giovedì 30 maggio 2019

Materiali didattici. 43. La struttura del "Saggio bibliografico sulla Basilicata" di S. De Pilato

L'opera, pubblicata a Potenza, per i Tipi Garramone e Marchesiello, nel 1914, dedicata a Giustino Fortunato, presenta la seguente struttura:

AL LETTORE (pp. V-XVII), datata maggio 1914.
I. Pubblicazioni e manoscritti che si riferiscono direttamente ed indirettamente alla Basilicata con richiami bibliografici sussidiari (pp. 3-144, per un totale di 785 record).
II. Cenni sui Basilicatesi più degni di ricordo con richiami bibliografici (pp. 147-174). Divisi in:

ARTISTI (pp. 150-152)
ECCLESIASTICI (pp. 152-158)
FILOSOFI e TEOLOGI (ppp. 158-159)
GIURISTI, AVVOCATI e MAGISTRATI (pp. 159-163)
MILITARI (pp. 163-164)
POETI e LETTERATI (pp. 164-165)
SCIENZIATI, MEDICI, CHIRURGI ecc. (pp. 166-169)
STORICI, PUBBLICISTI ecc. (pp. 169-170)
UOMINI POLITICI, PATRIOTI e FILANTROPI (pp. 170-174).

III. Appunti di bibliografia complementare (pp. 177-184). Divisi in:
Feudi, demani e simili (pp. 177-178); La Repubblica partenopea, reazioni, G. Murat (pp. 178-180); Normanni, svevi, angioini (pp. 180-182); Questione meridionale (pp. 182-184).  

giovedì 23 maggio 2019

La Basilicata moderna. 32. Archeologi e archeologia nell'Ottocento lucano

Nel corso dell'Ottocento lucano di particolare interesse risulta la normativa inerente gli scavi archeologici. Essa data a partire dal decreto n. 86 del 15 febbraio 1808, con il quale Giuseppe Bonaparte regolamentava la materia:

ART. I. È permesso ad ognuno d’intraprendere le ricerche de’ monumenti antichi nelle terre private, ma colle limitazioni, e condizioni espresse nel presente decreto.
2. Se ne farà precedentemente la petizione al nostro Ministro dell’interno, descrivendo con determinate misure il sito, che si vuol cavare, e la licenza sarà accordata purché non si tocchino, né mettano in pericolo i monumenti ragguardevoli, come sono i tempj, le basiliche, gli anfiteatri, i ginnasj, le mura di città distrutte, gli acquedotti, ed i mausolei di nobile architettura.
3. Nel caso che le terre, dove si dovranno fare le ricerche, non fossero proprie del ricercatore, dovrà somministrare la pruova del consenso accordato dal proprietario, e delle indennità stipulate.
4. La licenza sarà accordata, comunicandola agl’intendenti delle provincie, ed al direttore generale degli scavi, il quale incaricherà persona di sua fiducia, per in vigilare sulla esecuzione delle dette condizioni, e far nota del risultato delle ricerche.
5. Questi rapporti saranno inviati in ogni fine di mese al Ministro dell’interno, e partecipati all’Accademia di storia, ed antichità, la quale determinerà gli oggetti, che rimarranno alla libera disposizione de’ proprietarj, e quelli che per la loro eccellenza si dovranno riguardare come conducenti alla istruzione, ed al decoro nazionale. 
6. In questo secondo caso l’Accademia ne farà rapporto, per determinarci a farne l’acquisto per gli (sic) Reali Musei, o a prendere le opportune precauzioni, perché non si disperdano, né sieno, contravvenendo al nostro decreto de’ 7 aprile 1807, estratti fuori del regno.
7. Le disposizioni contenute così in questo decreto, come in quello poco anzi accennato de’ 7 aprile 1807, dovranno esattamente osservarsi sotto la pena della confisca di quel che si troverà negli scavi, che si faranno senza licenza, e di ciò che si tenti estrarre dal regno, senza nostro permesso.
8. Il nostro Ministro dell’interno prenderà a tempo opportuno i nostri ordini perché ne’ reali collegj si stabiliscano i pubblici depositi di quei monumenti, che non si destineranno pei musei di Napoli. 
9. I nostri Ministri delle finanze, della polizia, e dell’interno, per quanto si contiene nelle loro attribuzioni, sono incaricati della esecuzione del presente decreto.
Firmato GIUSEPPE 
Da parte del Re
Il Segretario di Stato, firmato F. RICCIARDI

Notevole, fu nell’ambito del rispetto di tale regolamentazione degli scavi anche sul territorio della provincia di Basilicata, un rapporto trasmesso l’8 agosto del 1814 dal funzionario Giuseppe de Stefano all’Intendente di Basilicata, nel quale si rendicontava il ritrovamento, tra altri reperti, di «una corona, o sia una ghirlanda d’oro al peso di un rotolo e due once», sulla quale erano «pampini, uve, e sei geni alati di uno straordinario disegno». Scoperta dal colonnello Diodato Sponsa di Avigliano, successivamente la corona fu venduta sul mercato di Napoli e, quindi, acquistata da Carolina Bonaparte Murat.
Nel primo decennio del successivo governo borbonico, con il regio decreto del 20 giugno 1821, tale competenza venne assegnata al Ministero della Real casa. La legge 10 gennaio 1817 (art. 3), la cosiddetta “legge organica” delle Segreterie e Ministeri di Stato, menziona, poi, la Real segreteria della casa reale da un punto di vista meramente negativo, perché «non riguardando che gli oggetti e gli interessi particolari della real casa e famiglia, de' siti reali, e de' nostri ordini cavallereschi». Col r.d. n. 64, del 20 giugno 1821, ne furono fissate le attribuzioni, tra le quali gli scavi d'antichità. Ciò perché, come lo stesso decreto riportava in premessa, era necessaria un’opera di centralizzazione delle attribuzioni inerenti gli oggetti «confidati» alla Real Segreteria.
Il r. d. 14 maggio 1822 vietava gli scavi di antichità senza autorizzazione governativa e, con r. d. 29 settembre 1824, si disponeva, per evitare trafugamenti, che essi fossero sorvegliati dal sindaco, dall'incaricato del direttore del Real Museo e da agenti di polizia. Così, infatti, scriveva il Ministro della Polizia Generale, Intonti, in una lettera circolare agli Intendenti:

La real segreteria e ministero di stato di casa reale mi ha comunicato la determinazione Sovrana, che da ogg’innanzi gli scavi di antichità sieno sorvegliati non solo dal sindaco comunale, e dall’incaricato del direttore del Real Museo Borbonico, giusta l’art. 2° del real decreto de’ 14 maggio 1822, ma eziandio dagli agenti di polizia, nei quali si abbia una fiducia maggiore; imponendosi loro sotto la più stretta responsabilità d’investigare, e vigilare tutte le operazioni de’ ricercatori di antichità, ed aver cura particolare, che non si nascondano, né s’involino gli oggetti trovati; ma che se ne faccia, e rimetta la nota per mezzo del sindaco all’Intendente della provincia, eseguendosi per tutt’altro quanto contiensi nel citato real decreto de’ 14 maggio 1822. I motivi che hanno indotto Sua Maestà a prescrivere le norme indicate, derivano dall’essersi conosciuto, che i ricercatori di oggetti antichi eseguiscono degli scavi senza Sovrano permesso, e che altri dopo averlo ottenuto, trasgrediscono il sudetto real decreto de’ 14 maggio 1822, vendendo ed asportando furtivamente gli oggetti rinvenuti. 
(Decreto n. 42 (29 settembre 1824), in G. MALERBA, Le tre leggi del 12 dicembre 1816, 21 e 25 marzo 1817 fondamentali dell'amministrativo sistema del Regno delle Due Sicilie, Napoli 1843, vol. 4, p. 355).

La documentazione archivistica testimonia, nel primo trentennio dell’Ottocento, un’intensa attività di scavi, anche se soprattutto abusivi, in particolar modo nelle subaree di Marsico Nuovo, Santarcangelo, Anzi e Pomarico. Le ricerche costituivano un redditizio lavoro, soprattutto per i «cavatori di antichità» di Anzi, ottimamente pagati ed impegnati in scavi abusivi per il mercato d’arte: alcuni risultano promossi addirittura da ecclesiastici, come nel caso degli scavi organizzati dal sacerdote Vincenzo Fella e dal frate Daniele Mazzei, o persino autorizzati dal Ministero dell’Interno. Tuttavia non erano infrequenti le convenzioni di scavo nel pieno rispetto dell’art. 3 della legge 86/1808, come già avviato dal notaio Vincenzo Ambrosino, nel 1814 e nel 1815.
La soppressione del Ministero della Real Casa era, intanto, infine disposta da Ferdinando II, con il r. d. 9 settembre 1832: la gestione degli scavi, dunque, fu affidata all’Amministrazione della Real Casa. I musei, antichità e belle arti furono, con r. d. 6 marzo 1848, poi, ulteriormente trasferiti al Ministero della pubblica istruzione; e con r. d. 17 gennaio 1852 restituiti definitivamente alla Soprintendenza della Casa Reale.
Si può facilmente immaginare che, malgrado le disposizioni del Governo, gli interventi affidati caso per caso ad autorità locali, che, quand’anche fossero state animate da zelo ed imparzialità, non potevano certo avere una competenza specifica in cose d'arte e di storia, siano spesso mancati e che, specie nei centri minori e più lontani dalle città, molto sia andato irreparabilmente perduto.
Il tramutolese Andrea Lombardi, negli anni Quaranta, in qualità di Intendente, ebbe a scrivere sui rinvenimenti di Anzi, ritenuta «ormai classica per i tanti e sì svariati oggetti di antichità che essa fornisce». Si ritiene utile riportare in extenso la “cronistoria” degli scavi fatta dal Lombardi:

Prodigioso è il numero de’ sepolcri che si sono scavati nel suolo dell’odierno comune di Anzi e nelle sue adiacenze. Da quel feracissimo terreno nello spazio di sei lustri e più si sono tratti infiniti vasi fittili, e molti di sommo pregio. Non poche reliquie di edifizi si sono ancora rinvenute in quel territorio, e qualche raro marmo letterato vi si è anche scoperto. […] Gli scavi ebbero principio in Anzi nel 1797, ed il primo sepolcro fu scoperto da un tal Giuliano Garramone nella contrada denominata li Pastini. Esisteva alla profondità di cinque palmi, e conteneva molti vasi figurati, che furono acquistati dal Governo, tra’ quali uno a campana di ottima patina e di eccellente pennello. Le contrade la Raia, la Potente, l’Avellana, e S. Caterina hanno somministrato una maggior quantità di sepolcri. […]. Sono degni di essere ricordati circa cento sepolcri, che si scavarono pochi anni addietro nel luogo detto Coste di S. Maria al nord dell’abitato, e che fornirono oggetti pregevolissimi, cioè vasi presso che tutti nolani e molti siculi istoriati, ed alcuni con greche iscrizioni, ottimi bronzi, vasetti di cristallo benché rari, e qualche ornamento di oro e di argento. Meritano similmente di essere rammentati e brevemente descritti due sepolcri, che furono scoperti ultimamente dal sig. Giuseppe de Stefano dello stesso comune. Il primo era distante da quello circa cinquanta passi, e situato sulla nuova strada rotabile comunale. Grandi pietre di tufo costituivano la sua covertura. Si rinvenne sulle prime molta terra mista a frammenti di vasi, e questi raccolti e messi insieme, ne sortì un vaso nolano a tromba alto tre palmi, di eccellente disegno, di lucidissima vernice, con ventiquattro figure collocate in due linee, rappresentante la prima una danza, e l’altra Bellerofonte che teneva con una mano la briglia del cavallo Pegaso, ed accennava coll’altra un vecchio cui pareva che volgesse il discorso. Questo pregevole vaso donato ad un augusto personaggio, fu spedito immediatamente a Parigi. […] Il secondo sepolcro era alla distanza di un miglio circa da Anzi nel luogo detto il Varco della Regina, e profondo non meno di quaranta palmi. […] Meritano infine di essere ricordati il sepolcro discoperto in una vigna nella contrada la Raia, ove si trovò quel collo di vaso siculo assai pregiato, rappresentante la guerra di Troja, che or si conserva nella collezione del sig. Fittipaldi, l’altro sepolcro scoperto nell’Aia di S. Antonio sulla pubblica strada presso l’abitato. […] L’immensa copia de’ sepolcri e de’ vasi italo-greci, nolani, siculi ec. rinvenut’in Anzi fa giudicare con fondamento, che quivi dovessero in abbondanza fabbricarsi tali stoviglie; che vi esistessero molte officine; che gli artefici fossero del luogo, od in parte anche forestieri quivi stabiliti, e che dalle manifatture di Anzi, non che dalle altre di Armento, […] si traesse numeroso vasellame, e si smaltisse nella Lucania e nelle regioni finitime. Prodigioso, come di sopra diceva, è il numero dei vasi di ogni grandezza e forma, che ha fornito questo fertilissimo suolo. Il Museo Reale Borbonico, il Museo Santangelo, e diverse collezioni di Napoli e de’ regni esteri, abbondano di stoviglie quivi rinvenute. Se ne conservano ancora non poche dagli amatori di cose antiche in Potenza e nel resto della Basilicata, e presso che l’intiero Museo Fittipaldi di Anzi è formato da vasi ottenuti dagli scavi patri. Ricca è questa collezione e degna di essere visitata da’ cultori delle belle arti e della classica antichità. Contiene doviziosa suppellettile di vasi italo-greci, nolani, siculi, egizi, ec. tra’ quali alcuni di sommo pregio, non che molti bronzi, cristalli, terre cotte, armi, ornamenti muliebri, utensili ed altri oggetti di oro, di argento, e di rame. Il sig. Arcangelo Fittipaldi, che n’è il proprietario, dietro le mie replicate istanze, si è determinato di farne formare un’esatta descrizione e pubblicarla colle stampe unita ai disegni de’ più scelti pezzi; ed è da sperarsi, che un tale divisamento sia presto mandato a termine. Né è da tacersi che ad Anzi appartengono i più valenti ed istruiti scavatori e restauratori di vasi ch’esistano in Provincia 
(A. LOMBARDI, Discorsi accademici ed altri opuscoli, Cosenza 1840, pp. 281-285, con tagli).

Il testo del Lombardi è di rilevante importanza non solo per il quadro schematico informativo degli scavi - effettuati secondo un ordine topografico che andava dalla costa verso l'interno, seguendo le vie d'accesso tradizionali. Soprattutto, in un contesto provinciale segnato dall'assenza di controlli, il resoconto del Lombardi poneva l’accento su Giuseppe De Stefano di Anzi, che, autorizzato ufficialmente ad effettuare scavi, aveva eseguito fruttuose ricerche a Pomarico, dove i sepolcri, ben noti ai clandestini, erano pieni di ricchi corredi. Del resto, il De Stefano, come riportato dal Lombardi, si era ampiamente esercitato nella professione di «scavatore» nei sepolcreti anzesi, divenendo uno di quei «valenti ed istruiti scavatori» citati nel resoconto dell’Intendente.
In secondo luogo, emerge la figura di un notabile anzese, Arcangelo Fittipaldi, di ricca famiglia gentilizia, che durante il Decennio aveva perfezionato a Napoli, ormai trentenne, gli studi archeologici, avvalendosi certamente del De Stefano per i numerosi scavi condotti, i cui materiali aveva raccolto nel suo palazzo. La collezione, il cui inventario, allo stato, non risulta essere stato pubblicato come auspicato dal Lombardi , andò dispersa certamente subito dopo il suo arresto, nel 1850, per «eccitamento ai sudditi ed abitanti del Regno ad armarsi contro l’Autorità Reale ed armamento effettuito (sic) ad oggetto di cambiare e distruggere l’attuale legittimo Governo». In effetti il Fittipaldi, peraltro imparentato, tramite matrimonio, ad altra ricca famiglia anzese, i Pomarici, fu tradotto a Potenza come componente il Circolo Costituzionale formato da lui ad Anzi nel 1848 e vi morì il 21 dicembre 1851 mentre era ancora in attesa di giudizio.

giovedì 16 maggio 2019

Il Mezzogiorno moderno. 5. L'Intendenza

L’età napoleonica, soprattutto per il Mezzogiorno d’Italia, è, come spesso abbiamo detto nei nostri post, da considerare un significativo spartiacque caratterizzato, rispetto all’ancien régime, dall’avvio di una nuova stagione politico-istituzionale-amministrativa, che vide protagonista sul campo un’intera generazione, attivamente impegnata anche nella costruzione di un percorso di cultura e pratica politica alla base dell’articolato, ma solido, processo di formazione della stessa identità nazionale.
Una dimensione d’insieme, questa, fortemente significativa per la provincia di Basilicata che, rideterminata, nel Decennio napoleonico, nella sua veste territoriale e riconfigurata nei suoi spazi e nei suoi luoghi più alti della vita istituzionale-amministrativa, dal suo capoluogo Potenza ai capoluoghi di distretto (Matera, Lagonegro, Melfi), si andò configurando, come del resto nelle altre province, come una società i cui valori primari divennero la proprietà fondiaria, la ricchezza, la gerarchia degli uffici.
Con la legge dell’8 agosto 1806 si provvedeva, poi, alla ripartizione del territorio in tredici province ed alla loro suddivisione in distretti aventi ognuno una «capitale», mentre con la legge dell’8 novembre 1806 venivano abolite le vecchie contribuzioni e sostituite con l’imposta fondiaria, principale e quasi unica imposta diretta, riscossa con criteri di certezza e stabilità sulla base di catasti geometrici già esistenti in Lombardia e così avviati rapidamente anche nel Mezzogiorno. Tale catasto fondiario, per il quale in tutta fretta si prepararono gli stati di sezione, che servirono poi di base al catasto descrittivo, portò in molti casi a divisioni erronee, determinando in alcune aree non pochi problemi nella riscossione del tributo. Il principio dell’imposta unica, calcolata sul prodotto netto dei terreni in base alla loro rendita, calcolata a sua volta in base ai proventi degli ultimi dieci anni, inoltre, non poté essere applicato in via esclusiva: infatti, per far fronte alle spese crescenti dell’amministrazione e dell’esercito fu necessario mantenere molte contribuzioni indirette. 
Di non minore rilievo fu il nuovo assetto dell’amministrazione provinciale e comunale. In particolare, innovazione fondamentale fu la netta separazione dell’amministrazione civile dal potere giudiziario, la cui confusione aveva in passato reso spesso ingovernabili le realtà locali. Nel Mezzogiorno, a capo delle province fu introdotta la figura chiave dell’Intendente, scelto talvolta tra «militari per le particolari difficoltà di ordine pubblico», vero e proprio intermediario fra realtà locale e governo centrale. Tale innovazione andava ad inserirsi in un contesto in cui esisteva una pregressa situazione di disordine amministrativo alla quale occorreva provvedere: non a caso, infatti, diversi intellettuali, ed in particolar modo Giuseppe Zurlo, avevano criticato l’incapacità degli organi collegiali e giudiziari, insediati nella capitale e gravati dalla grossa mole di lavoro, affermando, altresì, che con il sistema vigente non si riusciva ad assicurare «la buona elezione degli amministratori».
La legge dell’8 agosto 1806, con l’istituzione delle Intendenze e il riordinamento dell’amministrazione comunale e provinciale, pose fine a questa situazione e “liquidò” la Camera della Sommaria, organo amministrativo, giurisdizionale e consultivo dell’antico regime, che, a parere proprio dello Zurlo, era ormai da tempo arcaica e inefficiente nella sorveglianza delle elezioni dei sindaci e delle istituzioni. Così, grazie alla formazione della fitta rete legislativa comunale e provinciale, che ebbe come base decisionale i consigli, si poté andare sempre più verso una più netta difesa della collettività.
Fin dall’inizio, come già accennato, l’amministrazione periferica fu affidata in prevalenza a funzionari napoletani scelti tra elementi fidati, anche se già coinvolti nella Rivoluzione del 1799, ma significativa fu anche la presenza di militari e generali francesi nell’impianto della nuova amministrazione civile. Anche quando le Intendenze cominciarono a funzionare con sufficiente regolarità, non furono rari i conflitti con le autorità militari, che, in un regime più o meno di occupazione e di fronte alla minaccia di sbarchi inglesi ed al dilagare del brigantaggio, conservavano un potere rilevante.
L'intendente era subordinato al Ministro dell'Interno, esercitava l'amministrazione attiva e di tutela sui Comuni, era funzionario di polizia, disponeva della guardia provinciale e dell'esercito. Alla diretta dipendenza dell'intendente era il segretariato, a sua volta suddiviso in vari uffici che trattavano di affari interni, dell'amministrazione provinciale e dei lavori pubblici, dell'amministrazione comunale, di polizia generale, di guerra e marina, di finanze e contabilità, di giustizia e di affari ecclesiastici.
Nella nuova struttura organizzativa dell’amministrazione pubblica gli Intendenti furono posti a capo delle province del Regno, con compiti molto delicati, come il controllo della vita locale, dall’istruzione pubblica alla polizia, alla vigilanza sui Comuni. Essi dovevano avere cura di pubblicare le leggi e i decreti reali assicurandone l’adempimento; erano autorizzati a disporre, per l’esercizio delle proprie funzioni, della forza provinciale e, nel bisogno, di quella militare. Avevano, inoltre, il dovere di compiere ogni due anni la visita alle province «al fine di conoscere e proporre al Governo i mezzi di promuoverne la prosperità».
Per quanto riguardò l’organizzazione degli uffici delle Intendenze, non fu agevole trovare un manipolo di uomini destinato a dirigerli e, salvo qualche eccezione, le scelte caddero su personalità di rilievo e sempre con precedenti rivoluzionari. Ad esempio, Raimondo di Gennaro, Intendente della provincia di Napoli, era già stato rappresentante del sedile di Porto, quindi componente il Governo provvisorio della Repubblica e del Comitato dell’Interno. O ancora, Francesco Conforti, impegnato nell’organizzazione delle poste e in talune direttive del ministro dell’Interno, che aveva fatto parte della Commissione Legislativa. 
Tre furono i compiti essenziali, come detto, tra le molteplici funzioni attribuite alle Intendenze: la polizia e l’ordine pubblico, l’amministrazione civile e l’amministrazione finanziaria. «Lo sforzo di garantire dei rapporti efficienti fra il centro e la periferia […] conciliando l’autonomia e l’adeguata articolazione dell’amministrazione col più rigoroso centralismo è evidente, oltre che nel testo della legge», nelle istruzioni che il ministro dell’Interno Miot emanò nell’ottobre del 1806. 
Il primato della nuova amministrazione non significò, tuttavia, unicamente il distacco dall’amministrazione precedente e la conseguente istituzione di nuovi apparati, ma anche, e soprattutto, la definizione di nuove funzioni, di nuovi compiti e uffici. 
Problemi gravi e spesso insolubili si presentarono quando si dovettero riempire i quadri intermedi dell'amministrazione e, soprattutto, quando si dovettero costruire ex novo le amministrazioni comunali. Il reclutamento del personale, che doveva essere omogeneamente presente sul territorio, fu, infatti, molto spesso faticoso e non meno la liberazione delle relazioni sociali dalle vecchie pratiche di governo. Gli attriti e le difficoltà che attraversarono il decennio napoleonico dipesero, sostanzialmente, dalla convivenza di aspetti militari/repressivi con quelli amministrativi/legislativi e dalla presenza, nel campo dell’amministrazione, non solo di amministratori, ma anche di militari che tendevano, con l’esercizio della pubblica autorità, ad agire con i modi della repressione nei confronti soprattutto degli ordini religiosi regolari e della feudalità, ovvero di quegli istituiti che più avevano contribuito a disciplinare e inquadrare, nell’antico regime, l’intera società meridionale.
I risultati amministrativi che si ottennero con tali modifiche furono tali che, nel 1815, quando Ferdinando IV tornò sul trono, si astenne da ogni atto di ostilità nei confronti di chi aveva servito i due Napoleonidi, evitando, in tal modo, di dare un carattere “traumatico” al cambiamento, che, dunque, se pure ci fu, non risulta essere stato nella forma di epurazione dei funzionari murattiani. Infatti, coloro che si trovarono a esaminare ciascuno dei settori in cui era stato suddiviso lo Stato ebbero modo di apprezzare la razionalità dell’impianto e, soprattutto, le mire di normalizzazione che avevano guidato le autorità francesi.

giovedì 9 maggio 2019

Il Mezzogiorno moderno. 4. La Repubblica napoletana del 1799 (Antonio Cecere)

Luigi Blanch, di parte moderata, forse il più acuto degli storici napoletani della prima metà del secolo XIX, descrisse l'impatto delle idee francesi e rivoluzionarie sugli abitanti del Regno di Napoli, che, quando conobbero «la morte del re e le persecuzioni alla religione e ai suoi ministri, acquistarono una profonda antipatia, che si poteva senza esagerazione denominare odio, per le nuove massime e pei suoi partigiani» (L. BLANCH, Il Regno di Napoli dal 1801 al 1806, in Scritti storici, a cura di B. Croce, Bari, Laterza, 1945, vol. I, pp. 291-292.). Agiva in loro un radicato sentimento di “nazionalità”, che «rappresentava il proprio modo di essere, le abitudini, i costumi e le credenze. Conservarle era indipendenza e libertà, perderle schiavitù. [...] Perciò l'invasione dei Francesi della rivoluzione dava al governo un appoggio che esso non avrebbe trovato forse contro i Francesi di Luigi XVI né contro gli Austriaci o gli Spagnuoli, che avessero invaso il regno e cambiato la dinastia».
Quando, nel novembre del 1798, dopo aver conquistato Roma e lo Stato Pontificio, l'esercito rivoluzionario invase il Regno di Napoli, «la monarchia napoletana senza che se lo aspettasse, senza che l'avesse messo nei suoi calcoli, vide da ogni parte levarsi difenditrici in suo favore le plebi di campagna e di città, che si gettarono nella guerra animose a combattere e morire per la religione e pel re, e furono denominate, allora per la prima volta, “bande della Santa Fede”» (B. CROCE, Storia del Regno di Napoli, Bari, Laterza, 1965, p. 206).
In seguito al ritiro delle truppe napoletane, guidate da Mack, il 21 dicembre 1798 la famiglia reale abbandonò la città di Napoli per fuggire verso la Sicilia: il Regno, affidato a Francesco Pignatelli in qualità di Vicario generale, rimase privo di risorse finanziarie in quanto il re, prima della fuga, aveva saccheggiato i Banchi pubblici, mentre gli stessi poteri del Vicario venivano contestati dagli Eletti della Città, i quali, sostenendo di essere i soli rappresentanti legittimi del Regno in assenza del sovrano, nominarono il 30 dicembre una “deputazione del buon governo” alla quale, tuttavia, il Vicario riconobbe soltanto la funzione di organizzare una milizia urbana. 
Il 12 gennaio 1799, intanto, Francesco Pignatelli sottoscriveva con il generale francese Championnet l’armistizio di Sparanise, con il quale cedeva la fortezza di Capua e si impegnava a donare agli avversari la somma di due milioni e mezzo di ducati: il popolo considerò troppo oneroso il peso dell’armistizio e insorse, nominando come comandanti Girolamo Pignatelli, principe di Moliterno e Lucio Caracciolo, duca di Roccaromana, mentre il Vicario, il 16 gennaio, fuggiva a sua volta verso la Sicilia. Durante la rivolta popolare furono aperte le carceri e, oltre ai detenuti comuni, furono liberati anche i “patrioti”, che subito costituirono un comitato che si mise in contatto con gli esuli al seguito di Championnet guidati da Carlo Lauberg e, contemporaneamente, riuscì a concordare un’azione congiunta con i generali del popolo Moliterno e Roccaromana.

Il generale Championnet, per aggirare le resistenze del Direttorio nei confronti di un inaspettato trionfo, aveva dichiarato che il suo ingresso a Napoli dovesse essere necessariamente preceduto dalla creazione di un governo repubblicano. Il Mezzogiorno d’Italia non rientrava nei piani del Direttorio, che invece preferiva lasciare al loro posto i sovrani vinti per poterli sfruttare finanziariamente, piuttosto che incentivare la nascita di Repubbliche con progetti di indipendenza. 
I rivoltosi si impadronirono di Castel Sant’Elmo e, il 21 gennaio 1799, proclamarono la Repubblica, fornendo così il “pretesto” richiesto da Championnet: il 23 gennaio le truppe francesi entravano a Napoli e dovettero impegnarsi a fondo per domare la resistenza; soltanto dopo tre sanguinose giornate il generale Championnet potè annunciare la vittoria al Direttorio, elogiando il comportamento valoroso dei napoletani: «nessun combattimento fu mai così ostinato, nessun quadro così orribile. I lazzaroni, questi uomini meravigliosi, quei reggimenti stranieri e napoletani scampati dall'esercito, che era fuggito innanzi a noi, chiusi in Napoli, sono degli eroi. Si combatte in tutte le strade, il terreno è disputato palmo a palmo, i lazzaroni sono comandati da capi intrepidi. Il forte di Sant'Elmo li fulmina, la terribile baionetta li atterra, essi ripiegano in ordine, tornano alla carica» (S. VITALE, Il Principe di Canosa e l'Epistola contro Pietro Colletta, Napoli, Berisio, 1969, p. 30).
Tra le cause del crollo della monarchia borbonica, oltre all’incidenza degli esuli, che avevano accumulato un patrimonio di esperienze rivoluzionarie in Francia e nell’Italia settentrionale, ci fu innanzitutto un crollo militare dei Borbone: la leva obbligatoria, infatti, aveva incontrato molte resistenze, soprattutto tra le popolazioni già colpite da carestie e, inoltre, il peso della guerra gravava soprattutto sui contadini e gli artigiani, in quanto era possibile essere esentati dalla leva dietro versamento di denaro. Le truppe avevano, d’altra parte, scarsità di armi e servizi e la cavalleria non era stata ancora organizzata ai primi di ottobre del 1798, cioè all’indomani della guerra. 
Inizialmente il potere esecutivo e il potere legislativo furono affidati al Governo provvisorio della Repubblica, nominato il 23 gennaio dallo stesso Championnet e che, composto da venticinque membri, era suddiviso in sei Comitati: comitato centrale esecutivo, comitato di legislazione, di polizia generale, comitato militare, di finanza e di amministrazione interna. Ogni progetto di legge, preparato dal Comitato competente, doveva essere sottoposto all’approvazione dell’assemblea e alla ratifica finale del generale francese.

I problemi più urgenti per il nuovo governo repubblicano furono l’abolizione della feudalità, la riforma giudiziaria e, soprattutto, la politica provinciale: tuttavia, il primo Governo provvisorio riuscì a varare una sola legge importante, quella per l'abolizione dei fidecommessi e le primogeniture (29 gennaio 1799). 
Vari e piuttosto discordi furono i pareri nel dibattito «de’ feudi», per le differenti posizioni di radicali e moderati: al gruppo radicale di Lauberg, Paribelli, Cestari si opponeva quello di Mario Pagano (sostenuto da Domenico Bisceglia e Nicola Fasulo), secondo il quale bisognava, in primo luogo, rendere retroattiva una legge che abolisse la feudalità; inoltre i titoli di proprietà feudale dovevano essere esaminati non dai tribunali ordinari, che erano più facilmente manipolabili dai potenti, ma da una commissione di sette “probi viri” ed entro un termine massimo di tre mesi, scaduto il quale i baroni venivano dichiarati decaduti, mentre per i beni per i quali avessero la legittimità del possesso sarebbero diventati di loro proprietà, soggetti ad imposta ordinaria. Il 23 febbraio Nicola D’Amico chiedeva, d’altro canto, di prendere in considerazione il sostegno della nobiltà trasformata in un soggetto politico e sociale di legittimi proprietari: d’accordo sulla totale abolizione senza indennizzo dei diritti personali, chiedeva che i diritti reali fossero convertiti in canoni. 
Il 7 marzo Giuseppe Albanese proponeva l’abolizione di tutte le istituzioni feudali, aggiungendo la proposta di attribuire ai baroni un quarto del demanio feudale e ai comuni i restanti tre quarti. Il progetto, tuttavia, si arenò in attesa della ratifica del generale Macdonald, il quale, insieme al commissario speciale Abrial, era stato inviato dal Direttorio il 25 febbraio per sostituire Championnet in seguito alla vicenda che aveva visto dapprima Championnet espellere il commissario civile Faypoult, poi l’arresto e la traduzione in Francia dello stesso Championnet e infine l’annullamento del decreto di espulsione del Faypoult. 
La legge sull’eversione della feudalità fu approvata il 25 aprile e pubblicata il giorno successivo, ma con data del 7 marzo. A causa di alcuni avvenimenti, come il rafforzamento dell’esecutivo dopo la riforma del 14 aprile di Abrial, che separava finalmente il potere legislativo - affidato ad una commissione legislativa di venticinque componenti -, da quello esecutivo, affidato invece ad una commissione esecutiva costituita da cinque componenti o come la scoperta della congiura dei Baccher, che portò il governo ad una maggiore intransigenza, il testo della legge approvata fu molto più radicale rispetto ai progetti precedenti: si attribuivano, infatti, interamente ai comuni i demani feudali, anziché per i tre quarti, ma la legge non ebbe mai un’attuazione pratica. 
Concordata l’abolizione dei diritti reali, la discussione si era accesa sul carattere dell’eversione dei demani feudali, tradizionalmente adibiti all’uso collettivo. I radicali ne sostenevano l’espropriazione senza indennità, ritenendoli illegittimi perché frutto di usurpazioni ai danni della nazione, mentre i moderati, per preservare il diritto alla proprietà privata, proponevano di riconoscere come libera proprietà quei feudi per i quali i possessori potessero fornire la prova del regolare acquisto. La speranza di attrarre le masse contadine dalla parte repubblicana e il cambiamento ai vertici delle forze occupanti determinarono lo spostamento dei patrioti su posizioni più estreme: tuttavia l’ostilità dei francesi vanificò gli effetti della legge feudale, promulgata quando già le insorgenze si andavano diffondendo, mentre il governo, già il 30 maggio, emanava un’altra legge per far rispettare la prima, ma quando ormai mancavano pochi giorni alla sua resa.
La riforma giudiziaria venne approvata il 14 maggio e prevedeva l’abolizione di tutti i vecchi tribunali, come la Camera della Sommaria, inutile dopo l’abolizione della feudalità: sull’esempio della Francia venne instaurato, invece, un nuovo sistema che distingueva rigorosamente le funzioni di polizia e quelle giudiziarie. 
Se, ovviamente, insistita era l’attenzione a riformare l’ordinamento generale della Repubblica, attenzione non minore fu dedicata, dal Governo, alle province: a pochi giorni, infatti, dalla proclamazione della Repubblica, il 26 gennaio, erano state pubblicate le Istruzioni generali del Governo provvisorio della Repubblica ai patrioti, che costituivano un vero e proprio manifesto rivoluzionario, con il quale si incitava la popolazione a sollevarsi, si invitavano i cittadini a riunirsi nelle piazze principali, a piantare l’albero della libertà e ad eleggere i nuovi governi locali, le Municipalità. Venivano date anche delle direttive sull’organizzazione amministrativa: le Municipalità dovevano essere composte da un presidente, un segretario e da sette componenti - per i centri con una popolazione inferiore alla diecimila unità -, mentre, per i centri con più di diecimila abitanti, erano previsti quindici componenti. Inoltre si assicurava l’invio di commissari nelle province per collaborare all’organizzazione delle autorità locali e a incentivare la popolazione a proclamare le municipalità, là dove queste non fossero state ancora costituite, anticipando l’intervento del governo centrale. Il commissario del governo faceva da tramite tra le Municipalità e le amministrazioni dipartimentali e rendeva esecutive le deliberazioni assunte a maggioranza dai membri delle Municipalità.
Su queste basi, le Municipalità repubblicane elette o, comunque, costituite nel corso della Repubblica napoletana, costituiscono certamente una delle dimensioni portanti della connotazione assunta, in provincia, da tale peculiare fase politico-istituzionale-amministrativa: da quelle “democratiche e popolari”, le cui rappresentanze furono di più diretta espressione “popolare”, a quelle “istituzionalmente dovute o imposte”, a quelle di “pura facciata”, la rete delle Municipalità comunque presenti nel corso della fase di repubblicanizzazione istituzionale delle province rappresentò un notevole esperimento.
Il 9 febbraio venne approvata la legge sulla divisione territoriale dei dipartimenti, revocata da Abrial, in quanto non teneva in considerazione le divisioni naturali e stravolgeva le divisioni provinciali preesistenti: la legge, infatti, elaborata da Bassal, non teneva conto, ad esempio, delle precedenti sedi di Udienze (tranne che per i casi di Cosenza, Catanzaro, L’Aquila, Salerno, Lecce), tuttavia con lo scopo, sulla carta, di legare, in una fitta rete di corrispondenze, il “corpo” del regno alla Capitale, superando l’ormai secolare divisione tra centro e periferia che, nel corso dei due secoli precedenti, era andata acuendosi e che, per la brevità dell’esperimento repubblicano e le difficoltà di comunicazione, non sarebbe stata risolta. Venne, così, ripristinata la vecchia divisione delle province, mantenendo soltanto la denominazione dei dipartimenti. Tutto questo, unitamente all’invio dei cosiddetti commissari democratizzatori, volontari che avevano il compito di aiutare il processo repubblicano in provincia, insieme al fatto che nel marzo 1799 il generale Macdonald fu costretto a nominare una commissione di tre membri, che avrebbe dovuto vigilare sullo stato delle province, testimonia le difficoltà incontrate dal governo nell’applicazione del modello rivoluzionario nelle province.
Le Municipalità repubblicane vivevano, dunque, una situazione molto precaria: nel giro di pochi giorni l’albero della libertà, piantato nelle piazze e accompagnato da una cerimonia che si concludeva con la recita del Te deum per sancire l’adesione dello stesso clero al nuovo regime, veniva abbattuto, bruciato e sostituito dalla santa croce e si celebrava nuovamente il Te deum, questa volta in onore della monarchia. 
Un altro problema della Repubblica fu quello di affrontare le insorgenze, per la maggior parte rivolte contadine che, in molti casi, non portavano al ripristino dell’antico regime: molto spesso vennero costituiti dei governi popolari propri, con i quali anche gli stessi Borbone si sarebbero confrontati. Le aree più lontane da Napoli, attraversate da contrastanti correnti rivoluzionario-moderate (come nel caso abruzzese) o controrivoluzionarie, segnarono, quindi, una sorta di “confine ideale” nel quale la Repubblica cercò di estendere il proselitismo avviato con le Istruzioni generali. Proprio dall’area più calda, la Calabria, partì l’«Armata cristiana e reale della Santa Fede» comandata dal cardinale Fabrizio Ruffo che, accortamente e con grande senso della comunicazione, riuscì a dare alle insorgenze la forma di un preciso progetto rivoluzionario, incanalandole nell’alveo della cultura legata al tradizionale culto dei santi ed alla fedeltà al re. 
Con il titolo di commissario generale nelle province e di Vicario generale, il cardinale, che aveva raggiunto i sovrani a Palermo, sbarcò a Pizzo con l’incarico di riportare i territori della Repubblica sotto il controllo dei Borbone. Per fomentare la controrivoluzione nei paesi circostanti emanò un’enciclica, abolì le imposte più gravose e impopolari, come il dazio sulla seta, e dichiarò solennemente di perdonare tutti i centri che fossero tornati spontaneamente all’obbedienza. Per provvedere al mantenimento della sua Armata il cardinale Ruffo confiscò tutti i beni dei giacobini e sequestrò i feudi di tutti coloro che avevano abbandonato i propri possedimenti.
Nell’aprile, intanto, in seguito alle sconfitte subite in Italia settentrionale ad opera degli Austro-Russi, i Francesi furono costretti a ritirarsi prima dalle province e in seguito (il 7 maggio) da Napoli. I repubblicani tentarono di difendersi da soli contro l'Armata sanfedista, ma il 13 giugno la città fu riconquistata dalle armate del cardinale Ruffo al Ponte della Maddalena. Agli ultimi repubblicani trincerati in Castel Sant'Elmo, Ruffo offrì un’«onorevole capitolazione» che, tuttavia, non venne accettata dall'ammiraglio Nelson, nel frattempo giunto a Napoli con la flotta inglese. 

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
M. BATTAGLINI, La Repubblica napoletana. Origini, nascita, struttura, Roma, Bonacci, 1992.
A. M. RAO, La Repubblica Napoletana del 1799, in Storia del Mezzogiorno, diretta da G. Galasso e R. Romeo, IV/2, Il Mezzogiorno dagli Angioini ai Borboni, Roma, Edizioni del Sole, 1986.
A. DE FRANCESCO, 1799. Una storia d'Italia, Milano, Guerini e Associati, 2004.

giovedì 2 maggio 2019

Materiali didattici. 42. Lettera del Signor Giacomo Antonio del Monaco intorno all'antica colonia di Grumento oggidi detta la Saponara

La lettera è scritta il 25 giugno del 1713 dal Giacomo Antonio del Monaco a Matteo Egizio, erudito vissuto tra la fine del Seicento e l'inizio del Settecento. Essa è considerata "di pregio" per la Biblioteca Nazionale di Potenza e racconta la storia dell'antica colonia di Grumento.
Il manoscritto si apre con una prefazione, in forma epistolare, indirizzata al Signor Abate Vincenzo Minutoli, nobile lucchese, da parte di padre Sebastiano Pauli, incaricato di informare il Signore riguardo a "notizie d'antichità". Quest'ultimo racconta di avere notizie sulla colonia di Grumento e che tali informazioni le ha apprese da una lettera di Matteo Egizio, da lui considerato " uomo colto, che oramai sa tutto il mondo".
Da qui in poi, si ha il contenuto della lettera citata nel titolo.
Nella parte iniziale, il mittente della lettera scrive di essere andato di persona sul territorio per visitare le antichità scoperte dall'arciprete Carlo Danio, riguardanti l'antica colonia di Grumento, allora conosciuta come la Saponara; decide di raccontare al meglio ciò che vede per soddisfare la dotta curiosità del suo destinatario, Matteo Egizio. Interessante sottolineare la precisione con cui Del Monaco descrive la città, partendo dalla sua collocazione, analizzando il suo passato, citando anche le diverse fonti, per arrivare a descrivere ciò che ne rimaneva.
La Saponara, per ragioni territoriali, doveva essere compresa nella provincia di Basilicata, ma sin dal tempo di Roberto il Guiscardo fu congiunta all'altra di Principato Citra. Per quanto riguarda le sue origini, la Saponara è ciò che resta dell'antica colonia di Grumento. Come testimonia uno dei marmi conservati dall'arciprete, si intende che Grumento era stata una colonia romana, che fiorì con Tiberio, ma già esistente quando Cornelio e Cecilio erano consoli nel 674 di Roma.
La sua distruzione avvenne per mano dei Saraceni e gli abitanti vissero nelle rovine della loro patria fino al pontificato di Leone VIII, quando l'arciprete Donato Leopardo trasferì il popolo in un colle, distante mezzo miglio dall'antica città, che fortificò e cosi fu fondata la Saponara.
Il nome deriverebbe da un altare di Serapide che vi era e che dal volgo viene chiamato Sapon.
Importante aspetto è la grande testimonianza archeologica data dalle rovine dell'antica città: un acquedotto, due anfiteatri, uno di forma più grande e l'altro più piccolo. Già al tempo in cui la lettera fu scritta, nel territorio, grazie alla continua coltivazione, si trovò una grande quantità di medaglie di bronzo e di argento e una volta furono ritrovati antichi cucchiai di argento. Invece, nei pressi della città, furono scoperti dei sepolcri. Di valore furono anche alcune statue e iscrizioni che fecero pensare a Grumento non solo come una colonia romana, ma una colonia militare.
Giacomo Antonio Del Monaco, infine, racconta che grazie all'arciprete dedicatosi agli scavi, si scoprì un'ampia strada che conduceva fino alle porte della città, considerata come la strada reale, maestra; essa fu costruita in modo tale che l'acqua piovana non si raccogliesse, ma scorresse lungo le estremità.