nella seconda metà del Settecento (F. Campennì)

La situazione della Calabria tra gli anni Trenta e gli anni Novanta del Settecento presenta un problema di ridefinizione dei ruoli delle classi dirigenti cittadine. 
A cominciare dai capoluoghi, il notabilato si mostra incapace di reggere le tradizionali leve del potere e al tempo stesso preoccupato di conservare il monopolio della vita pubblica locale. A Cosenza, capitale della Calabria Citeriore, il patriziato è occupato in accesissime dispute sull’aggregazione di nuove famiglie al sedile dei nobili e a quello degli onorati e nella difesa dei tradizionali privilegi di ceto (la privativa sul governo e sulla ripartizione fiscale). Il popolo urbano e dei casali, invece, difende una microeconomia di autosussistenza e i suoi problemi riguardano principalmente il peso delle gabelle e il prezzo dei generi di consumo. 
Nel 1762 scoppiano tumulti per la mancanza di biade: il popolo cosentino assalta i forni e i magazzini dei maggiori proprietari e negozianti (i baroni Giannuzzi Savelli, i De Martino, i Monaco, tutti esponenti del patriziato). Il 1764 è ancora annata di carestia. Nel frattempo, la vita intellettuale e la scienza giuridica prosperano in città: di fronte alla minaccia delle crisi alimentari e del pauperismo una frangia importante dell’élite urbana tenta di promuovere un sapere «utile al popolo», attraverso un programma accademico aperto tanto alle sessioni letterarie che alle dottrine agrarie. 
Accanto all’Accademia Cosentina, a metà secolo ne è fondata una nuova, detta dei Pescatori Cratilidi, intesa a pro-muovere una riforma del diritto pubblico e della pubblica economia in cui si vorrebbe coinvolgere la classe diri-gente locale e regionale. Esponenti di spicco di questa società intellettuale sono impegnati nelle carriere burocratiche, come Salvatore Spiriti, giudice della Vicaria nel 1762, consigliere della Camera di Santa Chiara nel 1772, scrittore prolifico. L’accademia tenta di trasformarsi nel 1784 in Istituto di Agricoltura e Commercio, anche se il progetto non avrà seguito .
Altre città demaniali della Calabria, vere e proprie repubbliche aristocratiche, sono scosse nel corso del secolo da movimenti sociali, urbani e rurali. 
A Reggio, nel 1792, la plebe tumultua contro l’abolizione dell’assise sui generi (ovvero il calmiere dei prezzi che il municipio fissava dopo aver appaltato il rifornimento dei generi ai negozianti), abolizione decretata dal governatore regio; mentre la municipalità, in mano a un’oligarchia guidata dal sindaco dei nobili, disputava col ceto civile sull’esclusiva abilitazione alle cariche e si scontrava con l’autorità dei rappresentanti regi sul rispetto dei privilegi cittadini. 
Anche a Tropea il patriziato ha conservato un potere oligarchico, che tuttavia appare ormai minato dalle tensioni col popolo urbano degli artieri e dai rumori che si levano nel contado. Ripetutamente (nel 1722, e sempre più spesso nella seconda metà del secolo, fino al 1799) i contadini dei suoi 23 casali assediano la città e pongono le proprie condizioni su temi antichi: la ripartizione dei donativi regi, l’ingerenza dei percettori comunali, l’eccessivo aggravio, negli anni di carestia, dei censi dovuti ai proprietari cittadini.
Spinta dalla difficile congiuntura locale e chiamata a fronteggiare la crescente ingerenza degli apparati del governo centrale, la classe dirigente cittadina si sente investita di un’urgente responsabilità sui temi dell’ordine pubblico e del buon governo. Essa torna a riflettere sui propri ordinamenti, riscopre la tradizione classica e rinascimentale di un pensiero politico e giuridico incentrato sulla tutela delle libertà comunali e sull’unità morale delle componenti sociali. 
I patriziati demaniali, in particolare, teorizzano una forma di repubblicanesimo interno alla monarchia, il cui fine ideale è consentire ai gruppi sociali, in città e nel contado, di convivere nella giustizia, nel libero esercizio dei reciproci diritti e doveri, sotto l’autonomo governo delle leggi e delle consuetudini locali . Nei centri infeudati questo programma politico dei ceti dirigenti si traduce per tutto il secolo in una rinegoziazione delle autonomie municipali con l’autorità feudale e in una messa in discussione dei diritti proibitivi dei baroni, denunciati come «soprusi» ai danni delle po-polazioni. 
A Bisignano, Corigliano, Cirò, Castelvetere, Nicastro, Monteleone, Gerace, Terranova, Gioia, Scilla e in altri centri, le università, spesso indebitate, rette da un governo di notabili, strappano capitolazioni o muovono liti alle principali dinastie feudali della regione: i Sanseverino, i Saluzzo, i Carafa, gli Spinelli, i d’Aquino, i Pignatelli, i Grimaldi, i Ruffo .

FONTE: F. CAMPENNI', Patrizi, patrioti, patriarchi: l’oratoria municipale di Antonio Jerocades, in L'associazionismo politico nel Mezzogiorno di fine Settecento, a cura di A. Lerra, Manduria-Bari-Roma, Lacaita, 2018, pp. 439-441.


Bibliografie essenziali. 40. La Massoneria meridionale

J.G. FINDEL, Histoire de la Franc-maçonnerie depuis son origine jusq’à nos jours, traduit de l’allemand par E. Tandel, Paris 1866, vol. I, p. 427. 
F. T. e B. CLAVEL, Storia della Massoneria e delle Società Segrete, trad. di C. Sperandio, Napoli 1873, passim; 
M. D’AYALA, I Liberi Muratori di Napoli nel secolo XVIII, a cura di G. Giarrizzo, Napoli 1998 (riedizione in volume dell’opera – per più versi ancora oggi fondamentale – apparsa nell’«Archivio Storico per le Province Napoletane» del 1897-98); 
E. STOLPER, La Massoneria nel regno di Napoli, in «Rivista Massonica», dicembre 1974, pp. 591-603, e nov. 1975, pp. 527-534; 
C. FRANCOVICH, Storia della Massoneria in Italia dalle origini alla Rivoluzione francese, Firenze 1975, pp. 75-131, 187- 211, 267-269, 406-429; 
F. BRAMATO, Napoli massonica nel Settecento. Dalle origini al 1789, Ravenna 1980; 
E. CHIOSI, Nobiltà e massoneria a Napoli. Il regno di Carlo di Borbone, in Signori, patrizi, cavalieri in Italia centro-meridionale nell’età moderna, a cura di M. A. Visceglia, Roma 1992, pp. 326-39; 
R. DI CASTIGLIONE, Alle sorgenti della Massoneria. Contributo per una storia dell’istituto latomistico napoletano dal 1728 al 1749, Roma 1988; 
ID., La Massoneria nelle Due Sicilie e i “Fratelli” meridionali del ‘700, Roma 2008 (straordinario e imprescindibile repertorio biografico); 
N. PERRONE, La Loggia della Philantropia. Un religioso danese a Napoli prima della rivoluzione, Palermo 2006; 
A.M. RAO, La massoneria nel regno di Napoli, in Storia d’Italia, Annali 21, La Massoneria, Torino 2006, pp. 513-42;
G. GIARRIZZO, Massoneria e illuminismo nell’Europa del Settecento, Venezia 1994; 
La Massoneria. La storia, gli uomini, le idee, a cura di Z. Ciuffoletti e S. Moravia, Milano 2004; 
M. C. JACOB, Massoneria illuminata. Politica e cultura nell’Europa del Settecento, Torino 1995.

giovedì 17 giugno 2021

Il Mezzogiorno moderno. 15. Le Scienze e la Rivoluzione del 1799

Il ruolo fondamentale avuto dagli scienziati durante la Rivoluzione del 1799 è un fatto noto, già evidenziato da storici coevi come Vincenzo Cuoco. Ciò che è mancato finora è un’indagine approfondita del fenomeno, riguardante sia i personaggi minori e talvolta sconosciuti, sia il rapporto tra indirizzo e finalità della scienza negli anni Settanta-Ottanta del XVIII secolo e lo sviluppo del giacobinismo. Allo stato attuale delle ricerche si può affermare con certezza che, pur mancando a Napoli un ‘partito’ sul modello degli idéologues, la presenza degli scienziati fu notevole e contribuì a incrementare, soprattutto attraverso l’insegnamento, il numero dei seguaci delle idee rivoluzionarie. Non a caso fu numerosa la partecipazione di giovani e studenti agli eventi del 1799. Un fattore non secondario dei rapidi mutamenti politici e culturali di fine Settecento fu infatti la componente generazionale: “... l’irruzione giovanile sulla scienza politica in quegli anni di sviluppi drammatici e originali inaugura anche a Napoli la connessione fra ‘giovinezza’ e ‘rivoluzione’ che sarà poi una costante dell’epoca contemporanea” (G. Galasso). 
In questa prospettiva va sottolineato il peso che ebbe nella diffusione del pensiero giacobino l’Accademia di chimica aperta nel 1792 da Carlo Lauberg e Annibale Giordano. Il primo fu un convinto seguace, non solo sul piano scientifico, delle idee di Lavoisier, il cui Traité élémentaire de chimie venne tradotto e pubblicato a Napoli proprio nel 1791-92; il secondo fu un brillante e precocissimo matematico. L’Accademia, a partire dal novembre 1792, prese “l’aspetto di un ‘gran collegio’, in cui si accoglieva la gioventù di talento, invitata parte dall’esempio e parte dalla persuasione degli antichi accademici, ognuno de’ quali era intento a far proseliti” (B. Croce). Lauberg e Giordano fecero parte anche della Società patriottica (1793-1794), una delle più importanti organizzazioni segrete del primo giacobinismo napoletano, alla quale fu iscritto con posizione di rilievo un altro scienziato, Teodoro Monticelli, il futuro segretario dell’Accademia delle scienze. 
Anche Pietro Napoli Signorelli, segretario perpetuo della stessa Accademia fino al giugno del 1799, fu costretto all’esilio in Francia per essere stato nominato dai francesi membro della Commissione legislativa. Significativo fu l’apporto di giovani nobili usciti dall’Accademia militare, dove aveva insegnato fra l’altro proprio Lauberg, e degli studenti della facoltà di medicina, particolarmente quelli che frequentavano il Collegio dell’ospedale degl’Incurabili, che fu poi chiuso da Ferdinando IV, una volta ripreso il potere, per essere stato un covo di “politicanti e rivoluzionari”. In una sentenza della Giunta di stato del 28 gennaio 1800 si legge che il 22 gennaio dell’anno precedente un gruppo di studenti innalzò nel cortile dell’ospedale “l’albero della libertà al suono di musica, ballando e gridando in lode della democrazia e malmenando la monarchia”. 
La stessa sorte  del Collegio degl’Incurabili era toccata all’Accademia militare, soppressa nel luglio del 1799 con l’intento di stabilire regole che ostacolassero per il futuro la formazione di ufficiali simpatizzanti delle idee giacobine e costituzionali. La medicina fu la scienza che offrì, in Francia e in Italia, gli strumenti conoscitivi più idonei per evidenziare i limiti del riformismo illuminato. Soprattutto negli anni Ottanta furono avviate nella capitale del Regno una serie di ricerche (F. Baldini, G.M. Galanti, L. Targioni, C. Palermo, F.A. Salfi e altri) che investivano problemi di grande rilevanza sociale inerenti alla sanità pubblica, alle difficili condizioni di vita dei contadini e degli artigiani, per non parlare di quella dei detenuti. Le diagnosi risultarono molto negative e preoccupanti. Soprattutto gli ospedali e le carceri apparvero molto spesso come luoghi del tutto inidonei ad accogliere esseri umani. Gaetano Filangieri parlò, a questo proposito, di “tristi monumenti delle miserie degli uomini, e della crudeltà di coloro, che li governano”; e Giuseppe Maria Galanti di “cloache di una nazione, le quali disonorano e degradano la specie umana”. Negli intellettuali rimase comunque ferma la convinzione che un’accorta e lungimirante politica del governo avrebbe portato qualche rimedio in questi settori. Eppure nei Discorsi Accademici di Domenico Cirillo, significativamente usciti nell’anno della Rivoluzione francese e ripubblicati nel 1799, si avvertiva già nel linguaggio che qualcosa cominciava a mutare. Si notava una radicalità di analisi e di denuncia che non rientrava più nei classici schemi del riformismo di antico regime. Un’attenzione per la sensibilità, l’entusiasmo e le passioni, per concetti come umanitarismo e fratellanza, che attestavano le simpatie di Cirillo per la cultura francese. Se la sua partecipazione alla Repubblica napoletana fu, com’egli stesso scrisse in un’accorata ma dignitosa lettera del 13 luglio 1799 a Lady Hamilton, quasi un obbligo per le pressioni ricevute dai francesi, il suo pensiero era certamente vicino a quella degli altri giacobini, pur non avendo una marcata dimensione politica. Cirillo fu giustiziato il 29 ottobre 1799, insieme con Mario Pagano, che lo aveva definito “il napoletano Democrito”, con Ignazio Ciaia e con Giorgio Vincenzo Pigliacelli. A nulla era valsa la domanda di grazia alla Hamilton nella quale aveva scritto, fra l’altro, che nella breve vita della Repubblica “le poche leggi votate... furono soltanto quelle che potevano riuscire benefiche per il popolo...”. 
Se molti scienziati parteciparono alle vicende rivoluzionarie, molti altri ne rimasero fuori. Le scelte, certamente sofferte, in un caso o nell’altro non furono facili. Basti ricordare, a questo proposito, la posizione di Domenico Cotugno, anatomista di fama europea, riformatore della medicina e delle istituzioni mediche, tra i più prestigiosi scienziati italiani dell’epoca. Amico non solo di Cirillo, ma di Delfico, Serio, Caracciolo, si tenne lontano dai moti rivoluzionari. Quando si progettò l’Istituto Nazionale sul modello di quello francese, Cotugno figurò nell’elenco degli uomini di cultura che dovevano farne parte. Chiamato a Palermo per assistere la regina Maria Carolina ammalata, vi si recò senza tentennamenti. 
Per la considerazione di cui godeva presso il sovrano, aiutò quando e come poté i perseguitati dalla reazione borbonica. La posizione di Cotugno è indicativa di una concezione dello scienziato come tecnico puro, non direttamente impegnato nella politica. La sua formazione culturale e le sue scelte esistenziali  non gli avrebbero mai permesso di accettare il cosiddetto ‘giacobinismo medico’, sviluppatosi in quegli anni soprattutto in Italia settentrionale, né tanto meno rivolgimenti sociali e istituzionali di tipo rivoluzionario. Il suo orizzonte politico e intellettuale rimase legato all’insegnamento genovesiano e al riformismo illuminato. 
Al di là delle vicende personali dei singoli scienziati, il giacobinismo contribuì negli anni Novanta  allo sviluppo delle scienze naturali in senso baconiano, accentuandone ulteriormente il carattere antimetafisico e i risvolti applicativi. A Napoli fu, ad esempio, notevole la diffusione del sensismo lockiano, del quale furono sostenitori oltre a Gian Leonardo Marugi, coinvolto nella Rivoluzione, anche Giordano e Lauberg. Dalla presentazione dei Principi analitici delle matematiche (Napoli 1792), volume scritto in collaborazione dai due scienziati, emerge come la loro concezione filosofica e scientifica fosse in sintonia con quella dei giacobini di altre zone della Penisola e d’Europa: “... se la Fisica, se la Metafisica, la Morale, la Politica altro non sono, che l’analisi degli effetti dell’attività della materia, della sensibilità relativamente al bisogno medesimo, come è l’analisi delle quantità; essendo questa una scienza esatta, dovranno altresì tali riguardarsi le prime, quando vogliono considerar senza mistero, e nel giusto loro punto di veduta”. 
I progetti abbozzati nei pochi mesi della Repubblica napoletana trovarono il loro naturale proseguimento nel decennio francese, quando furono poste le basi delle istituzioni e delle future strutture tecnico-scientifiche del Regno. Furono chiamati a organizzarle e gestirle molti personaggi che avevano partecipato all’esperienza rivoluzionaria di fine secolo, alcuni appartenenti ancora, come si è accennato, alla grande stagione della cultura illuministica.

giovedì 10 giugno 2021

La Basilicata moderna. 39b. La rivolta del 1647 in Basilicata: sviluppo e conseguenze

Protagonisti incontrastati dei vari punti di rivolta rimasero di fatto, quasi ovunque, locali capipopolo, non sempre, peraltro, in raccordo, nella stessa seconda fase, con il Governatore Generale delle armi in Basilicata, il dottore in “utroque jure” Matteo Cristiano, di ricca famiglia gentilizia di Castelgrande, che – com’è noto - fu tra i protagonisti di prima fila – su diretta investitura del duca di Guisa – dell’iniziativa e dell’azione sul territorio, in Basilicata e nelle province contermini, lungo la parabola della “Real Repubblica Napoletana”.
Già da metà luglio del ’47, e dunque in sostanziale sintonia temporale con gli avvenimenti nella Capitale, in varie realtà locali della Basilicata si susseguirono tumulti e sollevazioni popolari via via snodatisi, nel loro insieme, secondo moduli ricorrenti in provincia, dalle insurrezioni spontanee contro i feudatari alle occupazioni di terre da parte dei contadini, a veri e propri saccheggi e razzie promosse e compiute dai capipopolo. Così, ad esempio, a Miglionico, dove larga parte della popolazione rifiutò di pagare le tasse, assediando il feudatario, principe della Salandra, tenuto prigioniero in un monastero per costringerlo a rinunziare all’esazione dei fiscali. D’altra parte a Montescaglioso si susseguirono tumulti contro gli agenti della locale famiglia feudale, mentre nella stessa città regia di Lagonegro, tra i pochi centri che non videro direttamente coinvolti i locali amministratori, rimasero trascinati nella protesta popolare esponenti del locale clero ricettizio. Nel mese di agosto si aggiunsero sollevazioni a Grottole ed a Marsico, la cui popolazione diede l’assalto al locale palazzo del principe Pignatelli, catturando 14 uomini ai quali fu tagliato il capo sulla pubblica piazza, minando, nel contempo, con un barile di polvere il palazzo baronale, né risparmiando le case degli appaltatori di gabelle. D’altra parte, se a Latronico, incendiato il palazzo baronale, furono uccisi a colpi di scure il conte Revischiaro e il fratello, nella vicina Carbone, tra i pochi centri - come si è detto- a feudalità ecclesiastica, fu tagliata la testa ad un monaco del locale monastero basiliano. Nel contempo, a Bernalda furono occupate terre della Certosa di Padula e nella vicina Matera, ancora in Terra d’Otranto, la sollevazione popolare costò la vita ad un esattore delle imposte, mentre il regio consigliere Luigi Gamboa fu costretto a riparare a Ferrandina e la civica amministrazione a sopprimere le gabelle. Di più peculiare rilevanza fu, nel contempo, la rivolta promossa a Vaglio, presto capeggiata dal conte Francesco Salazar che, scarcerato a Napoli, si unì presto a Matteo Cristiano, con l’obiettivo di trasformare le rivolte locali in movimento rivoluzionario più generale. Così, mentre le loro truppe si spingevano verso il confine pugliese, ulteriormente allarmando i baroni che da Minervino, il 21 novembre, annunciavano al viceré che in Basilicata c’era ormai un “gran numero di popolazione sollevata”, le bande guidate da Vincenzo Pastena, fratello di Ippolito, assediavano, il 6 dicembre, Melfi e il Griffo, ufficiale dell’armata di Matteo Cristiano, giungevano a Montalbano, sul versante jonico. Si aggiungeva la sollevazione della popolazione di Tricarico, ad iniziativa del capopopolo Vincenzo Vinciguerra, e il saccheggio di Pisticci. Cosicché, in un crescendo di realtà locali via via conquistate alla causa dell’affrancamento dal potere feudale, a fine gennaio del 1648 Matteo Cristiano raggiungeva direttamente Matera, dove fu festosamente accolto. 
Da tale postazione strategica, rispetto a Terra d’Otranto e Terra di Bari, nonché forte del controllo militare dei centri abitati più rilevanti della provincia di Basilicata, ormai quasi fulcro del sistema offensivo della Real Repubblica, Matteo Cristiano e Francesco Salazar furono nella condizione di puntare su Altamura, da dove il primo si sarebbe poi mosso in direzione dell’importante piazza navale di Taranto e il secondo di Gravina, anche per l’affiorare delle prime discordie fra i due, presto trasformatesi in rottura, con conseguenti riflessi sugli esiti stessi del loro più generale piano strategico.
In effetti ancora una volta in significativo parallelismo con il conflitto di poteri che si andava manifestando nella capitale, anche in aree provinciali di decisiva importanza strategica come quelle battute dal Cristiano, un intreccio di rivalità e conflittualità spesso alimentate anche da un oscuro sottobosco di piccole e grandi ambizioni personali, concorse non poco a complicare notevolmente la stessa gestione militare delle faticose conquiste della Real Repubblica. Il che, in aggiunta alla persistente, generale, fragilità delle forme e dei modi di coordinamento politico e amministrativo fra centro e periferia, nonché al mancato raccordo tra cosiddetta “guerra contadina” e movimento localmente promosso dagli stessi amministratori delle Università, meglio concorre a far leggere i tempi e la varietà dell’articolato processo di “derepubblicanizzazione” in provincia, oltre che la crisi stessa della breve esperienza repubblicana napoletana ben prima dell’ingresso trionfale degli Spagnoli a Napoli, il 6 aprile del 1648.
Comunque, nella storia della Basilicata la rivolta del 1647-48, che in vari casi vide anche sindaci ed amministratori locali guidare i contadini nei pur episodici sommovimenti contro i privilegi feudali, segna il punto più alto della lotta antifeudale combattuta con le armi, evidenziando, per la portata delle popolazioni coinvolte e per gli obiettivi a base del movimento, una svolta negli obiettivi politici delle forze in lotta, pur solo in parte riconosciutesi nell’anello istituzionale di base, le amministrazioni locali appunto. 
Se rispetto alle attese contingenti e di base i risultati non furono quelli sperati, non c’è dubbio che proprio la rivolta del ’47-48 concorse in modo rilevante ad accelerare la scelta di dare alla provincia di Basilicata un’Udienza stabile sul proprio territorio, individuando, di lì a pochi anni, nella città regia di Matera, ancora in Terra d’Otranto, la sede più adeguata per tale fondamentale istituzione dopo un ventennio di peregrinazioni (da Stigliano a Tolve, a Potenza, a Vignola, a Montepeloso) a causa dell’opposizione dei vari feudatari locali, che fermamente respingevano la presenza di un potere statale forte nell’ambito dei territori ove esercitavano la propria giurisdizione.

giovedì 3 giugno 2021

La Basilicata moderna. 39a. La rivolta del 1647 in Basilicata: le premesse

Tra i fattori che nel 1647-48 concorsero a connotare la Basilicata per un livello di lotta antifeudale ampiamente partecipata e diffusa sul territorio, nonché più duratura che altrove, nelle stesse province, fu certamente l’ancora marginale fragilità della presenza statale sul suo territorio, la debolezza strutturale della stessa organizzazione feudale (pur a fronte dell’enorme portata del suo irrobustito e diffuso potere), il gravoso stato di sofferenza del suo complessivo sistema universitario, peraltro su un territorio caratterizzato da una frazionatissima rete di piccoli luoghi abitati, ancora per oltre il 90% ricadenti in ambiti territoriali a giurisdizione feudale.
Del resto, come risulta efficacemente evidenziato nelle stesse Descrizioni del Regno più attente agli elementi identitari portanti dei territori provinciali, il contesto politico-istituzionale della Basilicata, ancora negli anni Quaranta del Seicento, e nonostante gli indirizzi perseguiti dal governo spagnolo di dotare le province di un’amministrazione istituzionalmente forte, il contesto politico-istituzionale della Basilicata risultava connotato da una robustissima presenza feudale non bilanciata da adeguata rete periferica del potere centrale, in modo particolare rispetto alle articolazioni relative ai comparti della giurisdizione civile e criminale e della difesa militare, mentre prevalente, fra le funzioni proprie assegnate alle province, era quella della fiscalità. 
Un contesto provinciale, quello lucano, privo fino agli anni Quaranta del Seicento, persino di un’autonoma Udienza sul proprio territorio, nonché di città di particolare importanza strategica a governo regio. Assenza, dunque, di un’entità istituzionale, concreta e percepibile, referente di indirizzo unitario di governo del territorio, tanto più precondizionante alla luce della più generale mancanza, nel rapporto Centro-periferia, di un organismo di coordinamento politico, oltre che amministrativo, delle varie funzioni delegate periferiche, da ricondurre, per il periodo considerato, allo spazio e ai caratteri particolari della mediazione amministrativa nel Mezzogiorno, che era ben presente alla pratica politica del governo centrale, notoriamente attento a non oltrepassare le proprie sfere d’azione , nel rispetto proprio di quel particolarismo tradizionale che caratterizzava lo stesso terreno della conflittualità sociale.
Cosicché, in realtà provinciali come, appunto, la Basilicata particolarmente difficile continuò ad essere la coesistenza di esercizio dei vari poteri locali, largamente egemonizzati dalla robustissima rete feudale, prevalentemente connotata da media e grande signoria, in cui alcuni importanti complessi feudali esprimevano ancora situazioni di prossimità territoriale con stati feudali di altre province, concentrati tra le più grandi famiglie del Regno. A ciò si aggiunga la certo più marginale, ma peculiare, presenza della feudalità ecclesiastica, sia quella riconducibile a titoli vescovili, sia quella esercitata da ordini religiosi. 
Si consideri, nel contempo, che eccezion fatta per pochi, più consistenti, centri abitati, ove la rappresentanza istituzionale universitaria era ufficialmente determinata dall’organizzazione cetuale in seggi, nella quasi generalità delle terre e città la nomina degli amministratori locali scaturiva, certo, dai parlamenti cittadini, che, però, di fatto si limitavano ad accettare quelli indicati dal barone nelle terre feudali o dal rappresentante del potere e centrale in quelle demaniali, che – come si è detto – erano numericamente ridottissime. 
Inoltre, per la contemporanea, capillare, presenza di una peculiare struttura ecclesiastica quale la chiesa-azienda ricettizia, gli stessi locali capitoli clerali erano caratterizzati da assetti di governo fortemente corporativi, espressione di un clero particolarmente attento alla crescita della sua quota capitolare, oltre che interessato a conservare inalterato l’equilibrio dei poteri. 
Cosicché, quasi ovunque, nei centri abitati lucani, oltre e accanto al robusto esercizio, diretto e indiretto, del potere baronale, poche altre famiglie, attraverso la presenza di propri componenti nel governo delle università e nei locali capitoli clerali ricettizi, continuavano a solidamente controllare gli stessi processi di elezione delle rappresentanze istituzionali di base, pur nel quadro di contesti a diffusa conflittualità sociale. 
Si trattava, dunque, di un’ancor più peculiare dimensione di assetti di poteri periferici, oggettivamente funzionale alla conservazione di lungo periodo dello status quo, all’interno del quale solo marginalmente si era riusciti a scalfire nel tempo il più forte e incisivo potere feudale, verso il quale pur continui e via via più conflittuali si erano già in più occasioni manifestate posizioni e azioni condotte sia da parte degli amministratori locali, sia da parte dei capitoli clerali ricettizi, interessati, com’erano, i primi alla riduzione di pesi e prestazioni varie (dati i magrissimi bilanci universitari), i secondi, che guardavano a Napoli più che a Roma, a difendere con i denti i propri patrimoni e le proprie, autonome, prerogative statutarie. 
La crisi, generale e locale, via via accentuatasi nei primi decenni del Seicento, vide moltiplicati i suoi effetti in una realtà socio-economica come la Basilicata, rendendo tra l’altro ancora più sofferente la condizione finanziaria delle Università, che, già caratterizzate da un “atrasso” pari al 53%, rispetto ad una media nel Regno di poco superiore al 37%, disponevano ormai di scarsissime entrate, per di più rivenienti per ben l’83% da tassazioni sui beni di prima necessità. Il che in aggiunta agli effetti delle varie forme di vera e propria offensiva feudale più intensamente esercitata in questa fase sul piano del diritto e sul terreno della pressione tributaria, diretta e indiretta, si tradusse presto in generalizzato stato di malessere economico e sociale dei microcontesti urbani e rurali, facendo assumere alla rivolta del 1647-48 in Basilicata dimensioni di largo trascinamento sociale e con prevalente dimensione di lotta antifeudale, ma che, come altrove, non riuscì a tenere insieme l’iniziativa e l’azione dei contadini con quella direttamente promossa e condotta dagli stessi amministratori locali.