giovedì 18 maggio 2017

Francesco Mario Pagano. 6. Gli Esuli Tebani (1782)

S. E., il Sign. Cav. D. Gaetano Filangieri, de’ prìncipi d’Arianello, gentiluomo di camera e maggiordomo di sta-getimana di S. M., ufiziale nel Real corpo de’ volontari di marina.
Nel fortunato giorno, nel quale, già volge il dodicesimo anno, io mi esposi nell’Università napoletana al pubblico cimento del concorso per la cattedra dell’Etica di Aristoti-le, per la prima volta mi concedette la sorte, in un discorso sul sistema morale del gran filosofo stagirita avuto coll’E. V., di ravvisare nel di lei elevato spirito que’ rari semi d’ingegno che, fecondati poi col tempo, in tant’ampiezza e sublimità germogliarono; e mi apparvero altresì le nobili scintille di non ordinaria virtù, che poi, destate ed accre-sciute, in Italia e fuori con tanta luce e gloria vi manifesta-rono a tutti. Dopo lungo tempo mi si presentò di nuovo l’occasione di rinnovare la conoscenza antica e la mia ser-vitù, quando di già il romore del vostro nome immortale avea scossa l’Italia e di là delle Alpi erasi ancora udito. Ma’ non prima d’ora (ciò che ho sempre sommamente de-siderato) ho potuto con un pubblico monumento attestarvi la mia profonda venerazione e stima della vostra grande virtù me mi si è al presente offerta l’opportunità di fare.
Tra le penose e moleste cure, tra gli strepiti e romori del foro, ho fatto una pruova delle mie deboli forze in una difficile impresa, quale e quanta per l’appunto si è una re-golare tragedia. Ed avendone una formata, come per sag-gio, ho ardito di presentarla all’augusto ed incorruttibile tribunale de’ dotti, de’ quali le discrete correzioni le po-tranno in una ristampa procurare quel pregio, che ora per sé non ha. Le mie forensi occupazioni mi fanno sperare un compatimento umano:
Haec quoque, quae facio, iudex mirabitur aequus,
Scriptaque cum venia, qualiacumque leget.
Or, qualunque ella pur siasi, io ve la presento ed offro per segno e testimonio del mio grande ossequio e devozio-ne.
Ma perché il dono non fosse così picciolo di mole, co-me é pur di valore, alla tragedia aggiunsi la mia orazione latina, anni addietro data alla luce, della vittoria moscovi-ta, nell'arcipelago riportata contro l'ottomana potenza, ed altresì la lettera, onde col dono di una medaglia mi onorò il signor Domasnev, presidente di quella Imperial Accade-mia di Pietroburgo.
Or altra cosa a soggiunger non mi rimane. Forse do-vrei, secondo il volgar costume di coloro che fanno le dedi-che, intessere il vostro elogio? Ma il vostro solo nome compiutamente lo fa. Esso ne desta l’idea dell’entusiasta amico dell’uomo, dell’eloquente e profondo politico, di co-lui finalmente che forma la felicità e la delizia degli amici ed è l’oggetto della stima de’ generosi allievi delle Muse; e, se questo a grandi uomini altresì conviene, io dirò del mio culto ancora. Onde soverchia sarebbe ogni qualsiasi lode.
Piacciavi adunque di rimirare non la viltà del dono, ma l’animo di chi vel presenta, mentre io ripieno della no-bile idea della vostra amicizia (mio inestimabile pregio), mi annunzio per sempre
di V. E. Devotiss. obligatiss. servidore Francesco Ma-rio Pagano 

Attori
Pelopida
capo degli esuli
Carone
principal cittadino di Tebe
Emonte
amico di Carone e sposo d’Ismene
Ismene
sorella di Carone
Aspasia
moglie di Carone
Leontida
capo dell’oligarchia e tiranno di Tebe
Servo di Carone
Polinice
figlio di Carone
Telefo
domestico di Fillia, un de’ congiurati, che non viene nella scena
Polifonte
capitano della guardia d’ tiranni

ATTO PRIMO
SCENA PRIMA
EMONTE, CARONE
EMONTE
Perché mai sì pensoso e sì turbato
Tu sei, Carone ? in qual tumulto e in quale
Aspra procella di pensieri ondeggi?
Or fiso al suolo il guardo tieni or volgi
Intorno i lumi irrequieti. Grandi
Cose mi par che l’agitata mente
In sé rivolga e chiuda: ah, se hai tu pruova
D’Emonte  tuo, della sua fé costante,
Fa che a parte ancor sia dell’alta cura
Che t’affanna cotanto.
CARONE
O sovr’ ogni altro
A me caro e diletto, i rari sensi
Dell’amistà pi?a e della patria
L’acceso amor, che nel tuo petto annida,
Degno ti fero già d’esser a parte
Del gran segreto che nel petto io serbo.
Ed or che sono all’alta impresa accinto,
Compagno a me sarai nel gran cimento.
Della virtù tebana invida Sparta
Sai, che di più tiranni all’aspro giogo
Ci fé piegare il dorso, onde il valore,
Che della libertà si nutre all’aura,
Nell’emula città vedesse estinto.
Quindi il fiero Leontida , e i suoi pochi
Fidi compagni, del beozio suolo
E della sempre invitta e sacra Tebe
Strinsero a lor talento il duro freno.
EMONTE
E a che ripeti il nostro antico affanno
E cose a me ben note?
La ferale memoria acerba ho sempre
Scolpita in mente del funesto giorno,
Che i più famosi cittadini e saggi,
Come sospetti a quel novello impero,
Vittime sventurate ed infelici
Dell’empia tirannia, furo svenati
O da’ figli divisi e dalle mogli,
Afflitti e bisognosi
Lungi dal patrio suol n’andaro in bando.
CARONE
Or ho pi?te alla tua fé commesso
Che, stanchi alfin gli Dei che han Tebe in cura
Di sopportar sì obbrobrioso oltraggio,
Il generoso cor del gran Pelopida
Hanno destato a liberar la patria
Dalle gravi ed orribili catene
Sotto al cui peso misera si duole.
Or sappi, Emonte amato,
Che fra pochi momenti,
Seguìto dagli altri esuli tebani,
Pelopida sarà tra queste mura;
Ed opportuno è il tempo,
Perché i tiranni tutti alla vegnente
Notte saran del nostro Fillia  a mensa.
Fra la crapula e ‘l vin facile impresa
Sarà perderli tutti; or tu, che sei
Esempio e specchio di gentil valore
Alla tebana gioventù, richiama
Al cor la tua virtude
E all’impresa magnanima il tuo petto
Disponi e il braccio porgi al gran disegno.
EMONTE
Ah! che grato mi sia per sì bell’opra
Spargere il sangue mio.
Molte volte, tu il sai, seguir promisi
La tua fortuna, sia felice o rea.
Ch’oltre il dover di cittadin onesto,
A te mi stringe il bel soave nodo
Che fra poco alla tua sorella Ismene
Mi legherà, se mai destin crudele
Non turbi invidioso il mio contento.
CARONE
Su la mia fé riposa. Or la tua patria
Servi con zelo e Ismene in premio attendi.
SCENA SECONDA
PELOPIDA, CARONE, gli ESULI da cacciatori
PELOPIDA
Amici, ormai siam giunti. O patri Numi!
O lari, o tombe antiche,
Che de’ padri chiudete il cener santo,
O sacre, amate mura della mia
Terra nativa, a riveder vi torno
Alfin, dopo tanti anni; ché da voi
Mi discacciò quell’empia mano istessa,
Che del sangue civil vi asperse e tinse.
Delle nostre miserie il fine è giunto.
Il Ciel seconda il bel disegno. Giove,
Di folta neve al suol spargendo un nembo,
L’aer fé spesso e denso,
Sicché ne tolse al guardo altrui. Celati
Qui giunti siamo ed a’ tiranni ignoti.
Il favore del Ciel aperto io scorgo.
Son tuoi gli auguri, o Giove, e tu, propizio,
La giusta impresa al suo bel fin conduci.
Ma vien Carone. O mio diletto amico,
Gloria di Tebe, alle mie braccia vieni.
CARONE
Metà dell’alma mia!
O Pelopida invitto! Alfin al Cielo
Piacque che prima del mio fato estremo
Io ti rivegga e la mia man congiunga
A questa tua, sostegno e solo appoggio
Della cadente patria.
Del fato avverso or più non temo l’ira:
Già la mia speme è giunta a riva. Io veggio
Di servitù la fine, i lacci infranti
E veggio ancor del sangue de’ tiranni
L’Ismeno correr tinto e gonfio al mare.
Ma quanti son gli amici
Venuti della patria al pio soccorso?
PELOPIDA
Cento nel borgo sono all’armi pronti
Oltre costor che vedi or qui, bramosi
Per la patria versar tutto il lor sangue.
Di cacciatori in abiti mentiti
Noi soli ardimmo trapassar per mezzo
L’armate schiere de’ tiranni, a’ quali
Sospetto e reo timor son sempre al fianco.
Ma tu di Tebe i congiurati insieme
Hai raccolti, e son pronti alla grand’opra?
Fillia che fa? serbò le sue promesse?
CARONE
Son tutti accinti e avvampano di zelo
Di liberar la patria o di morire.
Fillia tutto dispose.
Dal dì che un Nume amico
La mente t’ispirò romper il giogo
Che alla tua patria la cervice altera
Fece chinare al suolo,
E i fidi amici pur scegliesti a parte
Del gran disegno, Fillia chiuse in petto
Contro a’ tiranni l’acerbo odio e fiero
E fingendo amistà con lor si strinse;
Ché, quando è generoso e retto il fine,
Il finger è lodato.
Non han perciò di Fillia più sospetto,
Sicché ei divenne il lor più stretto amico.
Col confirmato impero ne’ tiranni
Scema il sospetto e in lor fiducia cresce.
Quindi costor omai corron sicuri
Nella rete fatal, ove gli attende
Inevitabil, non temuta morte.
Nella casa di Fillia or son raccolti,
Ove s’appresta splendido convito
Che da gran tempo lor Fillia promise.
Quivi speran passar l’intera notte
Fra tazze e suoni nel piacer disciolti.
Ma la morte fra tazze e suoni ascosa
Lancerà loro irreparabil telo.
PELOPIDA
Fortuna sia propizia al bel pensiero,
Ma fa mestier che ben si pesi, pria
Che ad effetto si ponga un gran disegno.
CARONE
Egli è pur vero, amico.
E se ogni impresa di maturo esame
Ha bisogno, sovra ogni altra al certo
È la congiura . Più terribil cosa
E di maggior periglio uom non attenta.
Io ben tutto disposi.
Or fin che non s’avanzi più la notte
Quai nuove cose, oh Dei! son queste e quai
E nel silenzio amico il mondo covra,
Nelle segrete stanze, ove celato
E sicuro starai, meco ne vieni.
SCENA TERZA
ASPASIA,poiCARONE
ASPASIA
Quai nuove cose, oh Dei! son queste e quai
Tetri presagi immagina la mente?
Che avvenne mai? Che mai tentar si pensa?
Gli esuli in Tebe fan ritorno, ascosi
son da Carone. Elmi, corazze e spade
Da molti giorni preparar vid’io.
Un gelido timor m’agghiaccia il core.
Formo cento pensier, né so qual sia
Il celato disegno.
Come potrò saper l’ordita impresa?
Ecco Carone; di tai nuove cose
Si chieda la cagion. O mio consorte,
A tempo giungi, ché parlar ti deggio.
CARONE
Perché affannata ti dimostri, Aspasia?
Qual grave affare a favellar ti spinge
Con tal premura or meco?
ASPASIA
Un torbido pensier alla mia mente
Sospetti orrendi e reo timor dipinge.
Deh! se l’antico amor in parte vive,
Né spento è tutto nel tuo sen, Carone,
Ti prego farmi la cagion palese
Onde tornati son gli esuli in Tebe
E perché in tua magion li accogli e celi?
Deh! qual tetro mistero a me si asconde?
CARONE
Qual meraviglia, Aspasia, se agli amici
Noi diam ricetto e agl’infelici asilo?
Nelle sventure il vero amico appare
E chi soccorre i miseri e solleva
Gli oppressi s’assomiglia al sommo Giove.
Ma s’egli è ver che m’ami, in petto cela
Quanto tu scorgi e vedi. Alto silenzio
Ti prego di serbare, ché altrimenti
La salute di noi tutti è in periglio.
SCENA QUARTA
ASPASIA,sola
ASPASIA
Qual nube (oimè) d’orrore il sen m’ingombra?
Qual notte e qual caligine profonda
Mi si para d’avanti?
Chi teme un certo mal, di quel si duole;
Ma chi nel suo timor incerto pende,
Tra mille affanni ondeggia.
O rei sospetti, o torbidi pensieri,
O penosi compagni del mio seno,
Il fiero assalto rallentate un poco!
È stanco il cor di soffrir se breve
Riposo a lui non date.
SCENA QUINTA
ASPASIA, ISMENE
ASPASIA
Più che sorella a me diletta, Ismene ,
Deh vieni e calma tu questo mio core
Agitato da mille rei sospetti.
Dimmi, se sai, che fanno entro le stanze
Quegl’infelici che a turbar la pace
Nostra venuti or sono.
ISMENE
O mia sorella,
Ne’ penetrali, ove Caron li ascose,
Si stan segreti e chiusi.
Spinta d’accesa voglia di sapere
Qual gente ella si fosse,
Della vicina stanza al vecchio muro,
Ov’è non noto altrui spiraglio angusto,
Più volte io posi l’occhio:
Pelopida conobbi e insiem con esso
Altri esuli tebani
E vidi ciò che attonita la mente
Mi fe’ restar e d’alta tema ingombra.
Gli esuli cambian vesti e minacciosi
Arman i petti di lorica e al capo
Metton gli elmi su i quali all’aura sparse
Ondeggian con orror le nere piume.
Han nudi i brandi in mano: altri si prova
Vibrando in aria colpi, altri al compagno
Il fodero nel petto spinge come
Farìa col ferro al più crudel nemico.
ASPASIA
Ah! funesti princìpi!
ISMENE
Se vedessi
Come torvo Pelopida all’intorno
Sanguigno e furibondo il guardo gira.
Quando Marte dal ciel nel tracio suolo
Sitibondo di sangue irato scende
Non credo avrà così feroce aspetto.
ASPASIA
Ahimè, ché già m’immagino la cosa.
Terribil notte, e qual orror n’arrechi?
Che fere stragi e che ruine, o casa
Di Carone perduta! o figlio mio!
SERVO
Signora, or giunge in casa il fier tiranno
Leontida. Al padron porto l’avviso.
ASPASIA
O nuovo affanno, ecco scoverto il tutto.
Siamo perduti affatto, o Tebe, o Tebe,
Di funeste tragedie ognor feconda.
Non è placato ancor l’odio de’ Numi?
Non bastò pur di Labdaco la prole
L’ira a stancar d’inesorabil fato?
SCENA SESTA
LEONTIDA, CARONE
CARONE
Un tradimento io temo. Avrà scoverto
La venuta degli esuli il tiranno.
Leontida che chiede? Che farò?
O Dei di Tebe, protettori e vindici,
Consigliatemi voi.
Apri, o servo, le porte.
Da’ detti suoi noi prenderem consiglio.
Soffri mio core e ricomponi i moti
Dell’agitato sangue, ché altre volte
In perigli maggiori ti sei trovato.
LEONTIDA
Grave affare, Carone, a te mi guida.
Ciò che giova ad entrambi
Vengo a proporti. Amico,
Nella tua mano è la mia pace. E pende
La tua felicità dal mio potere.
Caron, nol crederai, mi vinse amore.
CARONE
Amor nel petto tuo? Che sento!
LEONTIDA
Amico,
Ardo ed avvampo per la bella Ismene.
CARONE
Ismene, mia sorella!
LEONTIDA
Sì. De’ sospiri miei questa è l’oggetto.
Amico, stringi tu l’amato nodo
Dell’imeneo felice e premio eccelso
Dal mio gran cor t’aspetta.
Risplenderà su la tua fronte ancora
Del mio poter un raggio.
CARONE
Leontida, mi spiace che ‘l servirti
In possa mia non è. Di già d’Emonte
Ismene è sposa e s’ han la fé promessa.
LEONTIDA
Ah, s’altro non si oppon, poco mi cale
Di promesse, di fede e giuramenti.
È troppo saggio Emonte e al suo signore
La sposa cederà; rival mio farsi
È divenir di morte
Colpevole. Al padron non si contrasta.
CARONE
Ma la legge di Tebe e delle genti…
LEONTIDA
Su i prìncipi poter non han le leggi,
Ché, se di quelle sono essi gli autori,
All’opre lor non denno esser soggetti.
CARONE
Pur son soggetti a quell’eterna legge
Che scrisse di sua man l’alma natura.
LEONTIDA
E questa sol comanda che al più forte
L’infermo e debil serva.
L’aquila forte e lo sparvier rapace
Su gli uccelli minor hanno l’impero .
CARONE
Ma son gli Dei mallevadori e vindici
De’ sacri patti e della fé giurata.
LEONTIDA
Io ti credea più saggio
E sprezzator della volgar credenza.
Che son questi tuoi Numi? e questi Dei?
Idoli vani che creò la mente
E poi del parto suo serva si rese.
Lasciamo al volgo tal error, ché giova
La sua sciocchezza al saggio.
D’Ismene il cor disponi
All’imeneo beato. Arreca a lei
Lieta novella. Inaspettata sorte
La colmerà di gioia e di stupore.
Dille che meco dell’impero a parte
Io la destino e che vedralla in trono
Beozia e un dì l’adorerà sovrana.
Da Emonte intanto io vado
E intimerogli il mio sovran comando.
Io tornerò fra poco e voglio, prima
Che Febo torni in cielo, esser suo sposo
In quella notte istessa. Amor non soffre
Indugio e più contrasto il mio volere
Ritrova, più s’accende nel desio.
Pensa, Carone, alla mercè promessa.
La sorte mio compagno ti destina.
SCENA SETTIMA
CARONE,solo
CARONE
Io tradirò la patria? io tuo compagno,
Stolto tiranno! e pegno Ismene sia
Dell’empia società che mi proponi!
Con qual fasto parlò! quai voci orrende
Quell’empio disse? O Dei! fremo d’orrore.
Ma si trovi Pelopida,
Ché fia mestier di provvido consiglio.


ATTO SECONDO
SCENA PRIMA
ISMENE, CARONE
ISMENE
Diletto mio german, giammai non fia
Ch’io stringa l’empia man del reo tiranno,
La mano ancor fumante vivo sangue
De’ miei congiunti e de’ miglior tebani
Che di vermiglio tinsero le case,
I letti maritali, l’are e i tempi,
Ove cercaro invano asilo e scampo.
Piuttosto sotto i piedi miei l’abisso
Or s’apra e mi divori in un baleno.
E tradirò la fé, che al mio diletto,
Al fido Emonte mio giurai più volte?
No, caro sposo, dal primiero istante
Che nel petto provai di amor la fiamma,
Fosti del mio pensier l’unica cura.
Deh non temer della mia fede, sono
Tutti sacrati a te gli affetti miei.
E se non può sottrarmi al fiero artiglio
Del tiranno crudel altro che morte,
Ho ben valore da squarciarmi il petto.
CARONE
O sensi di te degni
E di quel sangue donde nata sei.
Odia il tiranno. Al tuo bel cor conviene
Odio sì degno. Ma guidar si dee
Con prudenza l’affare.
Non s'irriti il superbo.
Fiera, tra lacci avvinta, invan minaccia
E contra il predator freme di sdegno.
Onde convienti con maniere accorte
E con dolce sembiante render mite
L’animo acerbo del crudel nemico
E differir il mal quanto si puote.
ISMENE
Che pro? saremo, alfine, nell’istesso
Duro cimento. Il differir che giova?
CARONE
Il tempo d’ogni Nume è il più potente.
Ei tutto al mondo cangia e nuovo aspetto
Qui dà alle cose e non provvisti aiuti
E non sperati mai consigli arreca.
Il dì venturo ne daran gli Dei
Forse diverso e più ridente assai.
Leontida s’appressa. Entro ti reca.
SCENA SECONDA
LEONTIDA, CARONE
LEONTIDA
Irrequieto a te presto ritorno,
Ché più soffrir non può quest’ affannato
Mio cor l’aspra passion che lo martira.
Alla mie nozze impedimento omai
Non resta. Emonte non si oppone e cede.
CARONE
Al tuo poter avrà ceduto ei solo
Ed alla forza che ragion opprime.
LEONTIDA
Se adempio il mio voler, non curo il modo.
CARONE
Non è il proprio voler norma dell’uomo,
Ma la ragione e il giusto.
LEONTIDA
Dell’amistà, che t’offro, omai ti abusi,
Carone; eh poni termine a coteste
Ciance di vecchie e fanciullesche fole!
Che leggi, che dover stolto rammenti?
Vani fantasmi e nomi
Son questi, che inventò l’astuta frode
Del più potente per tener ne’ lacci
Le cieche menti dell’errante volgo.
Ma ti comando, non ardir parlare
In tal guisa mai più. Ché invan ti pensi
Che il nuovo nodo ti varrà di schermo.
Tronchiam le ciarle. A me conduci Ismene
E in questo punto diverrà mia sposa.
CARONE
Senza usate pompe ed il solenne
Rito e presenza de’ parenti e amici
Non saranno d’onor coteste nozze
Né a te, né a Ismene. Almen si aspetti il nuovo
Giorno e pomposa allor farem la festa.
LEONTIDA
Pascon le pompe e fregi esterni solo
L’alme volgari, ma le sprezza il saggio.
Del mio piacere un sol momento or io
Non vo’ tardar l’acquisto: ben perduto
Giammai non si ristora.
CARONE
La mente femminil di pompe è vaga
E la più saggia donna ancor si alletta
Dell’apparenze. A Ismene almen concedi
Questo piacer, che vada a nozze come
A tanto sposo e al grado suo conviene.
LEONTIDA
Ismene, che la sorte omai solleva
Sullo stato volgar, deve pensare
In degna guisa al suo novello stato.
Ma non tardare or più. Conduci Ismene
Ove l’attende impaziente amante.
SCENA TERZA
LEONTIDAsolo
LEONTIDA
Ah! quanto più sugli altri il mio comando
Distendo, tanto sovra me gli affetti
Miei spiegan feri il lor crudele impero.
Or son pur giunto a tal che, s’altri attenti
D’opporsi al mio volere,
Ira, vendetta ed odio
Scempio fan del mio seno e reo governo.
E quando la mia stagee di vendetta
Estinta ho già coll’altrui sangue sparso,
Rimorso, pentimento e fera imago
Di morte fan provarmi entro del petto
Le pene di Cocito e Flegetonte.
Ombra funesta del nemico estinto,
Di me che brami? lasciami godere
Del mio delitto almen tranquillo il frutto;
Ma si allontani pur il mio pensiero
Dall’imagin funesta che si aggira
Nella mia mente accesa.
Ismene più non viene. Andiam per lei.
Leontida s’inoltra nell’interna stanza.
SCENA QUARTA
ISMENE, CARONE
CARONE
Ove n’andò Leontida? nol veggio.
O Dio! che dentro il piede audace ei porta.
S’occorra… aspetta, Ismene, qui frattanto.
ISMENE
Ahimè! già scovre gli esuli celati!
O Ciel! e quanti affanni ci prepari!
Ma no. L’empio ritorna, ha lieto il viso;
Il mio timor si calma.
SCENA QUINTA
LEONTIDA, ISMENE
LEONTIDA
Ismene, idolo mio, che solo adoro,
Perché fuggi l’amante e ‘l fido sposo?
ISMENE
Sì dolci nomi ancor tempo di usare,
Leontida, non è; mentre che sono
Promessa altrui, come sarò tua sposa?
LEONTIDA
D’ogni legame ti ha disciolto Emonte.
Libera alfin tu sei, di te disponi.
ISMENE
E tanto amor poter scordar sì presto?
LEONTIDA
Sii certa pure che colui d’Ismene
Or più non prende cura.
ISMENE
E’ l crederò di tal viltà capace?
LEONTIDA
Presso di te sì poca fede io trovo?
ISMENE
Dunque a tal segno, Emonte,
Volubile, incostante, meco fosti!
LEONTIDA
Ma tu ancor sei irresoluta e incerta?
Lascia di quello ormai ogni pensiero;
Mentre, se aspiri alle sue nozze ancora,
Un impossibil chiedi.
ISMENE
Come impossibil fia?
Da Tebe forse discacciato l’hai?
Ah dimmi il ver, rispondi.
LEONTIDA
Troppo lontan da Tebe si ritrova.
ISMENE
Troppo lontan da Tebe! qual mistero!
Rischiara la mia mente: in quale parte
L’hai tu sospinto? tra feroci Sciti?
O nella Libia infame? in qual contrada?
LEONTIDA
In più rimota parte,
Onde il ritorno non sarà concesso.
Ma tu mi offendi assai, quando ti mostri
Sollecita così di un mio rivale,
Che per mio scorno e mia vergogna eterna
Del tuo core contrasta a me l’impero.
ISMENE
O Dio di Tebe, invitto Alcide! ahi misera!
Qual freddo gel mi agghiaccia. Io tremo; dimmi,
Perché il ritorno vien a lui negato?
LEONTIDA
Questa è la legge che mutar non ponno
Gli Dei medesimi, se v’ha Dio nel Cielo.
ISMENE
Qual legge e qual decreto empio rammenti?
LEONTIDA
La legge di natura e del destino.
Da tenebrosi, oscuri regni mai
Non si ritorna qui. M’intendi alfine?
ISMENE
Sì, barbaro, t’intendo. Ah più non vive
Emonte. O Dei… io moro.
Sviene.
LEONTIDA
Carone, occorri; a tua sorella porgi
Aita, ché il dolor suoi sensi offusca.
SCENA SESTA
CARONE, LEONTIDA, ISMENE
CARONE
Oimè, sorella! qual pallor di morte
Scolora il viso? gelo son le membra!
Leontida, che avvenne?
LEONTIDA
Emonte, il mio rivale, a un cenno mio
Cadde trafitto: riportò la pena
Di un temerario ardir. Ismene il seppe
Ed improvvisa doglia il cor le oppresse.
ISMENE
Emonte più non vive…
Ove son io? deh lasciami, crudele,
credendosi nelle braccia di Leontida.
O mio fratello, io giaccio…
Nelle tue braccia!
CARONE
Ismene, o Dei! coraggio.
LEONTIDA
Ella rinviene ed io mi appresto or ora
Ad ascoltar le sue querele e’ gridi.
Ma sordo al suo lamento, duro scoglio
Battuto ognor dall’onde dell’Egeo,
Immobile sarò. La donna al pianto,
A’ gridi, all’onte ha sempre mai ricorso.
Il saggio non sen cura e lascia il freno
Al femminil trasporto,
Ché, quando ha disfogato il suo talento,
Il turbin cessa e segue pace e calma
E grand’oblio di quel passato affanno.
ISMENE
Io vivo ancor! l’aura vitale io spiro!
E sovra il capo mio si arresta solo,
Barbaro, la tua spada?
Perché non versi ancor questo mio sangue?
Compisci l’opra e questo sen mi squarcia
E svelline quel cor, in cui pur vive
L’odiato tuo rivale.
Luce del sol, soave agli viventi,
A me sempre sarai funesto oggetto:
Tu fai mirarmi sì esecrabil mostro.
Stige non ha così tremenda imago
Che te paregi o te somigli in parte.
LEONTIDA
Ismene, al tuo trasporto, al tuo dolore
Ed al tuo sesso ancor perdono questi
Tuoi sconsigliati accenti e soffro l’onte
Solo da te, che al letto mio destino.
Piangi a talento tuo. Quando poi fine
Al pianto avrai tu dato e alla ragione
Loco, più saggia al tuo vantaggio allora
Abbi pensiero. Addio.
ISMENE
O Furie, Erinni orribili, voi tutte
A me d’intorno stagee. Io veggio, o Dive,
L’orrende vostre faci, odo il fischiare
Delle ceraste . Abisso, apriti pure,
E me sottraggi al mio dolor estremo.
CARONE
Ahi! sventurato amico! qual dolente
Ed infelice fin a tuoi begli anni
Il fato diè! qual frutto amaro cogli
Da tanto amore e da sì bella fede.
ISMENE
Ferma, mio sposo, d’Acheronte in riva
Ecco ti giungo, la fatale sponda
Debbe teco varcar la tua consorte.
CARONE
La doglia di ragion l’ha priva. Ismene,
Seguimi dentro e calma il tuo trasporto.

ATTO TERZO
SCENA PRIMA
PELOPIDA, CARONE, CONGIURATI
CARONE
Sono i nimici nella rete ordita
Caduti ormai: già tutti
Seggono a mensa placidi e sicuri.
Leontida nel vino
E nel piacer sepolto, il fianco porge
Ignudo al nostro ferro.
L’amico estinto nuovo ardore aggiunge
Alla vostra virtù. Che più si aspetta?
CONGIURATI
Ecco le destre ed ecco i petti pronti
Ad affrontar la morte.
O morte o libertà tutti cerchiamo.
CARONE
Pelopida, ti affretta, il tempo vola.
I tuoi conforta e alla grand’opra accendi.
PELOPIDA
Valorosi compagni, se pensato
Avessi che mestier era di sprone
O di conforto al noto
Vostro valor, la grand’impresa al certo
Io non avrei tentata. Le parole
Non aggiungon ardire all’uom codardo.
Qual’è ciascun per abito o natura
Tal ei si mostra in ogni dubbia impresa.
Sol pensate, compagni, in qual dolente
Misero stato questa patria giace.
Non regnano, qual pria, le sante leggi,
Ma l’arbitrio e il piacer di poca gente.
La vita e’ beni e libertà, le mogli
Non son sicure: esposte sono ognora
Alla voglia e libidine sfrenata
Di un tiranno crudele e senza legge.
A chi tolto non fu padre o fratello
O figlio dal feroce, empio Leontida?
Ne’ beni e nell’onor oltraggio e danno
Chi non sofferse da quell’uom superbo?
Ovunque il guardo volgi, alte rapine,
Violenze a stupri miste e stragi orrende
Si offrono al tuo pensier. Qual piazza e strada,
Qual sacro tempio o qual palagio in Tebe
Tinto non è del sangue cittadino?
D’Emonte (ahi! sfortunato ed infelice)
Il sangue ancor fumante
Chiede vendetta. Ombra dolente e cara,
Che a me ti aggiri intorno, avrai vendetta.
Anime illustri del tebano suolo,
Da me che mai chiedete?
Onde desio vi prese
Di far ritorno alla tebana terra?
Ah sì v’intendo appieno.
Voi del vostro furor m’empite il petto.
Ed io vi giuro che a’ dolenti regni
Di morte ne verranno in questa notte
Le pallid’ombre de’ tiranni esangui.
CARONE
Su, compagni, si adempia il sacro rito,
E poi si parta. Il Ciel principio sia
D’opra sì giusta e a’ Numi eterni accetta.
PELOPIDA
La vittima si rechi all’ara e voi
Assistete, o compagni.
Al sacro inviolabil giuramento
Prepari ognun la mente.
O della patria mia
Voi tutelari Numi, invitto Alcide,
Gran domator de’ mostri e de’ tiranni
E tu, potente Bacco, e padre Giove,
Volgete il guardo amico
Al popol pio di Tebe.
Come io di questa vittima nel seno
Il ferro immergo e il vivo sangue spargo,
Concedete così che de’ tiranni
In mezzo al cor si affondi
Dalla mia man questa lucente spada .
Il ciel balena ed a sinistra tuona.
O gran Rettor del fulmine,
L’augurio accetto, in mio favor tu sei.
Da questa tazza ognuno
Della vittima assaggi il sangue e giuri.
CARONE
Io giurerò primiero.
Gran Dei del Cielo, o santa Temi, o Giove,
E voi Numi d’Averno,
O Erinni, o della notte orrende figlie,
Vindici de’ spergiuri,
Come il sangue, che bevo, il mio si versi,
Se alla promessa io manco.
A te, mia patria, o mio gran Nume, il sangue
E ‘l viver mio consagro.
CONGIURATI
Di noi ciascun al giuramento è pronto.
Si beve e si giura.
SCENA SECONDA
SERVO, TELEFO e DETTI
SERVO
Signor, di Fillia un messo a te richiede
Parlar di grave e premuroso affare.
CARONE
Deh fa che venga. E qual novella mai
Potrà recar di nuovo?
TELEFO
È già palese… qual ruina, o Dei!
CARONE
Che mai tu rechi? che vuol dir l’affanno?
L’interrotto parlar? dì, su, favella.
TELEFO
La congiura è scoverta.
CARONE
La congiura è scoverta? o grande Alcide!
Come? chi fu? chi ne tradì? rispondi.
TELEFO
A’ tiranni la spia
La novella recò che dentro Tebe
La voce è sparsa, che venuti sono
Al tramontar del sol gli esuli armati.
CARONE
E sepper che in mia casa hanno ricetto?
TELEFO
Nulla sepper di ciò.
CARONE
Ed han sospetto alcun della mia fede?
TELEFO
D’essa, nissun sospetto.
CARONE
Grazie agli Dei, respiro. Il male è grande,
Ma non sì grave qual recato avevi.
PELOPIDA
Or qual partito prenderemo intanto?
CARONE
Ritorni in calma il core.
Non mancherà dal Ciel qualche consiglio.
SCENA TERZA
SERVO e DETTI
SERVO
Signor, batte la porta Polifonte,
Il capitan superbo della guardia
De’ tiranni di Tebe!
CARONE
Polifonte?
O misera mia patria!
Già siam d’armati cinti.
Pelopida, a perir tu sei venuto.
PELOPIDA
Morrò, se pure il Ciel così prescrive;
Ma invendicato e solo
Io non morrò, se ‘l mio valor non langue.>
A Polifonte acuto ferro in petto
Or ora immergerò.
CARONE
Frena il furor che t’agita la mente
E ‘l disperato ardir serba all’estremo.
Vediam che reca Polifonte. Amici,
Ite dentro a celarvi.
Tu, servo, fa che Polifonte venga.
SCENA QUARTA
POLIFONTE, CARONE
POLIFONTE
Leontida comanda
Che senza indugio alcun ora ti porti
Di Fillia in casa, ov’è raccolta tutta
La signoria di Tebe. Un grave affare
Si tratta; né tardar un sol momento.
CARONE
Ti è nota, o Polifonte, la cagione
Di tal grave premura?
POLIFONTE
La comune salute
In gran periglio è posta.
CARONE
Forse i nemici alle tebane porte
Or sono e dàn l’assalto?
POLIFONTE
Anzi i nemici son dentro la terra.
In Tebe si congiura: è certo omai
Che gli esuli venuti son d’Atene.
Ma più arrestarmi qui non debbo. Altrove
Grave cura mi chiama; affretta intanto
Il passo, né aspettar altra richiesta.
SCENA QUINTA
CARONE solo
CARONE
Che dubitar di più? La cosa è certa.
Sanno che in Tebe gli esuli già sono,
Che si congiura; io son chiamato e appunto
Per tal affare. È già palese il tutto…
In forza lor mi vonno
Per trar da bocca mia
De’ congiurati il numero e l’asilo…
Si vada pur e il lor pensier deluso
Sarà. Faccian di me spietato scempio,
Purché gli amici miei salvin la vita.
Di me si adempia pure
L’alto destino e ‘l gran voler di Giove…
Ma Polinice mio, diletto figlio,
Tu vittima cadrai de’ tuoi begli anni
Sull’alba e il genitor ti dà la morte.
Aspasia, Ismene, e voi sarete scherno
Di Tebe e de’ tiranni.
O pensiero! o tormento! Ah no, son padre
E sposo e non degg’io
Scordar sì sacri nomi.
Oimè che dico e parlo!
Ah no, si vada a morte.
Perisca il tutto: moglie,
Sorella e figlio e quanto ho caro al mondo.
La fé sia salva e l’amistà. Gran nume
Di un generoso cor, santa amistade,
E tu de’ miei pensier più dolce cura,
Mia cara patria, il sacrificio accetta.
Per te, se tutto io perdo, almen io viva
Nella memoria tua: un tal conforto
Mi fa dolce sembrar l’estremo fato,
Né mi spaventa nel più fiero aspetto
E terribil la morte.
SCENA SESTA
ASPASIA, POLINICE
POLINICE
Madre, perché tu piangi? e qual dolore
A sospirar ti muove?
Ma tu mi guardi e taci.
Deh parla, o Dei! m’affanni con quel pianto.
ASPASIA
Figlio, degli occhi miei più caro assai,
Lasciami in preda al mio tormento fiero.
Ah! tu mi uccidi, o figlio, e pur nol vedi.
POLINICE
In che ti offesi mai, diletta madre,
Qual cenno tuo posi in oblio? che feci?
Se mai ti spiacqui, involontario errore
Credilo, o genitrice.
ASPASIA
Taci, mio figlio, taci, io più non posso.
Tu mi laceri il core.
POLINICE
Perché dolente sei?
ASPASIA
Ah forse lo saprai con tuo gran danno.
Intanto parti e lasciami qui sola.
POLINICE
Ogni tuo cenno è mia sovrana legge.
ASPASIA
O sommi Dei! perché donaste voi
A me così leggiadro e nobil figlio,
In cui sovra l’età traluce tanto
Senno, valor e ogni virtù più rara?
Perché più vivo fosse il mio dolore.
SCENA SETTIMA
CARONE, PELOPIDA
CARONE
Pelopida, tardar senza sospetto
Io più non posso; partirò, ma voi,
In questi orti vicini stando ascosi,
Attenderete del destin l’avviso.
Se al mio morir l’irato ciel consente,
Fuggite, e resti a voi l’ardente cura
Di vendicar la patria.
Felice me! se del mio sangue solo
Sarà contento il fato
Ed a tal prezzo la mia patria acquisti
La libertà perduta.
PELOPIDA
O grand’eccelso eroe, in te d’Alcide
Il sangue scorre e ben palesi all’opre
Che in te l’erculea stirpe ancor germoglia.
Ma se tu cadi, o gran tebano, noi
Teco morremo e col nemico sangue
Vendicherò la tua grand’ombra e Tebe.
CARONE
Che! Pelopida, tu non ti rammenti
Il giuramento e il sacro, orrendo patto?
La vita or tua non è, ch’essa è già sacra
A Tebe: a lei te devi, a lei tu vivi.
Io lo dimando. E Tebe
Tel comanda: a miglior tempo ti serba,
Ché, se tu manchi, chi sarà per lei?
Tebe è caduta e la sua speme è morta.
PELOPIDA
Dovrò dunque sicuro il tuo periglio
Mirare e comprerò la vita mia
Col prezzo del tuo sangue?
CARONE
Chiama gli amici fuora. E tutti uniti
Ascolterete mie parole estreme.
SCENA OTTAVA
CARONE, ASPASIA, POLINICE
CARONE
In tempo giungi; l’ultimo congedo
Prendi, consorte amata.
ASPASIA
O Dei! che ascolto! che ferali accenti!
Qual voce orribil sul mio cuor rimbomba!
CARONE
Ora convien che in chiare, aperte note,
Aspasia, a te favelli.
Conosci dunque il gran disegno e l’empio
Destin che a terra sparse ogni mia speme.
A liberar la patria era rivolto
Ogni nostro pensier. Vicino il lido
Già n’appariva. Il Cielo, alle bell’opre
Nemico, suscitò nera procella
Che ne sommerge e in mezzo il porto affonda.
Scoverta è la congiura; il tutto è noto.
Polifonte a chiamar mi venne a nome
Del tiranno maggior nostro nemico.
ASPASIA
Oimè finito hai di tremar, mio core.
Or più non temi. Il male è certo. O Dei,
stagee contenti alfin? che più bramate?
O disperata donna! o miei furori!
Con ferro acuto chi mi passa il petto?
È pietà meco esser crudele e fiero.
CARONE
Che giova darsi al duol in preda? Il male
Acquista forza dall’altrui viltade.
ASPASIA
Ah! più ragion non ho. L’aspro martire
Ha tolto alla mia mente ogni vigore.
Tu me qui sola, e il caro unico figlio,
Abbandonata lasci e senza aita?
In preda al ferro ostile e in preda al fuoco
La tua magion, gli Dei Penati, il sacro
Letto genial tu lasci? ove l’antico
Tuo senno andò? qual Dio te l’ha rapito?
Qual Nume avverso nel furor ti spinge?
SCENA NONA
PELOPIDA, CONGIURATI, DETTI
CARONE
Della patria il destin e ‘l vostro ancora,
O del popol di Cadmo invitti eroi,
Sulla mia fé s’appoggia, unica base
Della comun salute.
De’ tormenti il timore, ovver d’impero
L’onnipotente stagee,
Deve a ragion render mia fé sospetta.
Siate sicuri pur: eccovi un pegno,
Il maggiore, che mai può darvi un padre.
Polinice mio figlio, unico figlio,
Sperato appoggio dell’età cadente,
Dò nelle vostre mani, caro pegno.
Vi segua pur: se tradirò la fede,
Se del mio sangue a pro comune avaro
Sarò, versate in lui del sangue mio
La parte la più pura e la più cara.
CARONE
Ah, Carone, t’arresta. Con tuoi detti
Dal seno il cor ne svelli e grave offesa
All’amistà ne rechi.
La tua virtù d’ogni sospetto è sgombra.
Con la sua madre il figlio tuo rimanga.
CARONE
No, venga pur con voi,
Almen perché valor e patrio zelo
Da tal maestro e in tanta scuola apprenda.
Se mai della Repubblica il partito
Vittoria avrà, sia dell’onor a parte;
E s’è nel Ciel prescritto
Che la tebana libertà perisca,
La cadente città con sue rovine
Il figlio e tutta la mia gente copra.
PELOPIDA
Se così brami, il tuo voler s’adempia;
Ma il ferro ostil non ferirà sue membra,
Se pria nel petto mio non si fa strada.
ASPASIA
Ahimè! son di me fuora. Adunque il figlio
E il padre insieme io perdo e senza figlio
E senza il mio consorte sola io resto!
Figlio mio, prega il genitor che senta
Pietà del mio dolor, che l’ostinato
Suo core a prieghi tuoi faccia cortese.
POLINICE
Deh, madre mia, non t’affannar di questo,
Lascia ch’io vada della gloria in traccia.
CARONE
O figlio mio, sangue de’ Dei, d’Alcide
Nostro progenitor degno germoglio,
Prendi forse da me gli ultimi baci.
O Dei! serbate a me tal figlio: e’ giunga
Carco di gloria nella età matura
E a più tranquilli dì serbatel voi.
Ma l’indugio si tronchi. Su partite,
Ché ad incontrar il mio destin mi affretto.
ASPASIA
Dove, crudel, ne vai? Tu me qui sola
Pensi lasciare? E dove il figlio mio
Senza di me n’andrà? seguir io voglio
Entrambi. Il petto mio riparo al figlio
Sarà contra del ferro ostile. O parte
Delle viscere mie, figlio mio caro,
Stringi al tuo petto la tua cara madre.
O leggiadro sembiante! o vaghe membra!
O bianco eburneo petto, o Dio! squarciato
E sanguinoso ti rimiro. Il seno
Ti veggio palpitar, l’ampia ferita
Versa di sangue un fiume. E a nome chiami
Tra singulti interrotti la tua madre.
Ah! spietato consorte, a qual mi serbi
Barbaro strazio, a qual crudel tormento?
POLINICE
Madre non pianger più. Di me gli Dei
Avran pietade e cura.
CARONE
Pelopida, tronchiam l’inutil pianto,
Ché l’affetto materno non ha fine.
E un sol momento può cangiar il tutto.
Partite: o Polinice, vanne. E resta,
Aspasia, e l’aspro duol saggia raffrena
PELOPIDA
Addio, Carone, al fianco ognor ti vegli
Un Dio che Tebe e i giorni tuoi difenda.
ASPASIA
Fermati, figlio, ferma.
POLINICE
O madre, addio.
ASPASIA
Non trattenermi… O Ciel… mio figlio… I lumi
È trattenuta da Carone
Aggravan d’Acheronte le profonde
Caligini. Vacilla il piè, si gela
E mi si stringe il core.
Sviene.
CARONE
Olà, guidate dentro
La padrona e porgete a lei soccorso.
Ah! qual ti lascio, o moglie,
Addio. Fato crudel, quando ti plachi!


ATTO QUARTO
SCENA PRIMA
ASPASIA poi TELEFO
ASPASIA
Ah fermate, crudeli, non ferite,
Arrestate la mano, o il crudo ferro
Piuttosto in me volgete.
Ah! che non m’ode alcuno.
Già cade il ferro alato
Sull’innocente capo di mio figlio.
Volar già veggio l’asta
E aprir al mio Carone il petto e il core.
O Polinice mio, sei già tu morto!
Il tuo bel viso pallido si rese,
Come bel fior che vomere recise.
Sul bianco collo il biondeggiante capo
Già cade, ahi lassa! e gli omeri percote.
Misera madre! sventurata donna!
Ah barbari tiranni! ma più fieri
E più spietati Dei!
Deh che ragiono? ove son io? che dico?
Io vaneggio, deliro…
Ma viene in fretta Telefo. Ei serena
Fronte non ha. Su presto, o Nuncio infausto,
Morto è Carone, e Polinice mio?
TELEFO
Salvo è il consorte, e il figlio.
Giunse Carone, da’ tiranni atteso,
Nel cor premendo l’affannosa cura.
Parea qual uomo che ‘l suo fato estremo
Aspetta e fa sembianza che nol curi.
Ma ben tosto tornò sereno e lieto,
Ché l’affidò quel favellare amico
De’ tiranni, che alcun lieve sospetto
Non han di lui. Ben seppero che ascosi
Gli esuli in Tebe son e la congiura
Da lor si trami; ma la casa, in cui
Ascosi sono, è loro ignota affatto.
Anzi a Carone hanno adossato il peso
Di rintracciar la verità del tutto.
Il buon Carone e il saggio accorto Fillia
Han tentato sgombrar ogni timore
Dalla lor cieca mente.
Deh qual nemico, lor disse Carone,
Con finte nuove amaro tosco mesce
Ne’ più lieti momenti della vita?
Godete pure, io veglierò per voi.
E Fillia aggiunse fede
Col suo parlar a’ detti di Carone.
ASPASIA
O lieto Nuncio, inaspettata tregua
Tu rechi al cor, in gran procella assorto.
Ma come di leggier gli hanno creduto
In tanto grave affare?
TELEFO
Quando nell’onde del piacer sommersa
È la mente dell’uom, il tutto crede;
Ma periglio novello ne sovrasta.
ASPASIA
Ahimè che più mi apporti di funesto?
TELEFO
Le lettere da Atene  son recate
In mano di Leontida;
E Fillia ebbe novella
Che dàn l’avviso dell’ordita impresa.
Hanno i tiranni spie per ogni parte
Ed in Atene molto più che altrove.
ASPASIA
Il tiranno le lesse?
TELEFO
Non già. Le pose in tasca, e al dì venturo,
Disse, rimetto i seri e gravi affari;
Benché premura dal corrier si fece
Ch’egli leggesse subito que’ fogli,
Come prescrisse l’ospite d’Atene
Che gli mandò l’avviso.
ASPASIA
Ah! mi ritorni nell’antico affanno.
Temo ch’ognor e’ legga
Il mio fatal arresto.
TELEFO
Perché nell’avvenir tu scerner vuoi
Sempre i tuoi mali? spera il bene ancora.
Chi sempre teme il male, o sempre spera
Il ben, del par s’inganna.
ASPASIA
Agl’infelici di sperar non resta.
SCENA SECONDA
POLIFONTE, TELEFO
POLIFONTE
O Telefo, la sorte a me ti guida
Incontro ed opportuno qui ti trovo.
Tu puoi coll’opre agevolar l’affare.
TELEFO
In che poss’io giovarti?
POLIFONTE
Già sai che il mio signor arde e delira
Per Ismene, né aver potrà mai pace,
Se possessor non diverrà di lei.
Quant’ei però l’adora, ella l’aborre,
Ché donna non si attiene a ben verace.
Or tu, che sei d’Ismene
Amico, l’ostinato
Suo cor alla ragion sommetti e piega.
TELEFO
Ma se quella l’aborre, perché mai
Tu nol consigli a discacciar dal petto
L’insano ardor? Che stolto è l’uom che brama
A donna unirsi, che il disprezza ed odia.
POLIFONTE
Al mio signor di giovamento sono
Tai nozze. Può l’affinità novella
Sulla sua fronte stabilir per sempre
Il diadema regale.
Grand’è Carone in Tebe e per ricchezze
E per favore popolar potente.
Ond’io nutrisco quell’ardor che serve
Al suo poter, che me fa grande ancora.
TELEFO
Fabro dunque tu sei delle catene,
Onde la patria ingrato figlio stringe.
POLIFONTE
Il suo vantaggio io bramo. Un sol padrone
È meglio aver che mille.
TELEFO
In libera città solo la legge
Sovrana impera e tutti son soggetti,
Né quivi serve, né comanda alcuno.
POLIFONTE
Dura è la legge e nulla scerne ed ode,
Né per pregar dal suo voler si torce;
Ma presso del signor grazia e favore
Può ritrovar chi ‘l chiede.
TELEFO
Altrui chi dà favor, cogli altri è ingiusto,
Né dritti uguali a ciaschedun dispensa;
Onde n’avviene ch’altri abbondi ed altri
Ingiuria soffra e in povertà ne gema.
POLIFONTE
Sono a’ mortali varie sorti fisse
Al nascer di ciascun, come la Parca
Di ferro o d’oro quelle ognor comparte.
Di grandi e di potenti
E della plebe per servir sol nata
Convien che la città composta sia.
Se tu salir in più sovrana parte
Brami, d’Ismene al cor gelato ispira
Fiamma pel tuo signor.
TELEFO
Al mio dovere
A tempo adempirò. Ma qui ne viene
Ella medesma, tu potrai con lei
A pro del tuo padron oprar ogn’arte.
SCENA TERZA
ISMENE, POLIFONTE
ISMENE
Qual oggetto funesto? del tiranno
E della morte il fier ministro io veggio
A rinnovar del cor la mia profonda
Ferita; e che ti porti, o Polifonte?
Ad insultar al mio dolor estremo
Forse tu vieni? appien non è contento
Il tiranno in formar l’altrui miseria,
Se non prende piacer del mal che fece
E non si pasce ognor del pianto amaro
Degl’infelici oppressi.
POLIFONTE
Ismene, e quando al tuo dolor dài freno?
Infido consigliero è fero sdegno.
A più mite pensier il tuo bel core
Alfin dia loco, e meglio il merto stima
Di chi ti adora e in sommo pregio tiene,
Ed al tuo piè la sua grandezza e ‘l fasto
E ‘l suo poter depone.
Chi di Tebe è signor, d’esser tuo servo
Non si disdegna e schiva.
Deh non sprezzar la sorte, ora che t’offre
Il crine; ella sdegnata
Il piè lontano porterà, se tardi
A stringer il suo dono.
ISMENE
Il mio dolor e l’aspra pena mia
Non avrà fine e l’odio del tiranno
Mi seguirà per anco nella tomba
E nel regno dell’ombre e della morte.
Né per altro mi piace che gli estinti
Abbian oltre l’avello e spirto e senso,
Che per nutrir etern’odio nel seno
Contra dell’assassin dell’infelice
Svenato sposo. Ahi misero mio sposo!
Sposo diletto, vittim’innocente
Del barbaro furor d’un mostro infame!
POLIFONTE
Tergi le belle lagrime e sereno
Torni col ciglio il cor. L’umane cose
Hanno termine e fin. Soverchio pianto
Hai tu finor versato.
Condona alfine un amoroso eccesso
Al tuo fedel Leontida. Un trasporto
D’amor merta perdono; e dal trasporto
Estima l’infinito amor, che nutre
Per te quel fido amante.
ISMENE
Amor d’ogni odio assai peggior! Deh pera
Il dì che piacqui agli occhi suoi. Deh fossi
Io stata all’empio il più ferale oggetto.
Infelici sembianze! del mio bene
Omicide crudeli, oh ree sembianze,
Se voi piaceste al perfido tiranno.
POLIFONTE
Non vidi mai al par di te nell’odio
Donna ostinata. Tigre, cui rapita
Dal cacciator fu la diletta prole ,
Tranquill’ancor diviene e la natìa
Ferocia ha tregua e posa.
ISMENE
Deh Polifonte, alfin lascia l’impegno
Di mitigar l’acerbo mio pensiero.
Il mio dolor e l’odio al par saranno
Eterni in me. Lor esca eterna e cibo
Sarà questo mio petto.
POLIFONTE
Né ti lusinga lo splendor e ‘l fasto
Della sorte superba, a che t’invita?
ISMENE
Anzi m’ irrita più, più faci aggiunge
All’odio mio, al mio mortal cordoglio.
POLIFONTE
Né l’ire tu del tuo signor paventi?
ISMENE
E che deggio temer? Chi si dispone
Morte a sprezzar, più nulla al mondo teme.
POLIFONTE
Deh superba, ti vanta a tuo talento
Di questa tua ferocia. Ben favella
Tu cambierai fra poco. Il tuo germano
Ne pagherà la pena.
Il suo sangue vedrai correr in rivi.
Allor palese fia se mai sereno
Il guardo tuo vedrà Carone estinto
E nel sangue del padre il figlio ucciso
Nuotar bagnato e immerso.
ISMENE
Come! Carone! che peccò? che fece?
Ei fia punito dell’altrui demerto?
Non è del tuo signor il crudo ferro
Sazio di stragi ancor? senti, t’arresta.
POLIFONTE
I sensi tuoi al mio signor riporto.
ISMENE
Polifonte, pietà di un’infelice,
Se del mio sposo mi privò la sorte,
Del mio germano non mi privi ancora.
POLIFONTE
Ma tu cangia pensier, deponi il folle
Orgoglio e quei feroci alteri spirti,
E il tuo Carone alla tebana gente
Signoreggiar vedrai.
ISMENE
Dona al dolor un giusto tempo almeno.
Poch’ore al pianto ho date. Il tempo porge
Maggior conforto che de’ saggi i detti.
POLIFONTE
Deh leggi questo foglio, egli ti appresta
Un conforto miglior che il tempo istesso.
Ismene legge il foglio.
ISMENE
Oh qual ardir! che pensoexcl che rispondo!
POLIFONTE
E ben risolvi… Ismene.
ISMENE
Leontida contento
Sarà: ne venga. Io spero che conceda
Qualche tempo al mio duol; e alla ragione,
Saggio qual è, pur ceda.
SCENA QUARTA
POLIFONTE solo
POLIFONTE
O delle donne instabil mente e inferma!
Di orgoglio e vanità quanto ricolma
Tanto leggiera e frale.
Quando si abbassa l’uomo e prega ed ama,
Nol curi, anzi lo schivi.
Quand’ei ti sprezza, l’ami e, se minaccia,
L’adori e al suo piacer tutta t’inchini.
Bontà, valor e cortesia non pregi;
Il buon non curi ed il malvagio onori.
Con te dunque convien che l’uomo adopri
Inganno e frode e reo costume ognora,
Se di piacerti brama.
Ecco costei, che sì feroce prima
E a tanti preghi si mostrò sì altera,
Ora cangiata in un momento solo,
Mansueta e umìle al minacciar divenne.
Stolta! vedrai fra poco
A che ti adduce tua sciocchezza estrema.
Il piè già tieni nell’ordito laccio.
SCENA QUINTA
ISMENE sola
ISMENE
Ombra diletta dell’amato Emonte,
Ombra onorata e cara,
Non ti sdegnar se ancor io resto in vita
E nel soggiorno dell’eterna notte
Ancor non scesi per unirmi teco.
L’anima mia seguì già l’orme tue.
Tu l’hai menata teco;
E queste membra muove e solo avviva
L’ardor della vendetta. Io spero
Ormai placarti coll’infame sangue
Del tiranno, cui voglio di mia mano
Strappar dal seno il core
E trapassarlo con pungente ferro,
Per fin che alle ferite vi sia loco.
O fido servo, fa che spento sia
comparisce il servo e spegne il lume
In queste stanze il lume;
Quando verrà Leontida, introdotto
Che sia qui dentro. Numi ognor tremendi
Della profonda notte, Ecate e Pluto,
Non mi negate il vostro gran soccorso,
Voi fate che nel core del tiranno
Io tinga questo ferro.
Creder deggio che voi
Spiraste sol la furiosa mente
All’impuro ladrone, acciocché paghi
Le meritate pene.
Spinto dall’ebria ed impudica fiamma,
Mi fa saper che tacito fra poco
Ei qui sarà per abboccarsi meco.
Forse lo stolto crede all’onor mio
Recar un’insanabile ferita.
Or voi donate nuovo,
Insolito valor a questo braccio,
Che gli trapassi il seno. Il denso buio
Aggio maggior darammi al gran disegno.
SCENA SESTA
EMONTE indi ISMENE
EMONTE
O tenebrosa notte! o tetro buio!
Qual profondo silenzio
Che spira orrore ed un feral spavento!
Non son pur queste le dilette mura
Che sì liete rendea quel caro viso?
Ov’è quel loco amato,
In cui sì dolce sospirai d’amore?
Non trovo più l’amabile soggiorno
Della mia bella dea.
Non odo o veggo alcun, né so novella
De’ congiurati, di Caron, di lei.
Che fia di loro, o Cielo!
Ella mi crederà per certo estinto;
Ché, fuor di Fillia che salvò mia vita,
Ognun morto mi crede.
Quante lagrime avrà da suoi begli occhi
Ella versate ognora?
De’ suoi sospiri è questo aer cocente
E parmi udire ancor da questi marmi
Ripetere le flebili sue voci.
Ismene, dove sei?
Di rivederti impaziente ormai…
Odo romor… occulterommi in questa
Parte per ascoltar qualche novella.
Si pone nella parte più rimota dal proscenio.
ISMENE
Ecco il tiranno, capitò nel laccio.
Ismene nell’uscire vede Emonte e lo crede Leontida.
Dal regno degli estinti
in voce più bassa
Odimi, o caro sposo;
Questa vittima accetta,
Che ti offre la fedel misera amante.
L’amor fu la cagion della tua morte,
Vendicator ne sia l’istesso amore.
Numi, guidate il braccio mio… Ma quale
s’incammina e poi si arresta
Forza trattiene il piè?… Trema la mano!
Sento i miei passi indietro
Respinger da poter celato. Fia
Tema che adombra il cor. Ah no, si vada
E beva il ferro del crudel il sangue.
EMONTE
Qual cheta voce ascolto
E tacito sussurro?
ISMENE
Ei vien incontra… O caro…
Muori malvagio…
Alza per ferir la mano.
EMONTE
Ismene?
Si arresta in quell’atto, sentendo la voce d’Emonte.
ISMENE
Emonte? eterni Dei!
SCENA SETTIMA
CARONE, SERVO con lume e DETTI
CARONE
Che veggio, Emonte vivo!
Ismene in atto di passargli il core!
Che strani avvenimenti il Ciel destina!
EMONTE
Qual fallo mio meritò tant’ira?
Che mai ti feci, Ismene?
ISMENE
Ah, caro Emonte mio, perdona questo
Involontario error. Tu vivi ancora?
Né ti fece svenar l’empio tiranno?
EMONTE
A Fillia diè la cura che di vita
Mi facesse privar; l’amico finse
Eseguito il comando e ‘l fier tiranno
Sicuro è di mia morte.
ISMENE
O Ciel! a qual eccesso il braccio mio
Ora portavi? vendicar lo sposo
Volendo, io stessa gli squarciava il petto.
Ah qual orrore nel pensarci io sento!
CARONE
E qual d’un tanto error fu la cagione?
ISMENE
Leontida, di vino e d’impudico
Amor ardente, mi cercò secreto
Abboccamento ed io
Qui lo trassi a venir, acciò tra l’ombre
Svenar potessi quell’orribil mostro.
E fui nel punto (ahi sollevar mi sento
Le chiome tutte) di passar il core
Al mio diletto sposo.
CARONE
Oimè! quest’accidente può turbare
La nostra impresa. D’affrettar fa d’uopo
Pelopida, ché parta in questo istante.
SCENA OTTAVA
EMONTE, ISMENE
EMONTE
Ismene, addio, qui restar non posso.
Al gran cimento l’amistà, l’onore
E Tebe ancor mi appella.
Conservati, ben mio.
Ah! se l’estrema volta, o Cielo avverso,
Mi concedi mirar quei cari lumi,
Onde il bel foco spira, il qual avviva
Ed anima il mio core,
A suoi begli anni aggiungi
Il numero de’ giorni
Che toglie a me l’inesorabil Parca.
Mia cara Ismene, addio.
Io nella tomba porto
La bella fiamma mia, onde arsi al mondo.
Idolo amato, a te sovvenga pure
Talor della mia fede….
Ma tu piangi, mia vita, e coi sospiri
E con singulti mi rispondi solo?
ISMENE
Ah! caro Emonte… oh Dio!
Ahi! tosto che la sorte mi ti rende,
Io ti perdo di nuovo.
Il Ciel forse per sempre ne divide;
Né ti vedran mai più questi occhi miei.
EMONTE
Ahi! qual assalto fiero, Ismene, or movi
A mia virtù, ch’amor si vede a fronte.
Tutte di lui le tenerezze e l’armi
Tu chiami in campo ad opportar la guerra
Alla mia gloria e al mio dover geloso.
Io parto. Ismene, addio.
ISMENE
Ah no, ti arresta, o sposo. Incontro a morte
Tu porti il piè. Ti ferma.
EMONTE
Se fosse mai nella fatal bilancia,
U‘ son le sorti del mortal librate,
Sospesa da una banda la mia morte
E dall’opposta eterna immortal vita,
Unita al biasmo di lasciar la patria
In tal periglio, un sol momento avrei
Rossor di bilanciar sul mio destino.
Alla mia patria io deggio
La vita, che ad usar solo mi diede.
Il sangue, che mi scorre nelle vene,
Non è suo dono? Spirto,
Del viver mio motor non è quest’aura
Che della patria da bei colli spira?
Gli avi vetusti, donde vita io trassi,
Non son di questo suol natìo germoglio?
S’aprì la fertil terra
E di Cadmo cacciò la fera gente,
Che abitò prima le tebane mure.
Deh lascia pure, Ismene,
Se nel volume del destino è scritto
Che alla mia patria io renda il proprio dono.
ISMENE
Qual Dio parlò col labro tuo? qual Nume
Tutelare di Tebe ne’ tuoi detti
Tonò? qual foco e qual ardor io sento
Destarmisi nel seno?
Ah! potess’io gravar le bionde chiome
Con lucido cimiero e armar il mio
Tenero petto di lorica e l’asta
Trattar con mano ardita
E qual Pentesilea sul Termodonte
Di sangue ostile insanguinar il campo.
Per la mia patria terra
Affronterei la morte
E teco avrei comun gloria e periglio.
Ma la natura o ‘l reo
Costume fu nemico al nostro sesso,
Che ne ristrinse tra di anguste mura;
E l’ingegno e ‘l valor vi chiuse ancora.
Deh vanne tu, dove si rota il brando,
Ché ‘l petto mio sarà campo di guerra,
Ove sarà più cruda aspra tenzone.
EMONTE
Son queste voci di tebana donna,
Sorella di Carone e sposa mia.
Figlia di Giove, Pallade Minerva,
O mia gran Dea, proteggi chi cotanto
A te somiglia e fa ch’io torni degno
Di questa eccelsa e gloriosa donna.


ATTO QUINTO
SCENA PRIMA
CARONE all'altare
CARONE
Onnipotenti Dei, che proteggete
Il popolo di Cadmo, o de’ tiranni
Sterminatori eterni ,
Figlia di Giove, o Pallade tremenda,
Apollo, cui l’argenteo arco risuona
Sugli omeri divini, voi drizzate
I dardi e l’aste ultrici
Contra i tiranni della patria mia;
E sotto il tuo gran scudo, invitta Dea,
I generosi eroi
Della lor patria vindici difendi.
SCENA SECONDA
ASPASIA, CARONE
ASPASIA
Chi m’arreca o la vita o la mia morte?
Né alcun ancor qui viene?
Che affanno in aspettar l’incerto evento
Del dubbio Marte io provo!
Forse il timor del male
È più penoso dell’istesso male.
CARONE
Spera nel Cielo e nel favor de’ Dei.
ASPASIA
Le speranze nel Ciel e i caldi prieghi
Spesso coll’uom restar nell’onde immersi.
Né varco alla speranza apre quel fosco
Caliginoso orror ch’intorno al core
Stammi, onde presenti ognor mi sono
Forme d’orror, immagini di morte.
Parmi mirare ognor i tetti antichi
E queste mura di sanguigne fasce
Aspersi e tinti intorno.
Io vidi l’are de’ Penati Numi
Tremar co’ santi simulacri tutte,
E spumoso sudar e vivo sangue.
Deh guarda pur la tremula facella
E torbida di questi accesi lumi.
Odi l’orrende e spaventose voci
Che mandan fuor l’antiche oscure tombe,
Ove sepolti son i padri e gli avi
Che ne chiaman con loro.
Il figlio già riposa entro le braccia
Dell’ombre de’ Maggiori. Noi verremo,
Ombra del figlio mio,
Nell’eterna magion fra pochi istanti.
CARONE
Ah! che ‘l timor nell’animo ti pinge
Immagini fallaci di spavento.
Qual uomo spera o teme, tal figura
Le cose nella mente;
Ma agli occhi suoi perpetuamente annotta
E denso velo l’avvenir ricovre.
L’invincibil destin ha quel celato
In un eterno impenetrabil buio
E al misero mortal ognor conteso.
Ben il migliore di sperar ne giova.
Così, se accade, è dimezzato il male,
Siccome è doppio il bene.
ASPASIA
Vani pensieri! inutili conforti!
Ma vien qualcuno… o pur m’inganno? è vero.
O Polinice! o Numi!
SCENA TERZA
POLINICE, ISMENE e DETTI
POLINICE
Liete novelle, o padre mio, ti arreco:
Archia  è già caduto e i suoi compagni
Sono in un mar del proprio sangue immersi.
CARONE
Grazie vi rendo, o Dei!
ISMENE
O Polinice, che mai fu d’Emonte?
POLINICE
È salvo il prode Emonte.
CARONE
Narra per ordin tutto, o caro figlio.
POLINICE
Nelle casa di Fillia ogni uscio aperto
Trovammo e senza servo alcun di guardia,
Ché Fillia con accorto modo avea
Indi rimossi tutti.
I tiranni giacean su i letti stesi
E sdraiati, dal vin oppressi e domi,
Aspettando le donne e con la mente
Anzi tempo il piacere divorando.
Quindi primier Pelopida tra quelli
Si lanciò, nell’aspetto a Marte uguale.
Siccome un pardo, che la fame punge,
Vede la cara preda e in un si avventa
Su quella sbigottita:
E con empito tal la spada al fianco
Spinse a Filippo, che passò dal lato
Opposto il ferro e giunse l’elsa al corpo.
S’alzò quell’infelice e cadde poi
Su la mensa di nuovo; e tazze e tutto
Andò sossopra e rovesciossi al suolo.
Scorreva il vivo sangue in rivi e al vino
Misto scorreva ed urla al ciel tremendi
Il moribondo tra rotti singulti
Mandava, alto fremendo, come toro
Innanzi all’ara, che ferì nel collo
Con lieve offesa il timido Ministro,
Cade mugghiando al suolo e si rivolge
Fra ‘l proprio sangue e minacciar non cessa .
Allor di spade lucide e taglienti
Un lampegiar fu visto in un baleno.
L’orror, la morte con sanguigna face
Quivi scorrea d’intorno.
Ognun de’ congiurati
Ne’ tiranni immergea
Ferro di sangue sitibondo e ingordo.
Emonte allora, qual leon feroce
Che ‘l cacciatore leggiermente offese,
Tra quelli si scagliò, facendo strage
E gridando: di Tebe alla vendetta
Io vi consacro, perfidi tiranni.
Ma il crudo Archia terribile ben tosto
Cacciò la spada ed a ferir i nostri
Lento non fu. Gli amici
Di questo, insiem raccolti,
Arditi incominciaro a far difesa.
Allora il valoroso e forte Emonte
Si strinse con Archia in fiera pugna
E questi furioso
Un rovescio tirò sul nudo capo
D’Emonte…
ISMENE
E l’ha ferito?
POLINICE
Ismene, no,
Ché nel mirar l’amico in tal periglio
Mi sospinsi da lato a quel crudele
E con ambe le mani il braccio tenni.
ASPASIA
O caro figlio, palpito di affanno.
POLINICE
Di sprigionar tentò l’avvinto braccio,
Ma invan tentò, ché l’amistade infuse
Insolito vigor alle mie membra.
Ei che si vide il braccio così stretto,
Ardendo d’ira, il suo pugnal si trasse
E con la manca me ferir volea.
Ma Pelopida, occorso al maggior uopo,
Con un fendente gli troncò la mano
Del pugnale. Stringeva ancora il ferro
La man, che al suol guizzava, e quegli ancora
Di combatter non resta; e il braccio versa
(Orribile spettacolo!) di sangue
Torrente, e l’empio il Ciel bestemmia e Dio.
Pelopida sdegnato alzò la voce:
E troppo, disse, al tuo destin contrasti;
E in così dire fulminò sul capo
Di quel malvagio un sì feroce colpo
Che insino al mento lo divise, e cadde
Del tiranno di Tebe il grave tronco.
Archia al suol caduto, ognun rimase
Estinto e questo fin ebbe ciascuno
Ch’empio la patria sua serva si rese.
CARONE
Ma del crudel Leontida novella
Tu non mi rechi, o figlio?
POLINICE
Poc’anzi egli di là si era partito.
CARONE
Il maggiore nemico oimè! ne resta.
Se fia salvo Leontida, ogni nostra
Fatica al vento è sparsa.
SCENA ULTIMA ‘QUARTA‘
LEONTIDA e DETTI ‘poi POLIFONTE e PELOPIDA’
CARONE
Ecco il tiranno, su, mio cor, valore.
Cedi sei morto…
Carone tira il ferro e va sopra Leontida.
LEONTIDA
Traditor, ti resta
Molto da far per superarmi ancora…
Leontida si disbriga da Carone e si pone in difesa e batton-si.
ASPASIA
O Dei! soccorso… aita…
CARONE
Lascia l’inutil ferro… mori, e tardi
Impara de‘ tiranni il fin prefisso.
Carone vince il ferro a Leontida.
LEONTIDA
I miei compagni ne faran vendetta.
CARONE
I tuoi compagni preceder tuoi passi.
Ombre gementi attendon il lor duce
Nella torbida sponda d’Acheronte.
POLIFONTE
Ma vi son io. Ti arresta; o Polinice
Sugli occhi tuoi ti sveno.
Polifonte, che viene, pone uno stile alla gola di Polinice e colla sinistra lo tiene stretto.
CARONE
O Fato, avverso ognora!
ASPASIA
Ah Polifonte, ferma.
POLIFONTE
Aspasia si muove verso Polifonte.
Se t’accosti, ferisco.
ASPASIA
Figlio, misero figlio!
Aspasia si arresta.
POLIFONTE
Caron, sciogli Leontida
O vibro al seno il ferro.
CARONE
Servo malvagio di un tiranno iniquo,
Contra la patria l’armi empio tu movi.
POLIFONTE
Il tempo vola. Ferirò, se tardi.
ASPASIA
Ah, Carone, pietà del figlio tuo.
Figlio, misero figlio…
Crudel, arresta il braccio.
Ecco il mio petto nudo.
Aspasia s’incamina di nuovo verso il figlio e poi si arresta.
POLIFONTE
Ferma. O l’uccido. E tu, Caron, risolvi.
CARONE
Ah figlio! o Polinice!
O patria! o sacra fede!
Provvidenza del Ciel, o vano nome!
POLIFONTE
Ecco, ferisco.
Accenna di ferire.
ASPASIA
No, t’arresta, o Dio!
Ah barbaro, crudel, sposo inumano,
E tu permetti e vuoi
Che sia svenato il caro unico figlio
Sugli occhi della madre?
Numi, Caron, pietà… Misera madre!
LEONTIDA
Polifonte, ferisci. Io moro lieto,
Facendo anco tremar l’eroe di Tebe.
CARONE
Viva la patria. Tu ferisci, e mori,
Empio tiranno.
Carone ferisce Leontida e costui cade.
ASPASIA
O Ciel! soccorso
Giunge Pelopida, trattiene colla sinistra il braccio di Poli-fonte e colla dritta lo ferisce
PELOPIDA
Mori.
e questi cade.
POLIFONTE
Io manco.
LEONTIDA
Invendicato io moro… empio destino.
CARONE
O Dei pietosi! O figlio mio! Carone!
CARONE
Stolti mortali! La celeste mano
È più vicina, allorché men si vede.
FINE

giovedì 4 maggio 2017

Bibliografie essenziali. 24. Antiche civiltà lucane, a cura di P. Borraro, Galatina, Congedo, 1975

DEVOTO GIACOMO
I momenti della storia Lucana (p.3-14)
ADAMESTEANU DINU
Scavi e ricerche archeologiche in Basilicata (p.15-28)
FERRI SILVIO
Nuovi dati e nuove ipotesi sull'origine dei Lucani (p.29-42)
LEPORE ETTORE
La tradizione antica sui lucani e le origini dell'identità regionale (p.43-58)
LIPINSKY ANGELO
La corona votiva aurea da Armento (p.59-98)
NAPOLI MARIO
I lucani e la pittura lucana (p.99-118)
PAZZINI ADALBERTO
La questione dell'elemento italico nella civiltà mediterranea della cosiddetta "Magna Grecia" (p.119-126)
SECCHI TARUGI GIOVANNANGIOLA
Umanesimo e archeologia (p.127-142)
LISSI CARONNA ELISA
I risultati di tre campagne di scavo ad Oppido Lucano (p.143-150)
D'ELIA MICHELE
Per la pittura del Duecento in Puglia e Basilicata. Ipotesi e proposte (p.151-168)
STRAZZULLO FRANCO
Note sull'architetto Oppidano Francesco Grimaldi (p.169-188)
JURLARO ROSARIO
Antiquariato ed umanesimo nelle sculture del coro ligneo della Cattedrale di Matera (p.189-194)
MONACO GIUSEPPE
Note su Riccardo da Venosa (p.195-202)
LEVI LEO
Giovanni da Oppido, il proselito normanno: un musicista pellegrino del XII secolo (p.203-216)
GOLB NORMAN
Dove avvenne la conversione dal giudaismo del proselito Obadiah di Oppido? (p.217-226)
SCHEIBER ALEXANDER
Der lebenslauf des Johannes-Obadja aus Oppido (p.227-244)
SCHEIBER ALEXANDER
Vita di Giovanni Abdia di Oppido (p.245-250)
LANCELLOTTI ANGELO
Nella cronaca di Giovanni Abdia il proselita normanno la prima pagina di storia di Oppido della Lucania (p.251-262)
GIGANTI ANTONIO
Vita religiosa ad Oppido nella prima metà del Cinquecento (p.263-276)
ARMIGNACCO ALIDORI VERA
Qualche osservazione geografica su Oppido Lucano (p.277-302)
DE SOPO GIUSEPPE
Una pagina di storia nella diocesi di Tricarico nell'età svevo-angioina (p.303-316)
TAMBURRINO GIUSEPPE
Traidizioni religiose popolari di Oppido (p.317-324)
BORRARO PIETRO
Sergio de Pilato e il suo contributo alla promozione della cultura in Lucania (p.325-342)
PANVINI ROSATI FRANCO
Il ripostiglio monetale rinvenuto ad Oppido Lucano (p.343-360)
NOVIELLO FRANCO
Appunti sulle lamentazioni lucane (p.361-370)