giovedì 24 settembre 2020

La Calabria. 4. In Aspromonte, martiri o ribelli? L’autorappresentazione in una memoria coeva

Da  "Rivista Storica Calabrese", a. XXXIII n. s., 2012, 1-2, pp. 79-90.
Alla domanda posta nel titolo ci si sente di rispondere “martiri” sin d’ora. Le memorie riguardanti la “tragedia” d’Aspromonte, come al tempo fu definita, si connotano, infatti, come ulteriore tassello di quella sistematica trasformazione della parabola garibaldina in una serie di momenti epici ad opera di un apparato propagandistico efficacissimo, interessato a mostrare Garibaldi come esempio vivente di quelle virtù civili che i patrioti risorgimentali cercavano di instillare nel popolo.
Le memorie aspromontane, in effetti, sono un tentativo ben riuscito – ancorché meno pacificamente raggiunto dei resoconti dell’impresa dei Mille - di appropriarsi della figura di Garibaldi e di farne un “santo laico”. La stampa popolare, infatti, proprio in quel periodo, subendo un cambiamento rivoluzionario, aveva “usato” Garibaldi come esempio, consegnandolo al pubblico come la personificazione della Nazione italiana. Nonostante il fatto che tutti i suoi sforzi successivi – prima fra tutti, proprio l’impresa terminata sull’Aspromonte – fossero stati, poi, di fatto, errori imbarazzanti, la propaganda lo trasformò, in quel tornio di tempo, in una sorta di santo, ed una bizzarra iconografia sorse sulla base di cristianesimo e laicismo. La leggenda veniva ripresa dalla realtà, anche negli episodi più imbarazzanti dal punto di vista politico – anzi, forse più in questi frangenti che nell’impresa dei Mille. Del resto, già nel 1864 un’anonima biografia di Garibaldi concludeva, nel narrare i fatti d’Aspromonte: 

«Se ad Aspromonte noi diciamo che il Garibaldi errò, gli stranieri vi trovano cagione di magnificare sempre di più l’eroe, inquantochè apparisce a loro, come è di fatti, cinto d’una gloria che fino allora mancavagli, la gloria del martirio»

e nello stesso 1862 Ferdinando Petruccelli della Gattina aveva già, ironicamente, osservato che Garibaldi «aveva preso l’abitudine a far de’ miracoli».
Ne emerge un caso paradigmatico, sebbene ante litteram, della potenza dei mezzi di comunicazione “di massa” nel mobilitare l’opinione pubblica attraverso il ricorso a stilemi letterari e religiosi già ampiamente radicati.
In questo ambito, comunque, le memorie dei garibaldini in Aspromonte sono ben diverse dal trionfalismo di quelle dei Mille, come detto. Sono memorie dominate dal ricordo rapsodico, quasi imbarazzate nel confrontare come l’esercizio della ribellione, che nel 1860 aveva guadagnato ai Savoia un grande regno, nel 1862 non servisse più. Un dilemma, quello tra riferimenti di partenza e approdi, evidentissimo in tutti i memorialisti e, comunque, non sfruttato in senso apertamente polemico, quanto, piuttosto, interrogativo. In questa sede, si è pensato di scegliere proprio, tra i numerosi scritti aspromontani, quelli più emblematici di questa lacerante scissione, di questo ricordo offeso e pur tuttavia fautore di un nuovo tassello della mitologia “martirologica” garibaldina.
In tal senso risulta emblematico il Dopo Aspromonte di Giuseppe Bennici, aiutante di campo di Nino Bixio, condannato ai lavori forzati per aver partecipato alla spedizione del 1862. Inviato a combattere contro il suo ex generale, aveva disertato e si era ricongiunto a lui. Venne messo ai ferri e condannato a morte ma, su intervento di Garibaldi, gli fu commutata la pena con i lavori forzati a vita e con il degrado con infamia, con altri 53 reduci di Aspromonte, spedendolo a Portolongone. I suoi ricordi, assai più cupi di quelli del Pellico, a cui pure sono stati accostati fin dalla loro pubblicazione, dedicavano poche pagine all’Aspromonte, preferendo soffermarsi lungamente sulle conseguenze di quella tragedia.
Quello del Bennici è un racconto che, pur nel solco della memorialistica, concede molto alla letteratura del martirologio, di fresca memoria risorgimentale, soffermandosi sul trattamento inumano, da nemici della patria, riservato ai garibaldini. Leitmotiv della narrazione risulta la dichiarazione del giovane garibaldino Balestra: «Io non sono né traditore, né brigante; ma solo ho seguito Garibaldi, perché Vittorio Emanuele fosse re d’Italia in Campidoglio». E notevole risulta l’insistenza sulle immagini mortuarie, martirologiche, appunto, connotanti l’impresa di Aspromonte come una sorta di “vendetta postuma” degli austriaci e dei borbonici, tanto più amara perché provocata dallo stesso Stato italiano e gravida di conseguenze sullo stesso spirito autonomista siciliano, mai del tutto sopito e che rischiava di riemergere nei confronti della nuova amministrazione, stanti le promesse di miglioramento promesse e mai attuate, ora aggravate dal soffocamento, con la forza, dell’impresa, fortemente voluta – si sottolineava – dalla popolazione catanese. La duplicità di conseguenze di una stessa esperienza “ribellista”, prima contro i Borbone, poi contro Roma, lasciava, dunque, nel Bennici una traccia cupa, tuttavia ben dentro il processo della difficile costruzione dello Stato italiano, finalmente sfrondato dai colori sgargianti della retorica plebiscitaria e rivelantesi come una sorta di nuova tirannide, una lacerante disillusione.
La prefazione alle memorie del Bennici, scritta da Giuseppe Civinini, evidenzia in modo più politico su come la sinistra garibaldina si rappresentasse in tale frangente. Una personalità complessa, del resto, quella del Civinini, non esente da contraddizioni e che attraversò gli anni in cui si andò costruendo lo Stato unitario, se non da protagonista, non certo da anonima comparsa.
A soli quindici anni era già ricercato dalla polizia granducale come aderente alla “Giovine Italia”; rifugiatosi a Liverpool, poi a Genova, venne estradato in Toscana. Seguirono sette anni di intensa attività cospirativa. Infine, a Torino, nel 1861 il Civinini fu redattore e poi direttore della voce del “partito garibaldino”, «Il Diritto», di proprietà dell’amico Lemmi, affiliandosi, nel contempo, alla Loggia massonica “Dante Alighieri”, dove incontrò, tra gli altri, Depretis e Saffi. Dopo Aspromonte, dove fu al fianco di Garibaldi, il Civinini si avvicinò alle posizioni legalitarie di quella parte dei democratici (Crispi, Bargoni, Mordini, Lazzaro, ecc.) che di lì a poco sarebbero stati sconfessati da Garibaldi e affermò: 

«la guerra che noi vogliamo ora fare colla penna e colla parola, in Parlamento e fuori, non può vincersi a schioppettate: e finirà soltanto quel giorno in cui il Re d’Italia salirà sul Campidoglio».

Giuseppe Civinini presentava, fin dalle prime pagine della sua prefazione, significativamente, il Bennici come “martire” italiano, legandolo alla “catena martirologica”, con una evidente connotazione politico-religiosa rimontante, in ultima analisi, alle memorie preunitarie contro la tirannide. Quello che più potrebbe apparire sconcertante è il legame del memoriale del Bennici con quello di Felice Orsini. Tuttavia, la cosa non appare sorprendente, considerata l’intonazione antifrancese, apertamente polemica, del Civinini, che, anzi, polemizzava anche sul fatto che, nei fatti d’Aspromonte, non fosse lo straniero ad essere oppressore, quanto, piuttosto, lo stesso governo italiano. 
L’oppressione aperta del governo piemontese, unita al rigurgito clericale, sarebbero state le cause, secondo il Civinini, di una rivoluzione non completata, irredenta ed anzi contestata. Egli scriveva, in tal senso:

Noi combattemmo la Convenzione dei 15 settembre; combattiamo il Concordato; combatteremo quanto si opponga all’unità della patria, quanto nuoca (sic) alla civiltà e al progresso. Eppure, di tutti, i più innocenti siam noi; […] quanto altro sia avvenuto ed avvenga contrario all’unità e alla libertà della patria noi avevamo tentato impedirlo nel 62; e
per questo fummo presi a schioppettate in Aspromonte; per questo fu ferito il nostro generale; per questo furono fucilati o condannati a pene infamanti i nostri compagni.

La condotta governativa ad Aspromonte mostrava, dunque, secondo Civinini, come l’esercito, che avrebbe dovuto rappresentare la Nazione, fosse di fatto separato da essa. Dunque la crisi aspromontana aveva dimostrato, nella maniera più traumatica possibile, che la contrazione del progetto di una rivoluzione italiana secondo il programma di «unità e libertà» non poteva continuare e, anzi, rischiava di precipitare il Paese nella guerra civile.

BIBLIOGRAFIA
M. ISNENGHI, Garibaldi fu ferito. Storia e mito di un rivoluzionario disciplinato, Roma, Donzelli, 2007.
Vita di Giuseppe Garibaldi scritta sopra documenti genealogici e storici dalla sua nascita fino al suo recente ritorno a Caprera, Firenze, coi tipi di Felice Le Monnier, 1864.
L. RIALL, Garibaldi. Invention of a Hero, New Haven, Yale University Press, 2007.

sabato 5 settembre 2020

A margine del libro di Carmine Pinto, ''La guerra per il Mezzogiorno. Italiani, borbonici e briganti. 1860-1870"


 “Per le plebi meridionali il brigante fu assai spesso il vendicatore e il benefattore: qualche volta fu la giustizia stessa. Le rivolte dei briganti, coscienti o incoscienti, nel maggior numero dei casi ebbero il carattere di vere e selvagge rivolte proletarie. Ciò spiega quello che ad altri e a me è accaduto tante volte di constatare; il popolo delle campagne meridionali non conosce assai spesso nemmeno i nomi dei fondatori dell'unità italiana, ma ricorda con ammirazione i nomi dell'abate Cesare e di Angelo Duca e dei loro più recenti imitatori”. Così si esprimeva Francesco Saverio Nitti a proposito di un fenomeno che, di fatto, molto ha concorso a determinare (sia pure in maniera distorta, fuori fuoco e, negli ultimi anni, aberrante) l’identità meridionale. E da qui dovremmo partire per analizzarne la portata, grazie alle precise e complete informazioni che Carmine Pinto offre in un magnum opus come questa Guerra per il Mezzogiorno, ampiamente documentata e frutto di ricerca capillare. Quando guerra e rivoluzione travolsero ancora una volta il Regno delle Due Sicilie nel 1860, il brigantaggio, infatti,  diventò una delle opzioni per la resistenza borbonica al nuovo Stato, costituendosi come una delle espressioni politiche, sociali e criminali della crisi dell’unificazione nel Mezzogiorno, condizionato da eredità e tradizioni di lungo periodo.

La Guerra per il Mezzogiorno si basa su una combinazione ben riuscita di varie chiavi di lettura: una stricto sensu storiografica, una sociologica e, infine, una di tipo politico. Pinto, infatti, vuole ricostruire la dinamica delle forze in campo da angolazioni autonome, il vissuto dei civili e dei combattenti, il ruolo della guerra delle idee e degli interessi. Il libro racconta una guerra dove il ruolo (e il controllo) della popolazione civile fu centrale e prioritaria. Furono coinvolte tutte le province meridionali, ma con gradi e intensità differenti: infatti, le operazioni non coinvolsero mai direttamente le città ed i centri più importanti (tranne che per attività di mobilitazione politica e logistica) e progressivamente si concentrarono nelle fasce appenniniche del Mezzogiorno interno. La guerra contro i briganti, in questo senso, vide emergere per la prima volta una lettura delle province napoletane come una delle aree più problematiche del nuovo stato. Funzionari, militari, intellettuali, politici ne avrebbero costruito narrazioni e rappresentazioni, analisi strutturati o stereotipi destinati a perdurare, individuando tutti nel contesto sociale le principali ragioni del fenomeno, in modo da evidenziare tanto le questioni di congiuntura politica (condannare le antiche istituzioni borboniche), quanto il reale impatto con le province, dove emersero differenze e caratteri che sono stati al centro di studi importanti, anche recenti. Allo stesso tempo il conflitto determinò una prima seria di discussioni, studi, analisi che trasformarono gradualmente la memoria in “mito”. Si tratta, per così dire, a livello di scrittura, di un multitelling, sia sul piano cronologico che tematico, e Pinto cerca proprio di rendere questa simultaneità tenendo insieme le vicende e le prospettive di unitari italiani, borbonici e briganti. Una forma di narrazione funzionale, questa, all’ipotesi di una guerra che fu conseguenza dell’incontro tra la rivoluzione nazionale italiana e l’antico conflitto civile meridionale iniziato alla fine del XVIII secolo. 

L’autore utilizza la storia militare, la ricostruzione delle operazioni e le vicende dei combattenti per comprendere le diversificate ragioni che spinsero un’intera società a schierarsi su uno dei due fronti radicalizzando i progetti unitari. Particolare attenzione viene posta a più riprese, come dicevo, sulla guerra ideologica, in quanto entrambi i progetti politici si avvalsero di determinati presupposti progettuali per legittimare e giustificare le proprie azioni. Visuali, queste, utili a confutare una serie di miti che una valanga di pubblicazioni ha contribuito ad alimentare. Quali sono dunque questi miti che l’autore, lasciando parlare i fatti e i documenti, smonta? L’idea che quella del Sud fu una conquista di tipo coloniale da parte del regno sabaudo, di cui tutti i meridionali furono vittime o al più passivi spettatori; l’idea che il Regno delle Due Sicilie fosse un’isola di prosperità e buon governo; l’idea che i briganti, paladini dei popoli oppressi del Sud (oppressi da chi se non dai Borbone stessi e per secoli?), agissero nel pieno del consenso popolare e con un preciso programma sociale, per la spartizione delle terre, e politico, per la libertà, l’uguaglianza e il riscatto degli ultimi.

Carmine Pinto ha affermato, giustamente, che gli storici scrivono per la comunità scientifica e per il pubblico ne che a volte le due cose coincidono. Concordo con lui nel dire che questo volume e il suo successo sia prova della necessità di un maggiore protagonismo della comunità degli storici, di un saper scrivere e divulgare argomenti anche complessi. Non si può parlare di crisi della disciplina a livello nazionale se libri come La Guerra per il Mezzogiorno hanno questo successo e riscontro a tutti i livelli: infatti esso risponde alla grande domanda di storia, visibile in fiction, romanzi, rievocazioni, programmi televisivi, pagine social, eventi pubblici, festival.  Questo volume ci mostra che è possibile rafforzare il filo tra storici di professione, studiosi appassionati e grande pubblico e, aggiungo, il compito primario di non raffreddare l’entusiasmo per la storia di qualità può essere svolto in interazione con la scuola, che può insegnare metodi e basi e con le istituzioni, che dovranno investire sulla ricerca di alto profilo.