giovedì 14 giugno 2018

Il Viceregno spagnolo. 5. Declino e caduta (Maria Pia Belfiore)


Il declino meridionale si può spiegare in parte con le conseguenze della «crisi generale» del secolo XVII, ma non nel senso che esso è l’aspetto estremo di una generale tendenza alla depressione. Mentre in una parte dell’Europa -ed anche in alcune zone italiane- il periodo di difficoltà congiunturali dette l’avvio all’ ultima fase del passaggio da un’economia feudale ad una economia capitalistica, nell’Italia meridionale si ebbe una vera decadenza, la spinta progressiva venne annientata in coincidenza con il mutamento della congiuntura.
Il 6 aprile 1648 è stato assunto come termine finale dei moti detti di Masaniello: sembrò che per il Mezzogiorno d’Italia dovesse essere pace per sempre, con un tranquillo possesso per gli Spagnoli. E invece si avviò, in uno stillicidio di attacchi e contrattacchi, un periodo di progressivo allentamento del controllo di Madrid sulle sue province dell’Italia meridionale, nel quadro del progressivo indebolimento della Spagna nel concerto degli Stati europei e della fine della centralità ispano-asbrugica. Il Regno di Napoli, allora, divenne specifico oggetto delle mire francesi, con speranze di invasione sempre puntualmente frustate, e destinato a rimanere coinvolto nella serie di guerre che avrebbero interessato la dominante: dall’ultimo segmento della guerra dei Trent’Anni (conclusasi nel 1659 con la Pace dei Pirenei), alla guerra di devoluzione (1667-1668, Pace di Aquisgrana), alla guerra d’Olanda (1672-1678, pace di Nimega), alla guerra della Lega d’Augusta (1686-1697, pace di Rijswijk); finchè, in seguito alle guerre di successione, spagnola (1701-1714, paci di Utrecht e Rastadt) e polacca (1733-1738, pace di Vienna), la vecchia tradizione dinastica spagnola entrò in crisi e tramontò, e diverse dinastie s’alternarono nei regni dell’Italia meridionale; per cui alla fine, dopo il breve viceregno austriaco, nel 1734 una nuova monarchia, finalmente autonoma, fu chiamata a reggere, libera e indipendente verso altri Stati, i Regni di Napoli e di Sicilia. E sarebbe stata l’ultima regnante su questi Regni, fino alla loro estinzione nel Regno d’Italia del 1860.
Il trattato dei Pirenei (7 novembre 1659) pose termine alla guerra, che durava ormai da un quarto di secolo, tra Francia e Spagna. L’intento di Mazzarino di ridurre la Corona cattolica ad una potenza sostanzialmente di second’ordine fu in pratica raggiunto: la Francia si impadroniva della Cerdagne e del Roussillon a ridosso dei Pirenei, e quindi conseguì il confine naturale meridionale, nonché di buona parte delle Fiandre e dell’Artois a nord; Luigi XIV sposa Maria Teresa, figlia del re di Spagna Filippo IV; rinunziando però ad ogni pretesa di successione dinastica in Spagna, dietro la promessa del pagamento integrale. Tutta la struttura statale spagnola subì un logoramento eccezionale.
Fiscalismo, rivolte separatiste, dissanguamento demografico, paralisi del potere centrale dopo il pugno di ferro dell’Olivares, predita pressochè completa del controllo dell’Atlantico, immobilismo nel Mediterraneo e decadenza progressiva delle Fiandre spagnole, dove del resto la presenza di arciduchi austriaci come governatori apriva la strada ad una sostanziale autonomia: questi gli elementi principali di un tramonto che ha tutte le caratteristiche di un avvenimento definitivo. Solo con la pace dei Pirenei si ridussero i ruoli della Spagna in Europa e sulla scena internazionale: non tanto per le perdite territoriali subite, quanto per il riconoscimento della superiorità francese, premessa per la formazione della politica ‘imperiale’ di Luigi XIV. Dopo le paci di metà secolo –Vestfalia, Pirenei e Oliva -, la monarchia spagnola visse solo pochi anni in una condizione di relativa tregua. Il Regno di Napoli era uscito indenne da una prova di forza durata tanti anni, ma ormai era la dipendenza di una potenza in declino.
Sia il fronte catalano sia la crisi siciliana del 1647-1648 dimostrarono che lo scacchiere del Mediterraneo era particolarmente importante e al tempo stesso per la strategia espansionistica di Luigi XIV e per la conservazione dell’impero dei Re Cattolici.
Tra aprile e maggio del 1656 divampò a Napoli quella che sarebbe rimasta negli annali del paese come una delle sue più tragiche esperienze: la peste, che fu affrontata con decisione solo alla fine di maggio dalla Deputazione della Salute all’uopo costituita, che ebbe la collaborazione di tutta una serie di deputati minori per scoprire gli ammalati e farli trasportare nei luoghi di cura pubblici, il cui numero fu accresciuto. Ma nonostante tutti gli sforzi, dalla fine di giugno alla metà di agosto i decessi salirono a cifre fra i 2000 e i 5000 al giorno;e solo dalla metà di agosto si cominciarono a notare i segni di una effettiva flessione dell’epidemia e di un ritorno dell’apparato di governo a una maggiore efficienza. L’8 dicembre si potè dichiarare terminato lo stato endemico.
 Se la capitale fu il luogo più battuto dall’epidemia, tutto il Regno subì, però, l’impatto della grande peste. .
Solo la Calabria Ulteriore e la Terra d’Otranto, e, in minor misura, la Terra di Bari rimasero immuni dal contagio. In tutto si è potuto valutare la strage epidemica a circa 900.000 persone: alquanto più del 20% dell’ammontare della popolazione del Regno e della metà di quella della capitale.
A Madrid, il 17 settembre 1665 morì il re Filippo IV, e le conseguenze per il Regno di Napoli non furono insignificanti. Diventava ora re di Spagna un bambino di appena quattro anni, Carlo II: per disposizione testamentaria del defunto Sovrano, venne istituita una Giunta di reggenza composta dalla regina madre Maria Anna d’Austria, da quattro titolari protempore di altrettante alte cariche, cioè l’Inquisitore generale di Spagna, cardinal d’Aragona (da poco distolto dal viceregnato di Napoli), il vescovo di Toledo e Primate di Spagna cardinal Sandoval, il Presidente di Castiglia Ramon de Moncada marchese D’Aytona, il cancelliere d’Aragona Cristofaro Crespi, ai quali si aggiungevano i due recenti ex viceré di Napoli, cioè il Conte di Castrillo e il Conte di Peñaranda. Senonchè, morto il Sandoval, la regina nominò vescovo di Toledo il cardinal d’Aragona da poco nominato inquisitore generale; il quale, quindi, si era trovato investito di due successive cariche benchè s’attardasse ancora a Napoli: e quì venne a sostituirlo, l’8 aprile del 1666, il fratello Piero Antonio d’Aragona, già ambasciatore dei Re Cattolici a Roma. Nel consiglio di reggenza, dunque, dei sei membri che assistevano la regina madre, ben tre erano rappresentati dagli ultimi viceré di Napoli: il Castrillo, il Peñerada e il cardinal d’Aragona.
Un conflitto di natura locale si innestò sulla guerra tra Francia e Spagna che coinvolse anche il Regno di Napoli, che fu appunto chiamata a sostenere uno sforzo di natura finanziaria e militare notevole nel moto di Messina del luglio 1674. Il viceré Antonio Alvarez marchese d’Astorga, subentrato nel 1672 a Don Pietro d’Aragona, all’indomani di un breve interregno di Don Federico di Toledo marchese di Villafranca (1671-1672), procurò d’impegnarsi a sostegno della Monarchia madrilena contro il notabilato ribelle di Messina.
Oltre alla flotta napoletana, furono impegnati contro Messina un esercito al comando di Marcantonio di Gennaro, le truppe napoletane di stanza in Sicilia, altre truppe che operavano in Calabria e in Terra d’Otranto: disorganizzazione e incapacità dei comandi spiegano la sconfitta della flotta spagnola nelle acque di Lipari che consegnò Messina alla Francia. Nell’aprile 1675 la città proclamava la sovranità di Luigi XIV. Lo smacco per la Spagna fu gravissimo sia in termini politici sia in termini finanziari. Per Napoli i costi furono altissimi: solo nel primo anno di rivolta la città versò per Messina 1 milione e 800 mila ducati.
L’Astorga aveva sperato di uguagliare le gesta dell’Oñate nella conduzione di una guerra con sforzo prevalentemente personale e del Regno. Ma i tempi erano mutati, con la Spagna ormai in grosse difficoltà anche economiche, e la Francia più che mai sull’onda della propria espansione, il Regno sottoposto, ancora e sempre, a durissime necessità finanziarie e con notevoli ritardi anche di tecnologia militare. In questa situazione anni e anni di inefficienza e malversazioni non potevano
essere facilmente recuperati: e intanto, agevolato anche dagli emissari di Francia, il banditismo fioriva nel Regno. Sebbene già nel 1683, riaccendendosi la contesa franco-spagnola, i Francesi dimoranti nel Regno sperimentassero l’ennesima espulsione, il Mezzogiorno non venne più direttamente coinvolto nelle guerre e sembrò che un cinquantennio di fermenti avesse veramente fine, mentre era al suo zenit l’espansionismo della Francia, che s’accompagnava alla decadenza, ormai conclamata, della Monarchia spagnola travagliata da delicati problemi dinastici. La lunga agonia di Carlo II sembra quasi il riflesso della inarrestabile decadenza della Spagna. L’incertezza stessa sul futuro della monarchia, quando fu chiaro che il debole sovrano non avrebbe avuto eredi diretti, ispirava il senso di una decadenza ormai fatale e inarrestabile. Alla morte di Carlo II, infatti, la Spagna offriva uno dei panorami economici più squallidi dell’Europa: senza un’industria, con poco commercio interno, con un latifondo estesissimo, era dissanguata da un continuo spopolamento; di contro, lo sfarzo delle corti. Nel 1692 la monarchia aveva dichiarato per la terza volta bancarotta. Le cause dell’interna disgregazione economica spagnola erano molteplici: anzitutto, l’inflazione provocata dall’abbondanza di metalli preziosi provenienti dalle colonie americane, che non trovavano la via di investimenti produttivi, data anche la staticità dei rapporti sociali; lo spopolamento delle campagne, che concorreva ad aumentare il numero delle persone in città; l’esoso fiscalismo, che uccideva il commercio e opprimeva l’agricoltura; il cattivo stato delle vie di comunicazione, che molte volte raddoppiava il costo dei prodotti dalla partenza all’arrivo; il peso di una burocrazia di tipo rinascimentale che schiacciava la società.
Ma ecco che, tra la fine del Seicento e i primi del Settecento, il Regno di Napoli venne ad essere coinvolto nella non breve serie delle guerre di successione. Considerata l’imminente fine della dinastia degli Asburgo di Spagna per via della malferma salute e della sterilità di Carlo II, senza che sopravvivessero altri diretti eredi maschi, era stato previsto che il Regno di Napoli dovesse andare, insieme con quello di Sicilia e con i Presidii, al Delfino di Francia: si apriva così per Parigi la possibilità di ottenere per vie pacifiche un possesso vagheggiato da duecento anni.. Ma morto nel 1699 il principe Giuseppe Ferdinando, figlio dell’Elettore di Baviera, ed erede prescelto dal declinante Carlo II quale sovrano di Spagna, s’era reso necessario arrivare a una seconda spartizione, mentre più vivace si faceva a Madrid la pretesa del partito filofrancese legato alla maggioranza dei grandi di Spagna: ma il Regno di Napoli, vecchio sogno della Monarchia d’Oltralpe, restava attribuito al Delfino (e la Spagna era riservata all’arciduca Carlo, secondogenito dell’Imperatore).
Ma Carlo II, per mezzo di un suo codicillo, fece appena in tempo a lasciare erede dei suoi domini europei ed americani Filippo duca d’Angiò, nipote del Re di Francia Luigi XIV, figlio del gran delfino Luigi di Borbone e di Maria Anna di Baviera : il 1° novembre 1700 Carlo II venne a morte e il nuovo re, che prese il nome di Filippo V, della dinastia borbonica, venne designato suo successore. Una clausola importante del testamento vietava a Filippo di unire la Corona di Spagna con quella di Francia
Per il Regno di Napoli il passaggio di dinastia, tutto sommato,si preannuzniava abbastanza indolore; ma l’esplodere della guerra di successione spagnola (1701-1713) non potè non coinvolgere questa porzione dei dominii di Spagna, cioè di uno stato rimasto quasi isolato, a parte il naturale collegamento con la Francia, davanti a tutti i potentati d’Europa.
A Filippo V si oppose l’imperatore d’Austria Leopoldo I, che aveva sposato la sorella di Carlo II, e che sosteneva la candidatura del figlio Carlo. Gli Asburgo videro la possibilità di restaurare l’impero di Carlo V, di riprendere l’antico disegno della monarchia universale.
Nel 1706 l’arciduca Carlo d’Asburgo entrava a Madrid, ma ne era ricacciato. Nel 1707 le truppe austriache entravano a Napoli: finiva, dopo oltre due secoli, la dominazione spagnola nel Regno di Napoli. Gli austriaci vi sarebbero rimasti fino al 1734. I perdenti, Francia e Spagna, avevano molti motivi di conflittualità tra di loro, che presto si sarebbero trasformati in aperta ostilità. La Spagna avrebbe cercato di recuperare i domini perduti in Italia a spese dell’Austria. Alla stessa Austria era sfuggito uno dei più ambiti domini spagnoli in Italia, il Regno di Sicilia, guadagnato dai Savoia.
Le vicende della politica internazionale, dopo aver allontanato la Spagna da Napoli nel 1707 e permesso un breve periodo di sudditanza del Regno al ramo viennese degli Asburgo, porteranno nel 1734 alla restaurazione dell’autonomia dinastica napoletana. Si sarebbe visto allora che il Mezzogiorno, pur con tutti i secolari problemi di disgregazione, di miseria e di arretratezza che ne affliggevano la vita politico-sociale e l’economia, era, tuttavia, un paese tutt’altro che povero di interne energie: un paese che, nel giro di pochi decenni, sarebbe stato in grado di affrontare un profondo sforzo di rinnovamento e di esprimere una cultura e un personale politico di rilievo europeo, provando che due secoli di faticoso travaglio all’ombra del trono di una dinastia straniera non erano trascorsi invano e che il Regno del 1734 non era più né quello del 1501 né quello del 1647-48.

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