giovedì 31 dicembre 2020

Lo "scarabattolo" del Palazzo Sanseverino a Saponara in Val d'Agri del XVII secolo (Maddalena Albano)

Gli spazi geografici che hanno subito sconvolgimenti naturali, con trasformazioni su un piano geologico, ma ancor di più su quello antropico, conservano sempre una relazione tra passato e presente, tra visibile e invisibile, per cui tracce del vissuto a cui hanno fatto da sfondo e che sembrano svanite nel nulla, prima o poi riemergono come fantasmi dalla forte valenza emozionale e con cui porsi in atteggiamento dialogante. 

È questo il caso di alcuni centri della Val d’Agri, in provincia di Potenza, devastati dal violentissimo terremoto del 1857, che a fatica ma lentamente restituiscono qualche traccia importante di un passato più o meno lontano. In quest’ottica, è interessante, ad esempio, percorrere quelle tracce che consentono di ricostruire caratteristiche generali e particolari del leggendario palazzo Sanseverino di Saponara, oggi Grumento Nova, di cui sono sopravvissute solo poche evidenze materiali, ma che rappresenta un campo di ricerca inesplorato e di grande interesse per molteplici punti di vista, soprattutto per la ristrutturazione che ne venne fatta a fine Seicento, per gli eventi che ospitò in tale epoca e per alcuni oggetti da collezione che vi si conservavano. 

È proprio in relazione a quest’ultimo aspetto che proponiamo un flash storico, per suggerire percorsi di ricerca in relazione ad un interessante oggetto tra quelli presenti nell’antico castello in epoca seicentesca. In una delle stanze private del palazzo, come documentato in testi originali del 1686, era conservato uno “scarabatto”, ovvero un prezioso oggetto religioso dalla forma particolare, quella di un carro trionfale dell’altezza e lunghezza di un palmo, di corallo, con due cavalli d’argento dorato, guidati da due puttini anch’essi di corallo, con l’immagine di Santa Rosalia fatta anch’essa dello stesso materiale marino. 


L’oggetto desta particolare interesse per vari motivi. In primo luogo il raffinato “scarabatto” rappresenta un collegamento con il mondo siciliano da cui proveniva la principessa di Paceco Maria Fardella (1680-1709), moglie del principe Carlo Maria Sanseverino (1644-1704). La città di Trapani, nella cui area si pone il principato di Paceco, di cui era signora Maria Fardella, era nel 1600 uno dei centri più rinomati per la lavorazione del corallo. La liberazione del mare dai Turchi, grazie alle vittorie di Carlo V, permise dal 1500 una più ampia circolazione di materiali e oggetti d’arte nel Mediterraneo, tra Italia e Spagna in particolare, e consentì “l’individuazione e la pesca di nuovi banchi di corallo, tanto che non a caso il sovrano riceveva dalla città di Trapani […] simbolici doni”. 

Una sostanziale certezza sulla fattura siciliana del carro viene data da diversi elementi. Il culto di Santa Rosalia si era fortemente radicato nell’isola proprio nel XVII secolo. “A seguito del rinvenimento dei resti mortali di Santa Rosalia nel luglio 1624, in una grotta del Monte Pellegrino, si ebbe a Palermo un fiorire di opere realizzate nei più svariati materiali dedicate alla Vergine eremita. Attraverso i secoli si è così tramandato un significativo corpus di immagini che trovano, oltre che nella tela e nel marmo, anche nel legno, nell’alabastro, nell’avorio, nella madreperla, nella tartaruga, nella ceramica, nell’argento e nel corallo un mezzo espressivo assai congeniale”. La forma particolare della preziosa suppellettile si accorda inoltre perfettamente con la tradizione dei festeggiamenti della santa.

Ancora troviamo validazione all’ipotesi della provenienza siciliana, da notizie su casa Paceco Fardella, nella tradizione della famiglia da cui discendeva la principessa Maria. Non si può non ricordare la nonna della principessa stessa, Maria Pacheco y Mendoza che, rimasta vedova di Placido Fardella nel 1629, si ritirò, con il nome di Maria della Santissima Trinidad, nel monastero de las Descalzas Reales di Madrid, raccogliendovi una vera e propria collezione di oggetti sacri di corallo realizzati a Trapani. Potremmo quindi addirittura ipotizzare che quello di Saponara fosse un ricordo di famiglia che la principessa aveva portato con sé dalla sua casa siciliana e che forse trasferiva ogni volta che si spostava da un palazzo all’altro in cui era solita risiedere. 

Il riferimento della Relatione nozze allo scarabatto consente ancora di chiarire forse un passaggio del Pacichelli del suo famoso testo sul Regno di Napoli in cui l’autore, descrivendo la cavallerizza del Palazzo Sanseverino a Saponara, parla di una carrozza e seggia di raccamo, co’rapporti di coralli. Pur non potendo escludere che nella cavallerizza del palazzo fosse presente una vera carrozza con le caratteristiche sottolineate dal Pacichelli o, magari, con del corallo usato anche solo come elemento di decorazione, resta comunque difficile pensare ad un uso del corallo per la realizzazione dei rapporti di una carrozza vera e propria. Il corallo era un materiale prezioso, utilizzato per gioielli o oggetti da collezione, per cui lo scrittore può aver equivocato, sentendo favoleggiare del famoso scarabattolo di corallo a forma di carro posseduto dal principe Carlo Maria, cosa che attesterebbe anche una sua mancanza di conoscenza diretta della casa dei principi. 

Il gusto per oggetti sacri e preziosi è tipico di un’epoca investita dallo spirito controriformistico che intensificò pratiche preesistenti come la conservazione di reliquie e di immagini religiose. La Chiesa favoriva il diffondersi di queste consuetudini che permettevano la circolazione di esempi morali di beati particolarmente edificanti e le famiglie aristocratiche, con una maggior disponibilità economica, trovavano anche in questo tipo di oggetti elementi di prestigio sociale, nonché di cura della propria religiosità e spiritualità, divenendo tra i committenti più importanti di questi prodotti. L’oro e l’argento si accostavano ad altri materiali come l’avorio, l’alabastro, l’ambra, le conchiglie, le perle e in particolare il corallo, apprezzato sia per il suo valore apotropaico, che per quello artistico in sé, espresso nella realizzazione di veri mirabilia, che dovevano destare lo stupore di chi aveva la fortuna di ammirarli e comunicare ricchezza e prestigio del proprietario. Pur non avendo, ad oggi, alcuna traccia per individuare lo scarabattolo di Saponara, possiamo immaginarne la fattura, sulla base di esempi di opere preziose delle maestranze trapanesi e comunque avanzare un’ipotesi suggestiva, tutta da verificare. 

BIBLIOGRAFIA

  • Relatione delle nozze celebrate nella città della Saponara ...  28 d’aprile 1686, in Napoli, presso Salvatore  Castaldi, 1686.

giovedì 17 dicembre 2020

Materiali didattici. 54. Uno studio del "Mondo Nuovo" di Tommaso Stigliani

La tesi di dottorato di Carla Aloè, presentata a Birmingham nel 2011, prende in esame la percezione letteraria e culturale de Il Mondo Nuovo di Tommaso Stigliani, un poema epico del XVII secolo sulla scoperta dell'America. 
Nella sua rappresentazione, Stigliani unisce una descrizione dettagliata dell'America con personaggi e situazioni che sono più vicini alle realtà della vita in Europa nel Seicento, creando un ponte tra i due continenti. Il poema è un'allegoria del vecchio mondo e il poeta lo usa per costruire una critica della società del tempo: ad esempio, la descrizione del tritone che vive nel Rio de la Plata è un modo per prendere in giro il suo concorrente Giambattista Marino; l'esecuzione da parte delle Amazzoni della poesia è una critica del comportamento del suo protettore Ranuccio Farnese; i pazzi dell'isola di Brandana rispecchiano il comportamento di tutti i principi e cortigiani che occupano ogni Corte europea del Rinascimento.
 E poiché si tratta di un poema, il poeta sagace può sempre difendere se stesso dicendo che il Mondo Nuovo è, in parte, un lavoro di finzione. 
Secondo Stigliani, il nuovo mondo, con tutti i suoi difetti, come il cannibalismo e la libertà di costumi sessuali è, nonostante tutto, meglio della corruzione e difetti che si trova nell'Europa contemporanea.

giovedì 10 dicembre 2020

La Calabria. 5. Pizzo e la tomba di Gioacchino Murat

Tommaso Antonio Masdea canonico decano dell’insigne Collegiata di Pizzo e confessore del morituro Sovrano, nel racconto pubblicato nel libro di G. Romano Ricordi Murattiani afferma «Il cadavere di Gioacchino Murat riposto in un baule foderato di taffetà nera, fu sepolto nella Chiesa Matrice da lui beneficata». Antonino Condoleo, che assistette alla sepoltura, così la descrive nella sua Narrazione pubblicata da E. Capialbi:

L’insanguinato cadavere fu subito messo in una rozza cassa di abete e fu portata da dodici soldati nella Chiesa Matrice. Nel deporla a terra, per l’urto ricevuto o perché mal connessa, la cassa si aprì negli spigoli. Oh, visione incancellabile di quel volto pallido, sfigurato da una pallottola che aveva orribilmente solcata la sua gota destra, di quegli occhi spenti, di quella bocca socchiusa, che pareva volesse terminare qualche incominciata parola, di quell’aria guerriera che la stessa morte non aveva potuto cancellare dal suo sembiante! Rattoppata alla meglio la cassa, con tutta sollecitudine, fu gettata nella fossa comune.

Il Condoleo è più prolisso del Masdea, ma i due racconti, tranne che per alcuni particolari marginali, concordano nell’indicare come luogo di sepoltura la Chiesa Matrice di Pizzo. D’altronde il luogo di sepoltura è chiaramente indicato nello stesso atto di morte esistente nel libro dei defunti dell’anno 1815 custodito nell’Archivio Parrocchiale della Chiesa Matrice di San Giorgio Martire che testualmente trascrivo:

Anno Domini 1815 — die vero decimo tertio Octobris - Pi­tii - Joachinus Murat Gallus ex rex civitatis, aetatis suae anno­rum quadraginta quinque circiter, SS. Sacramento poenitentiae cx­piatus, a Commissione militari damnatus, mortem  appetiit, et fuit e­jus corpus in hac insigni collegiali ecclesia sepultum.

La Chiesa Matrice di Pizzo, come le altre chiese esistenti nella ridente cittadina, raccolse, da tempo immemorabile, le spoglie mortali dei pizzitani. Fu semidistrutta dal terribile terremoto del 28 marzo 1783 e nel riedificarla si progettò di allungarla di un terzo della sua primitiva lunghezza per renderla capace di accogliere la popolazione di Pizzo che allora contava circa cinquemila abitanti. I lavori di ricostruzione si protrassero per alcuni decenni tanto che, ai tempo dell’occupazione francese, la Chiesa era ancora incompiuta; infatti, il 25 maggio del 1810, Gioacchino Murat di passaggio a Pizzo, elargì la somma di duemila ducati per il proseguimento dell’opera. L’allungamento della navata centrale comportò lo spostamento dell’abside e della sacrestia che furono ricostruite sopra le primitive tombe comuni poi abbandonate e ricoperte dalla pavimentazione. Le tombe gentilizie situate nella navata centrale della Chiesa, non furono mosse e tuttora testimoniano, coi loro coperchi marmorei finemente scolpiti, un’epoca di privilegi, e di distinzioni sociali. Sorse allora il problema di edificare nuove tombe comuni che vennero costruite nella navata centrale in prossimità dell’ingresso principale della Chiesa, tra le tombe gentilizie situate lungo i lati della navata grande. A riprova di quanto asserito c’è il fatto, storicamente accertato che, quando il cadavere dell’infelice Sovrano venne sepolto nella fossa comune, questa, essendo di nuova costruzione, conteneva solamente il cadavere di un popolano soprannominato « Cimminà ». Dopo il seppellimento di Murat la tomba fu sigillata con spranghette di ferro e, fino al 1860, aprirla significa, commettere un delitto di stato.
Nel 1899 alcuni parenti di Murat tentarono il ritrovamento dei  resti del loro  glorioso avo per dargli degna sepoltura nella Certosa di Bologna. Presero parte alle ricerche la Contessa Letizia e il conte Giulio Rasponi, nipoti diretti di Murat, il conte Ercole Estense Mosti, il conte Ettore Capialbi, , il marchese Gagliardi con alcuni suoi familiari, l’onorevole Raffaele De Cesare illustre storico e le autorità civili e militari del tempo. Lo storico Raffaele De Cesare pubblicò, in un opuscoletto intitolato Museo di espiazione al Castello di Pizzo, una sua lettura tenuta al Circolo Filologico di Napoli il 10 Maggio 1911. Ecco quanto egli scrisse a proposito di quelle ricerche:

Sulla tradizione locale e sulla testimonianza del Condoleo, contemporaneo, Ettore Capialbi era persuaso che il corpo di Gioacchino Murat fosse stato sepolto nella nuova Chiesa Matrice dedicata a San Giorgio Martire, e precisamente nella terza fossa... e che in questa avesse avuta sepoltura un pezzente notissimo di Pizzo; e non più nessuno.  Facile dunque ricercare le ossa del Re, che aveva statura di gigante, copiosa e folta capigliatura,  e denti bellissimi. Aveva 48 anni ed era nel vigore della vita. Era stato fucilato indossando una giubba coi bottoni di metallo,  e calzando stivali, cui erano attaccati gli speroni. ...Tale sicurezza mosse la nobile contessa Letizia Rasponi, figlia di Luisa Murat, ad accogliere l’invito di andare a Pizzo a rinvenire, dopo 84 anni, i resti mortali del suo avo, che si sarebbero raccolti e portati alla Certosa di Bologna. ...Si aveva la certezza di trovare i resti di Gioacchino, che di  accordo si era stabilito, ripeto, di trasportarli nella Certosa di Bologna dov’è il gran monumento di lui, opera mirabile del Vela. Nel tempo stesso sì sarebbe trasportato da Firenze il feretro della regina Carolina; nonché quelli delle loro figlie, Luisa Rasponi e Letizia Pepoli. ... Si partì da Roma il 22 aprile 1899 è si giunse a Pizzo nelle ore pomeridiane del 23. ...Al tocco del 24 Aprile era fissata la cerimonia. Il popolo di Pizzo si affollava innanzi alle porte della Chiesa, così che fu necessario, che soldati e carabinieri le proteggessero da una invasione. Tutti volevano assistere a quella funzione, così nuova nella loro storia. Il parroco indossò la stola, e a capo di preti e chierici, aprì il corteo intorno alla sepoltura, benedicendola con l’aspersorio. Poi cominciò l’operazione di sollevamento del coperchio, la quale fu lunga, poiché la fossa, da oltre   sessant’anni non più aperta, era fermata da arruginite spranghette di ferro. Ci vinceva tutti una commozione che si può immaginare. Ma, ahimè, scoperchiata la fossa, avemmo il più desolante disinganno: la sepoltura è piena di ossami sino all’orlo. Vi discende un operaio ed esplora; si  vede qualche piccola cassa che va in polvere appena toccata. Ci guardiamo, quasi non fiatando. Cade tutto quel castello di congetture, che ci aveva condotti al Pizzo! Non è possibile alcuna sicura ricerca in tali condizioni. Si apre la seconda fossa, e poi la terza, ma sono tutte ricolme di ossami. Un raggio di sole, penetrando nella buca di mezzo, fa nota una circostanza, che nessuno  sapeva o immaginava.

Non erano tre sepolture distinte sul pavimento della Chiesa, ma una sola, con tre bocche. Durante il colera del l837, che menò  strage in Pizzo, i cadaveri furono buttati in quell’unica sepoltura dalla bocca di mezzo; e poi, allargati a destra e  a sinistra, fino al punto che il sotterraneo si riempi tutto; e rinchiuso, non fu più violato. Tale circostanza non era nota a nessuno. ...Non vi era da far altro, che accettare l’insuccesso, e redigere, dopo cinque ore di lavoro, e assai malinconicamente, un verbale.
Il verbale,compilato dal segretario comunale del tempo, conferma quanto dice il De Cesare e porta in calce le firme di tutti i partecipanti alle ricerche.
Dalla descrizione del De Cesare emerge la circostanza che non erano tre tombe distinte, ma tre botole che immettevano in un unico sotterraneo. Sicuramente il fatto non era noto neanche alle autorità borboniche del 1815 che, diversamente, non avrebbero consentito l’apertura della tomba dopo l’inumazione in essa di Murat. Dai registri custoditi nell’Archivio Parrocchiale della Chiesa Matrice risulta che nei giorni successivi alla inumazione di Murat, altre salme furono seppellite, nell’unica fossa comune esistente nella Chiesa e tali inumazioni continuarono negli anni seguenti sino all’ultima avvenuta il giorno undici  Dicembre dell’anno 1837. Sul finire di quell’anno, si verificò, infatti, una epidemia di colera che mietè centinaia di vittime nella sola Pizzo, per cui, sospese le inumazioni , nelle Chiese, lo stesso giorno undici Dicembre 1837, iniziò a funzionare un piccolo camposanto costruito nel fondo rustico denominato « Gallo » di proprietà dei marchesi Stillitani di Pizzo. Questo piccolo cimitero, del quale si possono osservare ancora i ruderi del muro di cinta e di alcune tombe, funzionò per pochissimo tempo ed in esso vi furono seppellite le salme di 136 colerosi.
L’editto napoleonico di Saint Cloud non era ancora operante in quel tempo a Pizzo per cui, cessata l’epidemia di colera, il giorno 3 Maggio del l838 ripresero le sepolture nelle Chiese ad esclusione di quella di San Giorgio Martire la cui unica fossa comune era stata colmata fino all’orlo con l’epidemia colerosa dell’anno precedente.
Nell’autunno del 1976 iniziarono i lavori di restauro della pavimentazione della Chiesa Matrice e con un gruppo di amici pregammo Mons. Giuseppe Pugliese, arciprete della Collegiata, di consentirci di praticare un piccolo Foro sulla terza botola della navata centrale per poter osservare l’interno della tomba che, notoriamente, era quella nella quale era stato seppellito Gioacchino Murat. Era, pensammo, l’unica occasione che si presentava dato lo stato di smantellamento del vecchio pavimento e, sicuramente, un’opportunità analoga difficilmente si sarebbe ripresentata. Il buon Mons. Puglièse, sensibile alle nostre insistenti preghiére, ma alquanto titubante per l’immancabile clamore che il fatto avrebbe suscitato, ci consentì l’apertura del foro a condizione che l’operazione avvenisse nel modo più sbrigativo e alla presenza del sindaco del tempo Dott. Domenico Crupi. Infatti la sera del 6 ottobre, armati di martelli e scalpelli, muniti di grosse lampade e di macchine fotografiche, riuscimmo ad aprire un foro di circa 30 centimetri di diametro, appena sufficiente per poter osservare l’interno della tomba, introdurre una lampada e scattare alcune fotografie. L’interno della tomba corrispondeva esattamente alla descrizione fatta dal De Cesare: si notava un ammasso di ossa spesso, ricoperte con della calce bianca  disinfettante, si notava qualche cassa infracidita ed era evidente che si trattava di un unico sotterraneo. Dopo circa un’ora di attenta osservazione il foro fu rinchiuso con del cemento.
Con gli amici appassionati di storia locale formammo subito un comitato permanente con l’intento di trasformare il castello di Pizzo in museo murattiano. Furono sviluppate le fotografie scattate all’interno della tomba e alcune copie furono spedite a « Les Amis du Musée Murat », un’associazione murattiana di cui anche noi facciamo parte, che ha sede a La Bastide Murat (Francia).
Alcuni giorni dopo, osservando attentamente una delle fotografie scoprimmo, confuso nel mucchio di ossa, un particolare sensazionale: nientemeno che uno stivale di foggia napoleonica con un qualcosa che sembrava uno sperone si­tuato nella giusta posizione, chiaramente visibili. La medesima scoperta fecero gli amici del Museo murattiano in Francia e provvidero subito a far venire a Pizzo il Console Generale di Francia a Napoli Sig. Gerard Serre. Non era possibile che la sera del 6 Ottobre ,fosse sfuggito all’osservazione diretta e attenta dell’interno della tomba a diverse persone un particolare di tanta importanza.  Il fatto suscitò quel clamore paventato da Mons. Pugliese ed ebbe grande risonanza.
Il 28 novembre 1976, alla presenza di un gruppo di fotografi professionisti muniti di sofisticate apparecchiature fotografiche, guidati da Achille Canfora direttore dell’Istituto di Medicina Legale dell’Università di Napoli, coadiuvati dagli amici del Comitato Murattiano di Pizzo, alla presenza dell’Ufficiale Sanitario Mimmo Antonetti, del Notaio Nunzio Naso e del comandante dei carabinieri maresciallo Enrico De Ruvo, fu riaperto il foro per fare osservare la tomba al prof. Canfora e per fotografarla ripetutamente. Canfora, conclusa l’osservazione dell’interno della tomba, tracciò un programma di operazioni preliminari e di successive ricerche da eseguirsi su basi scientifiche, non nascondendo un certo ottimismo cir­ca la buona riuscita della identificazione dei resti mortali del prode guerriero.
Da notare che ricerche vere e proprie non furono mai svolte,  poiché sia nel 1899 che nel 1976 si trattò di semplici ricognizioni visive che non ebbero seguito alcuno.
Dalla seconda ispezione della tomba eseguita il 28 novembre 1976 non emerse nulla di utile per individuare il misterioso stivale chiaramente visibile nella fotografia scattata la sera del 6 Ottobre dello stesso anno, né dall’osservazione visiva diretta, né dalla numerosa serie di successive foto. Si trattò di un provocante gioco d’ombre, o di un segno premonitore dello spirito di Gioacchino Murat che, a distanza di 161 anni dalla fucilazione, implora almeno una più degna sepoltura?
Certamente il miraggio di quello stivale servì a caricare ulteriormente l’entusiasmo dei componenti il Comitato Permanente per le Onoranze a S. M. Gioacchino Murat, il quale Comitato, ricco di fervore ma poverissimo di mezzi, riuscì solamente a sostituire, sulla tomba dell’Achille di Francia, la vecchia e mal ridotta lapide marmorea con una nuova recante la seguente iscrizione:

Qui è sepolto il Re Gioacchino Murat. La Bastide Fortuniére  25.3.1767 - Pizzo 13.10. 1815.

FONTE: http://www.murat.it/Datix/Morte%20e%20sepoltura/la_tomba_di_gioacchino_murat.htm. 

giovedì 3 dicembre 2020

Materiali didattici. 54a. Il "Cristo" di Francesco Rosi

Interpreti e personaggi
Gian Maria Volonté: Carlo Levi
Lea Massari: Luisa Levi
Alain Cuny: Barone Rotundo
Irene Papas: Giulia
Paolo Bonacelli: Podestà
François Simon: Don Traiella
Francesco Càllari: Dottor Gibilisco
Antonio Allocca: Don Cosimino
Giuseppe Persia: L'esattore delle imposte
Tommaso Polgar: Il "sanaporcelle"
Vincenzo Vitale: Dottor Milillo
Luigi Infantino: Autista
Niccolò Accursio Di Leo: Falegname
Frank Raviele: Brigadiere
Maria Antonia Capotorto: donna Caterina
Lidia Bavusi: la vedova

“La prima volta che ho fatto vedere il film fuori dall’Italia è stato a Chicago, ad un festival dove c’erano tremila persone. E io avevo paura, dicevo tra me e me “cosa capiranno questi, in America, a Chicago? I calanchi, le terre arse, i contadini, cosa capiranno? Ebbene, alla fine della proiezione piangevano tutti.” [Francesco Rosi]

Nel 1961 Francesco Rosi stava girando a Montelepre Salvatore Giuliano, quando, inaspettato, arrivò sul set Carlo Levi, al quale il regista chiese di affidargli la trasposizione cinematografica di Cristo si è fermato ad Eboli. Carlo Levi rispose che la stessa richiesta gli era stata fatta da Vittorio De Sica, da Rossellini e da Germi. Sicché, Francesco Rosi girò il film nel 1978, dopo la morte di Carlo Levi. Alla sceneggiatura collaborarono Tonino Guerra e Raffaele La Capria. Il protagonista era Gian Maria Volonté. Furono rispettate alla lettera le parti dialogate e il film risultò, come Rosi ama ripetere, un racconto più una inchiesta.
Un viaggio nel mondo dei contadini del sud in epoca di regime fascista nel 1935 con un eccezionale Gian Maria Volontè che interpreta Carlo Levi, una straordinaria Irene Papas nei panni di Giulia, l’ambigua domestica di Carlo Levi e una singolare Lea Massari nel ruolo di Luisa Levi, sorella di Carlo.
È la storia vera di Carlo Levi, del suo confino in Basilicata, della scoperta di una civiltà ai confini del mondo. Eboli da confine geografico diventa confine metaforico di un altro spazio, un altro vissuto, così come la Lucania fascista ma non fascistizzata, metafora di un mondo travolto dalla storia dei grandi che non comprende e alle prese con secolari problemi quasi irrisolvibili. Mediatore tra Torino e Aliano, due mondi divisi da secoli di storia e da immobilità di spazi, Levi/Volontè conosce una nuova dimensione, una realtà fatta di gente dimenticata dalla civiltà e dal progresso dove neppure Cristo è disceso. Forti le tematiche sociali, belle le musiche di Piero Piccioni, stupenda la fotografia. Il grande Rosi commuove lo spettatore, indaga i suoi personaggi con “primi piani” introspettivi e regala panoramiche suggestive di Craco e della Lucania. E qui le suggestioni non sono cinematografiche. Sono reali.
Oltre a Craco (panoramiche esterne ed ingresso del paese), il film è stato girato ad Aliano, Matera e Guardia Perticara (scene della piazza, della casa del Podestà e della chiesa).

Meritatissimi il «David di Donatello» per il film e la regia, il Gran Premio al Festival di Mosca (1979) e il British Academy of Film and· Television Arts Awards· per il Miglior Film Straniero nel 1983.

Le perle lucane. 4. Maratea

 «Dal Porto di Sapri, che aperto è fama inghiottisse la celebre Velia, raccordata dal Poeta dopo Palinuro, nel golfo di Policastro, à dodeci...