giovedì 24 febbraio 2022

Potenza. 1. La città antica

Com’era la città di Potenza nell’antichità? Non è facile rispondere: il soffio del tempo e le distruzioni degli uomini rendono difficile fare poco più che ipotesi. 

Sappiamo, comunque, che tra lo scorcio del IV e gli inizi del III secolo a.C., nella Lucania interna l’antica Potentia sarebbe sorta lungo la riva sinistra del fiume Basento. Tuttavia, è più probabile che si fosse sviluppata sul colle, decisamente più adatto a costituire uno stanziamento facilmente difendibile: certamente non era adatta alle finalità difensive di una colonia l’ubicazione in un luogo basso o lungo le pendici di un’altura. Inoltre, sarebbe stato anche poco salubre stanziare un insediamento lungo un corso fluviale, che presentava maggiori rischi di contrarre la malaria. Testimonianza di un originario nucleo abitativo sulla sommità del colle è la presenza di rilievi ed epigrafi e, ancora, nell’area più centrale del pianoro sul quale sorge Potenza, di parte di un selciato composto da grandi pietre quadrate e di tubi di piombo, probabilmente appartenenti a impianti idrici. 

L’antico nucleo abitato, dunque, collegato al centro fortificato di Serra di Vaglio, sarebbe stato, in origine, in linea con altri insediamenti indigeni, un avamposto di controllo, poi sviluppatosi in federazione di città-stato e divenuto colonia romana, come testimonia lo stesso toponimo Potentia, di origine romana, con ogni probabilità sorto e sviluppatosi dopo le guerre di Roma contro Pirro, nel III secolo a.C. 


L’insediamento romano era probabilmente compreso tra le attuali piazze Mario Pagano e Pignatari, ricalcando il modello generale delle cittadine romane di origine militare, con l’incrocio centrale tra il cardo maximus e il decumanus maximus, l’attuale via Pretoria, che attraversava tutta la città da est a ovest, mentre il cardo corrisponderebbe alla via che oggi sbocca all’ingresso di porta San Giovanni. Le porte principali dovevano trovarsi alle estremità del decumano maggiore e al termine del cardo  maximus, non molto lontano proprio dalla stessa porta San Giovanni.

L’odierna piazza Matteotti, invece, dovrebbe aver assolto la funzione di luogo del mercato pubblico e dell’amministrazione cittadina, un vero e proprio foro. Il nucleo abitativo più consistente si sviluppò, appunto, su tale pianoro, dalla forma allungata, che offriva un terreno stabile per la costruzione delle case ed era circondato da ripidi pendii che ne assicuravano una naturale difesa ma che condizionarono anche lo sviluppo urbano, in particolare sul versante settentrionale e meridionale, con una ripida pendenza che avrebbe impedito l’espansione da quel lato. 

Non è, inoltre, facile ricostruire il tracciato delle mura e, dunque, il perimetro della città romana, vista la frammentarietà delle testimonianze, come una maglia composta da isolati di regolare dimensione, tranne in alcuni punti nei quali tende ad allargarsi. Si trattava, comunque, di una colonia, nel successivo ordinamento augusteo facente parte della regio tertia Lucania et Bruttii e iscritta alla tribù Pomptina e che, fra tardo IV e VI secolo d.C., divenne sede vescovile, come testimoniato dalla menzione di un vescovo Erculenzio e di un Pietro, il primo dei quali avrebbe consacrato la chiesa di San Michele Arcangelo, fuori dalle mura. 

Altre testimonianze risalenti alla tarda antichità sono una basilica sorta nel luogo in cui dal IV secolo si venerava il martire Sant’Oronzio e la chiesa della SS. Trinità, edificata sull’antico tracciato. 

giovedì 17 febbraio 2022

Il Mezzogiorno moderno. 22. I Napoleonidi a Napoli

 Dopo l’ingresso delle truppe sanfediste in Napoli, gli insorti repubblicani, che si erano asserragliati in Castel Sant’Elmo, patteggiarono una resa onorevole il 21 giugno: fermo restando che soldati e patrioti sarebbero stati imbarcati per la Francia, la guarnigione francese si sarebbe arresa come prigioniera di guerra, pur conservando le proprie armi; inoltre, ogni proprietà individuale, a differenza di quelle pubbliche, sarebbe rimasta a ciascuno. Le Capitolazioni erano firmate dal comandante della guarnigione francese, Joseph Mèjan, dal Duca della Salandra, tenente generale dell’esercito borbonico, dal comandante inglese Thomas Troubridge e dal comandante dei russo-turchi Baillie.

Tuttavia, al riguardo, il Ruffo non aveva rispettato gli ordini di Maria Carolina, che aveva fermamente espresso al cardinale la volontà di non intavolare «nessuna trattativa coi ribelli vassalli […] non patteggiare con simili bassi e spregevoli scellerati». Così, tali direttive furono eseguite dal Nelson, che, giunto a Napoli, rifiutò di riconoscere le Capitolazioni e volle che i patrioti fossero tutti tradotti davanti al Tribunale dei rei di Stato. Iniziava, così, una repressione durissima, che si protrasse fino al settembre del 1800. In ciascuna provincia fu inviato un Visitatore con l’incarico di redigere l'elenco di coloro che avessero aderito al movimento rivoluzionario. 

Con la pace di Amiens (1802) il Mezzogiorno e la Sicilia furono provvisoriamente liberate dalle truppe francesi, inglesi e russe, e la corte borbonica tornava ad insediarsi ufficialmente a Napoli. Due anni più tardi furono riaperte le porte del Regno ai gesuiti, mentre già dal 1805 i francesi tornavano ad occupare il regno, stanziando in Puglia un presidio militare. A Schönbrunn, il 17 dicembre 1805, Napoleone avrebbe proclamato che «la dinastia di Napoli ha cessato di regnare. La sua esistenza è incompatibile con la pace dell’Europa e l’onore della mia corona». Nel giro di qualche giorno, con il cognato Gioacchino Murat, duca di Berg, e il fratello Giuseppe, che ebbe come luogotenente dell’imperatore il comando dell’esercito inviato a Napoli, Napoleone portò a termine il suo obiettivo di conquista del regno borbonico. Unici a rimanere pericolosi erano gli inglesi che, per superiorità navale e per il predominio in Sicilia, avrebbero potuto mettere in pericolo le truppe francesi che, tuttavia, già dai principi di febbraio erano entrate, come detto, nel Regno: con quarantamila uomini comandati dal generale Massena, il 14 febbraio 1806, i francesi entravano a Napoli, dove il giorno successivo Giuseppe Bonaparte fu accolto con tutti gli onori. Preso possesso del Regno, Giuseppe si fermò a Napoli per riorganizzare il governo e agli inizi di aprile fece un primo viaggio nelle province per mostrare con quanta energia e impegno i nuovi governanti intendessero operare. 

Il riassetto dell’ordinamento statale fu l’elemento che più caratterizzò gli anni napoleonici, dando avvio ad una stagione caratterizzante per il Mezzogiorno d’Italia. Giuseppe Bonaparte, infatti, seguendo le direttive di Napoleone, avviò le prime nomine ministeriali, chiamando presso di sé, affinché si automatizzasse il più possibile l’estensione degli ordinamenti francesi, esperti funzionari francesi, ai quali vennero affiancati, per assicurare e rendere il più evidente possibile la continuità tra novità francesi e consuetudini locali, alcuni ex patrioti napoletani rifugiatisi in Francia o nel Regno d’Italia dopo il fallimento della Repubblica napoletana. Tra i funzionari francesi, fu significativa la presenza di un autorevole personaggio come Alquier, che, dopo essere stato per anni rappresentante diplomatico della Francia a Napoli, era ritenuto un buon conoscitore del contesto napoletano e in grado di suggerire anche altri nomi sui quali fare affidamento, come Giuseppe Abbamonte, Giuseppe Raffaelli, Vincenzo Cuoco, Gian Battista Gagliardi, personalità, appunto, che avevano preso parte all’esperienza repubblicana del 1799. 

Le prime nomine ministeriali di Giuseppe Bonaparte, dunque, furono accompagnate dalla preoccupazione di affidare a fedeli collaboratori, in primo luogo francesi, i posti chiave, senza, però, presentare il ritorno dei francesi come una rivincita dei giacobini o dei patrioti del 1799. Per far ciò, al di là delle urgenze immediate di approvvigionamento dell’esercito, messo a rischio dalla costante presenza inglese, era necessario determinare innanzitutto larghe basi di consenso con un progetto di riforma che avesse come modello lo Stato amministrativo francese, ma che tenesse conto della larga varietà di situazioni delle province. Per questo motivo il periodo napoleonico nel Mezzogiorno, dove vigevano consolidati particolarismi politico-istituzionali, fu un continuum di novità e adattamenti molto spesso accettati con scarso entusiasmo, soprattutto laddove le novità andassero a toccare delicati e consolidati equilibri.

La volontà di cambiamento introdotta dai francesi era intesa soprattutto a regolare, e successivamente ad eliminare, il debito pubblico; per far ciò era necessaria una nuova distribuzione del carico fiscale, una riorganizzazione del territorio e dell’amministrazione della giustizia. Un insieme di iniziative che potevano, tuttavia, essere viste come «cosa disonorevole» in sede locale, ove con ritrosia veniva accettato il fatto che l’impulso principale dell’ordine nuovo venisse dagli stranieri. I primi e fondamentali provvedimenti che furono attuati da Giuseppe Bonaparte e che rimasero alla base del nuovo Stato furono, pertanto, l’eversione della feudalità, la riforma dell’amministrazione provinciale e cittadina e l’ammodernamento del settore finanziario. Provvedimenti, questi, strettamente connessi tra loro e che, seppur poi applicati solo nel corso degli anni successivi, furono emanati quasi tutti nell’agosto del 1806, anno che rimase segno indelebile della prima, forte, cesura con le istituzioni dell’ancien régime.

Alla vigilia dell’ingresso francese nel Regno di Napoli, il regime feudale, pur se di fatto in crisi, era ancora l’assetto portante del vecchio Stato e, pertanto, la sua abolizione rappresentava la premessa necessaria per rendere uniforme l’amministrazione dei comuni e per riformare il sistema finanziario e fiscale. In effetti, il “monolito” feudale era uno scoglio arduo da superare: «gli stati territoriali […] si accorpano tra Quattrocento e Cinquecento, sono investiti da processi di trasformazione tra XVI e XVII secolo, ma la loro connotazione più importante è la coesistenza tra vecchio e nuovo fino all’eversione della feudalità nel 1806 e anche oltre». 

La nuova amministrazione francese provvide subito ad abolire la feudalità con la legge del 2 agosto 1806, che proclamava: «La feudalità con tutte le sue attribuzioni resta abolita. Tutte le giurisdizioni sinora baronali, e i proventi qualunque che vi siano stati annessi, sono reintegrati alla sovranità, dalla quale saranno inseparabili».

Nella compagine meridionale, dunque, i beneficiari della grande riforma furono borghesi di varia estrazione, purché capaci di inserirsi nel macchinoso meccanismo statale e di sfruttare le occasioni che si prospettavano. Si determinò, così, un amalgama tra nobiltà di antico regime e nobiltà nuova di origine borghese, fornita di notevoli ricchezze; tale amalgama di ricchezza e nobiltà, suffragò il proprio status economico con cariche pubbliche, alle quali proprio il requisito economico garantiva l’accesso. Ne derivò che dopo il 1806, anno in cui venne promulgata la legge che aboliva la feudalità, si andasse configurando una società i cui valori primari divennero la proprietà fondiaria, la ricchezza, la gerarchia degli uffici.

Con la legge dell’8 agosto 1806 si provvedeva, poi, alla ripartizione del territorio in tredici province ed alla loro suddivisione in distretti aventi ognuno una «capitale», mentre con la legge dell’8 novembre 1806 venivano abolite le vecchie contribuzioni e sostituite con l’imposta fondiaria, principale e quasi unica imposta diretta, riscossa con criteri di certezza e stabilità sulla base di catasti geometrici già esistenti in Lombardia e così avviati rapidamente anche nel Mezzogiorno. Tale catasto fondiario, per il quale in tutta fretta si prepararono gli stati di sezione, che servirono poi di base al catasto descrittivo, portò in molti casi a divisioni erronee, determinando in alcune aree non pochi problemi nella riscossione del tributo. Il principio dell’imposta unica, calcolata sul prodotto netto dei terreni in base alla loro rendita, calcolata a sua volta in base ai proventi degli ultimi dieci anni, inoltre, non poté essere applicato in via esclusiva: infatti, per far fronte alle spese crescenti dell’amministrazione e dell’esercito fu necessario mantenere molte contribuzioni indirette. 

Di non minore rilievo fu il nuovo assetto dell’amministrazione provinciale e comunale. In particolare, innovazione fondamentale fu la netta separazione dell’amministrazione civile dal potere giudiziario, la cui confusione aveva in passato reso spesso ingovernabili le realtà locali. Nel Mezzogiorno, a capo delle province fu introdotta la figura chiave dell’Intendente, scelto talvolta tra «militari per le particolari difficoltà di ordine pubblico», vero e proprio intermediario fra realtà locale e governo centrale. Tale innovazione andava ad inserirsi in un contesto in cui esisteva una pregressa situazione di disordine amministrativo alla quale occorreva provvedere: non a caso, infatti, diversi intellettuali, ed in particolar modo Giuseppe Zurlo, avevano criticato l’incapacità degli organi collegiali e giudiziari, insediati nella capitale e gravati dalla grossa mole di lavoro, affermando, altresì, che con il sistema vigente non si riusciva ad assicurare «la buona elezione degli amministratori».

La legge dell’8 agosto 1806, con l’istituzione delle Intendenze e il riordinamento dell’amministrazione comunale e provinciale, pose fine a questa situazione e “liquidò” la Camera della Sommaria, organo amministrativo, giurisdizionale e consultivo dell’antico regime, che, a parere proprio dello Zurlo, era ormai da tempo arcaica e inefficiente nella sorveglianza delle elezioni dei sindaci e delle istituzioni. Così, grazie alla formazione della fitta rete legislativa comunale e provinciale, che ebbe come base decisionale i consigli, si poté andare sempre più verso una più netta difesa della collettività.

Fin dall’inizio, come già accennato, l’amministrazione periferica fu affidata in prevalenza a funzionari napoletani scelti tra elementi fidati, anche se già coinvolti nella Rivoluzione del 1799, ma significativa fu anche la presenza di militari e generali francesi nell’impianto della nuova amministrazione civile. Anche quando le Intendenze cominciarono a funzionare con sufficiente regolarità, non furono rari i conflitti con le autorità militari, che, in un regime più o meno di occupazione e di fronte alla minaccia di sbarchi inglesi ed al dilagare del brigantaggio, conservavano un potere rilevante.

L'intendente era subordinato al Ministro dell'Interno, esercitava l'amministrazione attiva e di tutela sui Comuni, era funzionario di polizia, disponeva della guardia provinciale e dell'esercito. Alla diretta dipendenza dell'intendente era il segretariato, a sua volta suddiviso in vari uffici che trattavano di affari interni, dell'amministrazione provinciale e dei lavori pubblici, dell'amministrazione comunale, di polizia generale, di guerra e marina, di finanze e contabilità, di giustizia e di affari ecclesiastici.

Nella nuova struttura organizzativa dell’amministrazione pubblica gli Intendenti furono posti a capo delle province del Regno, con compiti molto delicati, come il controllo della vita locale, dall’istruzione pubblica alla polizia, alla vigilanza sui Comuni. Essi dovevano avere cura di pubblicare le leggi e i decreti reali assicurandone l’adempimento; erano autorizzati a disporre, per l’esercizio delle proprie funzioni, della forza provinciale e, nel bisogno, di quella militare. Avevano, inoltre, il dovere di compiere ogni due anni la visita alle province «al fine di conoscere e proporre al Governo i mezzi di promuoverne la prosperità».

Per quanto riguardò l’organizzazione degli uffici delle Intendenze, non fu agevole trovare un manipolo di uomini destinato a dirigerli e, salvo qualche eccezione, le scelte caddero su personalità di rilievo e sempre con precedenti rivoluzionari. Ad esempio, Raimondo di Gennaro, Intendente della provincia di Napoli, era già stato rappresentante del sedile di Porto, quindi componente il Governo provvisorio della Repubblica e del Comitato dell’Interno. O ancora, Francesco Conforti, impegnato nell’organizzazione delle poste e in talune direttive del ministro dell’Interno, che aveva fatto parte della Commissione Legislativa. Anche Giuseppe Poerio, affermatosi come avvocato ed esponente del gruppo liberal-costituzionale, aveva fatto le sue prime esperienze amministrative e militari durante la Repubblica del 1799: nominato Intendente di Capitanata, implicato in un processo, gli fu revocata la carica durante la visita di Giuseppe Bonaparte nelle province pugliesi nell’aprile del 1807. Assolto in seguito, il Poerio sarebbe stato chiamato a far parte del Consiglio di Stato ed a svolgere importanti missioni. Pietro de Sterlich, dei marchesi di Cervignano, di formazione illuministica, era stato con il gruppo più rappresentativo dei riformatori napoletani degli ultimi anni del Settecento e preposto all’organizzazione dipartimentale su sollecitazione del generale Duhesme. Dalle file dell’esercito provenivano, poi, altri tre intendenti, Dionisio Corso, Vincenzo Palumbo e Giacomo Mazas: di questi, solo Mazas conservò la carica per quasi tutto il decennio napoleonico, mentre gli altri due, in seguito, sarebbero tornati nelle file dell’esercito. Gian Battista Ricciardi, destinato a Bari, fu sostituito, assieme al Sottintendente di Barletta, dopo il già citato viaggio di Giuseppe Bonaparte.

Tre furono i compiti essenziali, come detto, tra le molteplici funzioni attribuite alle Intendenze: la polizia e l’ordine pubblico, l’amministrazione civile e l’amministrazione finanziaria. «Lo sforzo di garantire dei rapporti efficienti fra il centro e la periferia […] conciliando l’autonomia e l’adeguata articolazione dell’amministrazione col più rigoroso centralismo è evidente, oltre che nel testo della legge», nelle istruzioni che il ministro dell’Interno Miot emanò nell’ottobre del 1806. In tale testo si stabiliva, infatti, «un assetto amministrativo fortemente gerarchizzato e centralizzato […] Il ruolo di fare da cerniera fra centro e periferia affidato alle Intendenze era delicatissimo, e per nulla meccanico. Si trattava, infatti, di operare una mediazione adeguata fra il primo governo centrale del Regno a carattere borghese e le amministrazioni comunali».

Il primato della nuova amministrazione non significò, tuttavia, unicamente il distacco dall’amministrazione precedente e la conseguente istituzione di nuovi apparati, ma anche, e soprattutto, la definizione di nuove funzioni, di nuovi compiti e uffici. 

Problemi gravi e spesso insolubili si presentarono quando si dovettero riempire i quadri intermedi dell'amministrazione e, soprattutto, quando si dovettero costruire ex novo le amministrazioni comunali. Il reclutamento del personale, che doveva essere omogeneamente presente sul territorio, fu, infatti, molto spesso faticoso e non meno la liberazione delle relazioni sociali dalle vecchie pratiche di governo. Gli attriti e le difficoltà che attraversarono il decennio napoleonico dipesero, sostanzialmente, dalla convivenza di aspetti militari/repressivi con quelli amministrativi/legislativi e dalla presenza, nel campo dell’amministrazione, non solo di amministratori, ma anche di militari che tendevano, con l’esercizio della pubblica autorità, ad agire con i modi della repressione nei confronti soprattutto degli ordini religiosi regolari e della feudalità, ovvero di quegli istituiti che più avevano contribuito a disciplinare e inquadrare, nell’antico regime, l’intera società meridionale.

I risultati amministrativi che si ottennero con tali modifiche furono tali che, nel 1815, quando Ferdinando IV tornò sul trono, si astenne da ogni atto di ostilità nei confronti di chi aveva servito i due Napoleonidi, evitando, in tal modo, di dare un carattere “traumatico” al cambiamento, che, dunque, se pure ci fu, non risulta essere stato nella forma di epurazione dei funzionari murattiani. Infatti, coloro che si trovarono a esaminare ciascuno dei settori in cui era stato suddiviso lo Stato ebbero modo di apprezzare la razionalità dell’impianto e, soprattutto, le mire di normalizzazione che avevano guidato le autorità francesi.

Quando, nel 1808 Gioacchino Murat salì sul trono come successore di Giuseppe, a cui fu concesso da Napoleone il trono spagnolo, sembrò che la linea da seguire fosse quella tracciata dalla costituzione di Baiona: attraverso l’istituzione di un Parlamento nazionale avrebbe potuto ampliare il sostegno al nuovo ordine e consentirgli la costituzione di una classe governativa capace di contribuire in modo determinante all’amministrazione del territorio. Il nuovo sovrano, infatti, per raggiungere tale scopo, se da un lato promosse i maggiorascati per accelerare la nascita di una nuova nobiltà, dall’altro, privilegiò nella costituzione del governo il personale locale, a discapito di quello francese. Sin dai primi mesi del 1809, quindi, vennero indicate le modalità di formazione dei collegi dei commercianti e dei possidenti e, allo stesso tempo, il ministro degli interni Zurlo si occupò di individuare nelle province gli eleggibili. La politica intrapresa da Murat indusse Napoleone ad intervenire. Il sovrano impedì l’avvio dei lavori, annullando il disposto del reggente riguardo la naturalizzazione napoletana di tutti i funzionari francesi in servizio nel suo regno. I rapporti tra i due furono abbastanza controversi. Da qui l’insofferenza di Murat per il blocco continentale, che sacrificava gli interessi commerciali del Regno napoletano, il disappunto nei confronti dell’Imperatore per il mancato sostegno nell’impresa in Sicilia e l’insofferenza per il rigido controllo dei funzionari francesi sul suo operato. Il nuovo re risultò essere l’oggetto di contesa tra chi da un lato sosteneva la stretta dipendenza da Napoleone per affermare l’identità politica del Regno e, dall’altro, chi sosteneva l’alleanza con la Francia, ma negava la subordinazione ad essa. Tra l’estate e l’autunno del 1810 Napoleone rese più rigido il blocco continentale e proprio a metà dello stesso anno iniziarono a vedersi nel Regno di Napoli i primi risultati delle riforme avviate da Giuseppe e continuate da Gioacchino: venne domato il brigantaggio; Zurlo portò avanti le leggi antifeudali e si occupò di controllare l’amministrazione e le finanze dei comuni; vennero rafforzati i quadri della magistratura e la riforma giudiziaria, fu controllato il clero; venne promossa la statistica murattiana per valutare le condizioni del Regno e vennero istituite in ogni provincia le società economiche. Forte del sostegno di quanti volevano l’indipendenza dall’Impero, mostrandosi come «il re dei napoletani», Murat potè avviare un contenzioso nei confronti di Napoleone resosi ancora più duro in seguito agli esiti della campagna di Russia (fine 1812) che lo convinsero, ritirandosi dalla guerra, ad opporsi alle richieste di aiuti da parte del cognato, in vista della ripresa delle ostilità in Germania. Murat entrò segretamente in contatto con l’Austria e l’Inghilterra. Tale atteggiamento gli fu suggerito dalla situazione politica che si era venuta a creare nel Regno, dove, in sua assenza, gli inglesi avevano favorito in Calabria e negli Abruzzi la nascita di focolai di dissidenza. Il re, quindi, a metà del 1813 in seguito ad alcuni episodi di insubordinazione che avevano mostrato una stretta collaborazione tra gli inglesi e alcuni gruppi di carbonari, fu persuaso a servirsi di tale società come sostegno al suo trono. Suggerì la scelta del coinvolgimento delle associazioni segrete nei nuovi indirizzi di governo il fatto che, essendo il regno minacciato dagli anglo-siculi e dovendo egli assentarsi da Napoli, era necessario coinvolgere quanti, pur favorevoli alla costituzionalizzazione del potere di Francia, fossero disposti ad opporsi agli inglesi e a negare qualsiasi compromesso con i Borbone. L’accordo con questa società fu oneroso per Murat in quanto prevedeva che il sovrano non ostacolasse i carbonari, rappresentanti i patrioti del 1799, che appoggiavano la monarchia costituzionale, ma, al tempo stesso, bramavano la democratizzazione della vita politica; in cambio, essi promisero aiuti contro la minaccia sicula. Quando Murat fece ritorno in Italia, dopo la sconfitta in Germania, non ebbe la possibilità di opporsi alla politica estera emersa nel regno durante la sua assenza, dove, grazie alla repressione di una congiura borbonica a danno di Zurlo e dei ministri francesi, emerse il gruppo di coloro che premevano per l’indipendenza nazionale . Di qui il voltafaccia di Murat nei confronti di Napoleone che aggravò la situazione in cui si trovava l’Imperatore, impegnato a fronteggiare gli eserciti coalizzati che entravano in Francia. Infatti, avendo già perso la Spagna, il Regno di Vestfalia e il Granducato di Berg, venuto meno anche il sostegno della borghesia francese, Bonaparte fu costretto ad abdicare nell’aprile del 1814 e a ritirarsi in esilio.

In questa situazione, si aprì il Congresso di Vienna allo scopo di dare all’Europa una sistemazione territoriale e politica che liquidasse per sempre l’eredità della rivoluzione francese e assicurasse una pace durevole, secondo le ideologie affermatesi durante le guerre anti napoleoniche. Murat, temendo di non poter riavere il trono di Napoli, che, secondo quanto stabilito a Vienna, sarebbe tornato al legittimo re Ferdinando IV, si alleò con il cognato che, approfittando della situazione di delusione generata dal ritorno dei Borbone in Francia, abbandonò l’Isola d’Elba per riprendere la strada della conquista del potere. Gioacchino denunciò l’inaffidabilità dell’Austria e, prima che Napoleone giungesse a Parigi, le dichiarò guerra (18 marzo 1815). Ciò perché riteneva che solo facendosi trovare in armi nella Penisola e vincitore degli austriaci, avrebbe potuto contrattare in una posizione di forza con Napoleone ed ottenere il titolo di re d’Italia. Invadendo Roma, le Marche e la Romagna, a Rimini, il 30 marzo del 1815, lanciò il notissimo Proclama agli italiani, nel quale promise all’Italia unità, indipendenza e una nuova costituzione sotto il suo scettro, per ricondurla al fianco della Francia napoleonica. Le speranze fallirono. Le forze austriache lo annientarono nella battaglia di Tolentino, nel maggio del 1815. Il giorno successivo fu costretto a firmare l’armistizio di Casalanza che pose definitivamente fine al sogno murattiano di unificare l’intera Penisola sotto il suo nome. La sconfitta di Murat, che anticipò di qualche settimana quella di Napoleone (Waterloo, giugno 1815), segnò la fine della lunga stagione rivoluzionaria e la restaurazione di modelli istituzionali e culturali dell’ antico regime.


giovedì 10 febbraio 2022

La Basilicata contemporanea. 42. Il massacro di Kindu e Nicola Stigliani di Potenza (Leonardo Pisani)

In occasione del 55° anniversario dell’Eccidio di Kindu, il Sergente Maggiore Nicola Stigliani, caduto nell’ex Congo belga mentre partecipava ad una missione che l’Aeronautica Militare stava compiendo per conto dell’ONU, si è ricongiunto quest’oggi ai suoi commilitoni, a distanza di cinquantacinque anni dalla tragedia. Dal 11 novembre 2016, l’Elettromeccanico di Bordo della 46ª Brigata Aerea riposa presso il Sacrario di Kindu, a Pisa, nel tempio che proprio in memoria dei Tredici Caduti dell'11 Novembre 1961 fu eretto in seguito ad una sottoscrizione popolare.

Per espressa volontà della famiglia, la Medaglia d'Oro al Valore alla Memoria Nicola Stigliani, è stato infatti traslato a Pisa dal cimitero di Potenza, dove ha riposato per tutti questi anni, affinchè si riunisse ai suoi colleghi, tutti accomunati dallo stesso tragico destino mentre compivano il loro dovere al servizio del Paese. 

Stigliani era l’unico di quei sfortunati militari trucidati ad essere sepolto nella sua città. La madre lo voleva a Potenza, e lì è rimasto per volontà dei fratelli sino alla morte della madre , che fece intervenire Emilio Colombo per avere la salma del giovane figlio a Potenza. Era l’11 novembre 1961 e fu  chiamato l’eccidio di Kindu per la crudeltà con cui fu commesso e per il nome della località dove avvenne, nell’ex Congo belga, dove furono trucidati tredici aviatori italiani, facenti parte del contingente dell’Operazione delle Nazioni Unite in Congo inviato a ristabilire l’ordine nel paese sconvolto dalla guerra civile.

I tredici militari italiani formavano gli equipaggi di due C-119, bimotori da trasporto della 46ª Aerobrigata di stanza a Pisa. Tra le vittime anche un giovane lucano  Nicola Stigliani, sergente Maggiore montatore, nato a Potenza  il 31 maggio 1931; aveva 30 anni all’epoca.

Un massacro efferato, che suscitò indignazione in Italia, poiché fu “silenziato” dai mass media anche italiani, che diedero notizia solo dopo una settimana, e dalla assurda cautela nel dare notizie sia da parte del governo di Brazzaville, che da parte della stessa Onu e soprattutto dalle false notizie che da parte del sedicente colonnello” congolese Pakassa che con ignominia affermava che i 13 italiani della missione di pace fossero vivi. Il riconoscimento di queste innocenti vittime anche da parte italiana fu tardivo; solo nel 1994 fu riconosciuta alla loro memoria la Medaglia d’Oro al Valore Militare; solo nel 2007 i parenti delle vittime ottennero una legge sul risarcimento. 

FONTE: https://www.talentilucani.it/congo-60-anni-fa-il-massacro-di-kindu-tra-le-vittime-il-lucano-nicola-stigliani/?fbclid=IwAR1LeRo5RTXuV1PnwP2lEtF_PAXwBH_iNiUffmxmTEtt_vfAnaTRr_D2akE

giovedì 3 febbraio 2022

Paesi lucani. 64. La chiesa madre dei SS. Pietro e Paolo a Montescaglioso

 

La forte presenza del clero nella città di Montescaglioso è rilevabile dalla distribuzione delle chiese nel suo tessuto urbano, soprattutto dalla Chiesa Madre dei SS. Pietro e Paolo, consacrata il 29 maggio del 1823. 

Una buona fonte per ricostruirne vicende e arredi è data da una relazione di Domenico Gatti del 1825, conservata in loco in copia dattiloscritta presso l'Istituto "Monsignor Raffaello Delle Nocche", e da una perizia, svolta nel 1857 dall'architetto Nicola Cavallo, per un progetto di restauro.
In tre navate, la chiesa presenta uno stile tardobarocco con poca policromia e decorazioni in stucco, specie nei capitelli ionico-corinzi, mentre la calotta della cupola risulta decorata, secondo la documentazione da una ignota maestranza milanese.
Di scuola napoletana è l'altare in marmo policromo, che risulta ispirato ad un "modello sammartiniano" (per citare le parole della storica dell'arte lucana Anna Grelle Iusco), come si vede dalla qualità dell'intaglio e dalla presenza dei putti capoaltare.








Le perle lucane. 3. Lagopesole

«Lo stile somiglia a quello di Castel del Monte presso Andria, ma tranne pochi ornamenti alle finestre, archi di porta e cornicioni non esis...