giovedì 29 agosto 2019

La Basilicata contemporanea. 29. Il carteggio di Giustino Fortunato

Parlare di Giustino Fortunato rischia di far cadere chi ne scrive nell’abisso, sempre incombente, dello stereotipo. In effetti, il grande Rionerese è figura troppo nota agli studiosi di storia del Mezzogiorno, eppure, in certo qual modo, incomprensibile nel suo tragico pessimismo, strettamente congiunto alla sua fede nell’Unità nazionale come unico rimedio ai mali meridionali. 
Una figura che, a più di ottant’anni dalla morte, non è possibile banalizzare e che non smette di far discutere, sia esaminato nel suo operato politico che nell’opera, accurata e attenta, di storico. Una figura complessa, quella di “Don Giustino”, dunque, che, a partire dal 1978, è stato possibile esaminare anche dal monumentale Carteggio curato magistralmente da Emilio Gentile nei quattro volumi laterziani, dai quali sono emerse più chiaramente le sue diverse anime: il deputato meridionale, tormentato dalla coscienza dei limiti del Mezzogiorno e dello Stato unitario, ma teso a cercare una soluzione, specie nelle lunghe conversazioni con Croce e Salvemini; l’uomo di cultura, che sostenne un’intera generazione di giovani studiosi nella ricostruzione e lettura, senza schemi precostituiti, della storia della Basilicata medievale e moderna, con le prime, acutissime, ricostruzioni del cruciale 1799; l’uomo tout court, dominato da un’acuta etica del lavoro e della famiglia, presente ai suoi affetti fino alle ultime, tragiche lettere, in pieno regime, a Giovanni Ansaldo. Una «civiltà delle lettere», quella fortunatiana, che comprende 100 tra colleghi, amici, conoscenti vari che segnarono, in modi e forme diverse, la storia della Basilicata, del Mezzogiorno, dell’Italia a cavaliere tra Ottocento e Novecento e nelle grandi bufere delle guerre e del fascismo.
L'epistolario curato da Gentile, di esemplare sistematicità, è, di fatto, indispensabile, soprattutto perchè gli interlocutori di Giustino Fortunato furono, via via, Quintino Sella, Pasquale Villari, Sidney Sonnino, Michele Torraca, Benedetto Croce, Pasquale Turiello, Francesco Saverio Niti, Floriano Dei Secolo, Giovanni Giolitti, Giuseppe Zanardelli, Giuseppe Lombardo Radice, Gioacchino Volpe, Ettore Ciccotti, Gaetano Salvemini, Giuseppe Prezzolini, Renato Fucini, Giovanni Ansaldo, Umberto Zanotti Bianco, Antonio Salandra, Luigi Albertini, Giovanni Amendola, Filippo Turati, Luigi Salvatorelli, Ferdinando Martini e molti altri. 
Si tratta di 1.938 lettere, quasi tutte di Fortunato, a storici, uomini politici, scrittori, giornalisti e amici. Un mare magnum di corrispondenti, quello fortunatiano (si vedano i nostri post "La Basilicata contemporanea", capp. 24-28), che ha fatto sì che dall’edizione di Gentile, quasi quarant’anni fa, siano usciti altri carteggi parziali, che giova qui ricordare. 
Il ventennio successivo al Carteggio laterziano fu fecondo di integrazioni: infatti il 1983 vide la pubblicazione, a cura di Domenico Sabella, delle Lettere inedite di Giacomo Racioppi a Giustino Fortunato (in «Realtà del Mezzogiorno», 1982-83), seguite, tre anni dopo, dal saggio di F. Cordova, Giustino Fortunato: temi e riflessioni. Lettere ad Elda Dallolio, in «Archivio Storico per la Calabria e la Lucania», LIII (1986), pp. 124-127. Nel 1993, per i tipi di Calice, usciva La civiltà delle lettere - I corrispondenti di Giustino Fortunato, che raccoglie le lettere a Fortunato di Bertaux, Bissolati, Einaudi, tra gli altri, dal 1899 al 1925, quando il grande meridionalista era impegnato nell’organizzazione del consenso. Ancora, del 2001 sono le Sessantaquattro lettere inedite di Giustino Fortunato, con introduzione e note di Manuela Raiola (Napoli: Emeroteca-Biblioteca Tucci, 2001) e, infine, Giustino Fortunato e il Senato. Carteggio, 1909-1930, a cura di Emila Campochiaro, Anna Boldrini e Lucia Pasquini (Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003).
Per non citare i carteggi parziali a personaggi di primo piano, tra i quali merita di essere ricordato il bel volume di Calice di Rionero in Vulture, il paese lucano che ha dato i natali a Fortunato: esso offre un'interessante documentazione costituita da un gruppo di lettere inedite, tra cui alcune della amata sorella Anna, relative all'ultimo decennio di vita del grande studioso che scoprì «le due Italie». Il volumetto (Giustino e Anna Fortunato, Delle private lettere (da Napoli 1923-1932), prefazione di Giuseppe Galasso e introduzione di Vito Claps e Antonietta Tarricone) trae origine dal fortunoso ritrovamento di un fascicolo che era finito tra i rifiuti di Muro Lucano e che Claps ha potuto visionare per primo e subito recuperare riconoscendolo come autentico. 

giovedì 22 agosto 2019

Materiali didattici. 46. Potenza dopo l'Età napoleonica

Nell'aprile del 1821, dopo il fallimento della Rivoluzione costituzionale nelle Due Sicilie, l'esercito austriaco entrò a Potenza, obbligando numerosi cittadini a prestazioni onerose, tanto che molti furono costretti a fuggire; nell'ottobre dello stesso anno arrivò in città il maresciallo Roth, con la corte marziale e 600 militari austriaci, sostentati a spese del comune, che dovette destinare 252,75 ducati sottratti ai lavori di costruzione del cimitero cittadino. Due anni dopo, si ebbe l’arrivo del colonnello Del Carretto e il generale Colletta, in veste di commissari del re per verificare la situazione della provincia. 
Durante il loro stanziamento in città, gli austriaci catturarono il maggiore Domenico Corrado che, dopo essere stato arrestato, riuscì ad evadere dalle carceri potentine e a rifugiarsi a Napoli, dove ebbe contatti con la Carboneria locale. Ritornato in Basilicata, promosse nel potentino agitazioni e tumulti a carattere politico, operando dalle campagne di Genzano, dove si era rifugiato, anche se fu alla fine arrestato nel suo podere di Gravina di Puglia, tradito da un contadino alle sue dipendenze e fu condotto nel carcere di Santa Croce a Potenza. La corte marziale lo giudicò colpevole di «associazione illecita prima e dopo il 24 marzo 1821, unione settaria, cospirazione dal mese di settembre 1821 in poi tendente a distruggere e cambiare il governo istigando gli abitanti di Potenza e degli altri paesi del circondario ad armarsi contro l'autorità reale». Fu accusato inoltre «di tentata rivoluzione nel giorno di sabato santo del 1821 per innalzare l'albero repubblicano nel comune di Tito e Vignola e di scorrerie a mano armata nelle campagne per sovvertire l'ordine e sabotare il governo». La sua condanna a morte fu eseguita pubblicamente il 10 aprile 1822: egli comandò da solo il plotone di esecuzione, dicendo «mirate al petto, ma non mi sfregiate il viso»; la sua tormentata vicenda continuò anche dopo la morte, con la moglie costretta a pagare al comune di Potenza, per conto del marito defunto, un debito di 147 ducati. 
L'occupazione in città si protrasse dal 1821 fino al 1826, incidendo pesantemente sulle casse comunali: la legge del 29 agosto 1821 stabiliva, infatti, che le spese per il mantenimento dell'esercito austriaco spettassero al decurionato, che doveva occuparsi, inoltre, dell'alloggio e della sistemazione delle truppe e degli ufficiali. Potenza, ancora priva di strutture adeguate a scopi militari, fu costretta ad affittare locali da destinare a questo scopo;  i soldati furono di volta in volta alloggiati in locali inadatti, come quelli dell'ex convento di San Francesco, nei sotterranei della casa comunale, in quelli dell'ex chiesetta del Monte dei Morti in Piazza Sedile, nell'ex convento-ospedale San Giovanni di Dio, nell'ex Grancia di San Lorenzo, nel monastero di Santa Maria e nel seminario diocesano, mentre gli ufficiali furono ospitati in case o palazzi privati affittati a carico del comune. 
Al termine dell'occupazione, il comune si trovò ad aver pagato un totale di 3.370 ducati per il loro mantenimento, intaccando pesantemente il bilancio comunale, con un deficit aggravato nel 1825, quando, alla morte di Ferdinando I, Potenza fu chiamata, come le altre città del Regno, a stanziare fondi per i funerali del sovrano. L'agitazione in città fu - come si può immaginare - altissima in questi anni, soprattutto quando furono rinvenuti sedici barili di polvere da sparo nel deposito dei dazi indiretti: essi, di provenienza sconosciuta, potevano essere appartenuti alle guardie o essere stati nascosti dai ribelli negli anni precedenti. 
Nel decennio compreso tra il 1820 e il 1830 i sindaci che si succedettero alla guida del capoluogo lucano furono in primo luogo Gerardo Castellucci, nel 1820, già sindaco del capoluogo durante la restaurazione borbonica, con decreto del 17 gennaio 1817; Gaetano Riviello nel 1821; Gerardo Castellucci nel 1822; Vincenzo Giambrocono, che dal 1823 al 1829 ricoprì diversi mandati e Luigi Isabelli, sindaco dal febbraio del 1829 al febbraio del 1832. Di fronte a questo scarso turnover dei primi cittadini, un’altra costante della pur tranquilla storia cittadina successiva alla “scossa” del 1820-21 fu un deficit costante, ragion per cui il comune chiese al governo centrale un aumento dei fondi per affrontare le spese impreviste, tanto che, nel 1830, nominò l'avvocato Gennaro Ricotti affinché si recasse a Napoli per assumere la difesa degli interessi comunali preso il re e per chiedere la diminuzione della contribuzione. Il comune si trovava, infatti, in condizioni critiche a causa delle tante spese cui doveva far fronte. 
Un’altra costante della storia urbana e istituzionale-amministrativa del capoluogo fu la trasformazione del tessuto urbano, che continuò anche dopo l’Età napoleonica, quando – come si è qui evidenziato – furono concretizzati i primi progetti di “riconfigurazione” della città. Nel 1823, seguendo il progetto dell'ingegner Scodes, l'Intendenza fu ubicata nell'ala del Palazzo affacciato sulla piazza, poi detta, appunto, dell’Intendenza, mentre i Tribunali furono ospitati nell'ex palazzo del convento, alle spalle della chiesa di San Francesco. A partire dal 1820, la piazza del Sedile divenne sede ufficiale delle attività amministrative e delle ufficialità cittadine, anche se, in realtà, il Sedile ospitava le carceri, mentre le riunioni comunali si tenevano nella cancelleria municipale, sulla via Pretoria; soltanto dal 1824 in poi l'edificio del Sedile sarebbe stato sottoposto a interventi di ristrutturazione, divenendo sede dell'amministrazione municipale, acquistando il nuovo ruolo di accesso alla città per il traffico carrabile. Dal 1822 il Consiglio provinciale di Basilicata fu ospitato nella sede di palazzo Loffredo che, rispetto alla vecchia sede del complesso del Seminario, godeva di una posizione migliore, di fronte al Vescovado e, quindi, di una maggiore rappresentatività. Nello stesso anno fu spostato da Avigliano a Potenza il reale Collegio di Basilicata in cui sarebbe stato accolto come maestro di musica Francesco Stabile, impegnato in città non solo nella scuola, ma anche nelle chiese, dove proponeva musica sacra. Grande attenzione fu riservata anche alla costruzione dell'archivio, di cui nel 1824 fu incaricato prima l'ingegnere Giordano e poi l'ingegner Scodes. Da richiamare anche progetti per la realizzazione di un nuovo teatro che doveva sostituire quello ospitato nella chiesa della Congregazione dei Monti in piazza del Sedile, la cui struttura si presentava in pessime condizioni. Altro importante polo strutturale della città era a Santa Maria che, dal Cinquecento, ospitava l'omonimo convento ed era il luogo di approvvigionamento d'acqua potabile. Nel 1823 fu deliberata dal decurionato l’istituzione, nella stessa area, dell'Orto agrario di cui si occupò la società Economica della provincia di Basilicata che, con decreto regio del 27 agosto 1823, ricevette il suolo dal comune. Comunque, grande attenzione continuò ad essere rivolta  alla riqualificazione di via Pretoria, spostando attività fatiscenti, poco adatte all'immagine del centro cittadino, nel contempo intervenendo per la realizzazione della piazzetta della Trinità, oltre al già citato largo dell'Intendenza con le sedi dell'Intendenza, dei Tribunali, dell'Archivio e della Reale Gendarmeria.

mercoledì 14 agosto 2019

Risorgimento lucano. 36. Ordini militari di Camillo Boldoni (14 agosto 1860)


FONTE: ARCHIVIO DI STATO DI POTENZA, Governo Prodittatoriale Lucano, b. IV, fasc. 28, c. 140, “Ordine del giorno per la marcia in Potenza”, 14.08.1860.

giovedì 1 agosto 2019

Materiali didattici. 45. Potenza a inizio Ottocento

Per quattro sentieri si giunge in questa città da’ passeggeri. Per la parte di oriente si viene da Taranto ed altri luoghi, per l’occidente si viene da Napoli e per mezzogiorno da Laurenzana e da altri luoghi, terre e città, ville e casali. Per la parte di Borea si viene da Melfi e da altre città. Ma per dovunque si giunge, per molto spazio distante questa città con quattro elevatissimi campanili ed una elevatissima torre, che a guisa di superstiti Titani par che minacciano il cielo, maestosa si vede .

Così Gerardo Picernese, a metà del Settecento, nelle sue annotazioni ed aggiunte alla Istoria seicentesca del Rendina, descriveva Potenza che, alla fine di quello stesso secolo, contava all’incirca 9.000 anime e si presentava come uno dei centri più importanti della provincia, tanto che Emanuele Viggiano nel 1805 scrisse:

Non v’ha in Basilicata città veruna grande e ragguardevole […]. Potenza è fralle poche che tutte le altre sorpassano; e se non toglie il primato a Melfi ed a Venosa, che le migliori sono, si dia in parte la colpa alla mancanza delle strade consolari […] le vince però in popolazione […] e nel numero delle case religiose .

Nella Statistica del Regno di Napoli del 1811, apprendiamo, nel terzo volume, altre notizie sull’aspetto della città d’inizio Ottocento:

Abita la più gran parte del popolo in sottani in cui vi si scende per cinque, o sei gradoni, i quali non sono comodi né salubri, non sono ventilati, mancando la più gran parte di finestre. Non sono mantenuti con nettezza tenendovi i polli, il porco e spesso l’asinello. Il focolare è in un angolo, e qualche volta con cacciafumo, vi si bruciano legni selvaggi e sarmenti. Cause dell’insalubrità dell’aria. Angustia e succidezza delle case. Strade in parte anguste e immonde. Letamai alle mura dell’abitato. Cadaveri delle bestie, che si lasciano per ogni dove insepolte. Numerose stalle, e macelli tenuti senza nettezza. […] Nel centro abitato si fa uso di acque che sgorgano in pozzi scavati a una certa profondità […] sono fabbricati chiusi senza intonaco […] l’acqua ha un cattivo odore di chiuso, il sapore è salmastro e nausaoso .

Dalle descrizioni di questi autori, si ha un’immagine abbastanza chiara su come si doveva presentare la città, che era anche sede arcivescovile, tra la fine del 700 e l’inizio dell’800.