giovedì 26 aprile 2018

La Basilicata moderna. 25. Matera da città otrantina a sede di regia Udienza (Maria Pia Belfiore)

La rivolta del 1647 delle popolazioni lucane ebbe portata e mire diverse da quelle che suscitarono i moti capeggiati da Masaniello a Napoli. Nelle province, e in Basilicata in particolare, oltre che per uno straordinario sgravio fiscale, si lottava per liberarsi dall’abbraccio mortale dei baroni, sempre più esigenti e arroganti. La rivolta, che vide in Matteo Cristiano e in alcuni capopopolo come Giovanni Vinciguerra da Tricarico i suoi esponenti più in vista, assunse connotati da vera guerriglia, difficilmente controllabili da parte dell’esercito regio o dalla neonata Regia Udienza di Basilicata.
La ragione di questi spiccati caratteri assunti in Basilicata dal moto rivoluzionario è da ricercarsi essenzialmente – oltre che nelle generali condizioni di vita delle campagne meridionali – anche in rapporto al fatto che proprio in Basilicata lo Stato centrale era anche fisicamente assente, essendo questa provincia alle dipendenze delle autorità viceregali della provincia di Salerno, e nella particolare distribuzione dei centri abitati in un ambiente orograficamente accidentato, che non poco impediva gli spostamenti ed i soccorsi delle truppe contro-rivoluzionarie verso le località dove più aspro era lo scontro.
Don Pedro Alvarez de Toledo durante il lungo governo vicereale (1532-1553) conferì carattere di priorità alle riforme dell’amministrazione della giustizia, al fine di ricondurre la normalità nel paese, travagliato da innumerevoli episodi di criminalità e di malcostume nell’ambito dei rapporti sociali e amministrativi. Egli promulgò rigide prammatiche per rendere più operante l’osservanza delle leggi. Il ristabilimento della giustizia fu esteso anche alle Province: si specificarono nella “Cronologia prefissa al primo tomo delle Prammatiche” i provvedimenti riservati alla competenza dei Tribunali Provinciali. Si trattava però di un’amministrazione ugualmente centralizzata con un’Udienza che era insieme intendenza amministrativa e corte di giustizia di appello sovrapposta alle giurisdizioni feudali e locali, e tante precettorie dipendenti dalla Regia Camera della Sommaria. 
La Basilicata alla fine del Cinquecento, diversamente dalla maggior parte delle province del Regno, aveva confini incerti ed era ancora amministrativamente incardinata nel Principato Citra, rendendo oggettivamente complessa la sua gestione da parte di Napoli. Infatti, è noto che la provincia basilicatese, sebbene fosse stata un antico Giustizierato autonomo di epoca normanna, a metà Cinquecento risultava di difficile amministrazione. La Basilicata, infatti, non aveva un autonoma amministrazione e non costituiva una distinta Udienza Provinciale; sin dal 1557 da Salerno, sede della Regia Udienza di Principato Citra e di Basilicata, il suo Preside veniva rappresentato in Basilicata da un Governatore preposto di seguire regolarmente quello che avveniva nei paesi della provincia. Quest’ultimo, però, aveva serie difficoltà a raggiungere la maggior parte dei paesi che richiedevano intere giornate di cammino e impedivano al Preside di Salerno di inviare a Napoli tutte le informazioni relative alla provincia di Basilicata. 
Qui risultava più facile per i baroni usurpare funzioni giurisdizionali spettanti al potere centrale e sfuggire al controllo dei funzionari regi. E’ noto che in quel periodo arrivarono a Napoli numerose lettere accorate inviate da parte degli amministratori delle Università di Basilicata, per supplicare che si provvedesse quanto prima a reprimere gli abusi baronali, attraverso la presenza di funzionari regi che avessero la propria sede nella provincia , ed è noto quanto in Spagna si fosse consapevoli che soltanto una nuova ripartizione territoriale delle province avrebbe potuto risolvere, del tutto, la questione.
A Napoli si discusse sin dalla seconda metà del XVI secolo dell’istituzione di un’autonoma Udienza per la provincia di Basilicata. Juan de Zuniga, principe di Pietrapersia, viceré di Napoli dal 1579 al 1582, si dichiarò a favore della nascita di una nuova Udienza provinciale. L’ipotesi di una separazione tra le Udienze di Principato Citra e di Basilicata formò per due volte oggetto di una riunione del Consiglio del collaterale, il 29 maggio del 1581 e il 23 maggio del 1582. In entrambi i casi, i notabili, che pure conoscevano i risultati di un’inchiesta sull’argomento disposta dal visitatore generale Lopez de Guzman nel 1551, non arrivarono a nessuna decisione concreta. Una divisione delle due Udienze, per quanto conveniente da un punto di vista dell’amministrazione della giustizia, non risultava opportuna per gli elevati costi che avrebbero gravato sul bilancio del Viceregno.
Il nuovo viceré Ossuna, Pietro Tellèz, tra il maggio 1583 e il maggio 1593, propose, sempre in Collaterale, un compromesso che in teoria avrebbe dovuto contemperare le esigenze del fisco con quelle delle Università: la Basilicata avrebbe avuto un’Udienza, sottratta alla giurisdizione del Preside di Salerno, ma composta soltanto da un Governatore, Carlo Gambacorta, e da due Uditori. Tale decisione incontrò la protesta decisa dei togati e commercianti di Salerno, centro universitario e giurisdizionale di notevole importanza, che considerava un’onta la sottrazione della giurisdizione sulla Basilicata al suo Tribunale. e Madrid espresse a riguardo parere sfavorevole preferendo temporeggiare: l’istituzione di una nuova Udienza importa spese che Madrid non intende ancora affrontare. 
La Spagna degli anni Novanta del Cinquecento era sull’orlo del declino del proprio sistema imperiale, in particolar modo causato dalla crisi economica agricola che aveva portato all’ultima bancarotta di Filippo II nel 1596. 
La questione torna alla ribalta proprio in quell’anno, grazie a una proposta del conte di Olivares che tende a comporre in modo diverso le province del Regno, unendo i due Principati nell’Udienza di Salerno e istituendo un’autonoma Udienza di Basilicata e una di Terra di Lavoro. Le spese di funzionamento per queste sarebbero state coperte da quelle previste per l’Udienza di Principato Ultra, accompagnate da un brusco taglio dei salari dei Magistrati dell’Udienza e l’invio in Basilicata di un solo commissario-Uditore da Salerno, come delegato, per tutelare gli interessi della Corona, ma l’unica concessione fu l’ampliamento dei poteri del Governatore. Con un provvedimento dell’aprile 1624 gli si concedeva la “potestas ad modum belli”, la facoltà di comminare pene corporali e pecuniarie, di infliggre ai maschi la pena della galera, alle donne quella dellafustigazione. Un pote eccezionale che però rimaneva sotto il controllo del governo centrale. Il Governatore di Basilicata poteva, inoltre, concedere indulto a qualsiasi delinquente, previa aurtorizzazione del sovrano. 
Una situazione nuova consiglia l’istituzione dell’Udienza di Basilicata: con la Lega di Rivoli stipulata nel luglio 1635 ai danni della Spagna, si presenta il pericolo che forze francesci possano minacciare direttamente il viceregno per cui, allo scopo di difendersi contro ogni eventuale minaccia, si torna ad esaminare la possibilità di sottrarre la Basilicata al preside di Salerno e affidare l’amministrazione della giustizia e il comando militare ad un ufficiale destinato esclusivamente al governo di questa provincia e responsabile soltanto di fronte al viceré.
Il problema fu risolto soltanto da Remiro Nuñez de Guzman duca di Medina giunto viceré a Napoli nel novembre 1632, al quale le università lucane, inviarono un memoriale il 30 settembre 1639 in cui chiedevano al viceré, che aveva interessi in Lucania per aver sposato Anna Carafa, «per chiedere che l’Udienza fosse portata nella loro provincia» con ministri non soggetti al preside di Salerno. Il memoriale, cui fa riferimento la Intorcia, è sottoposto al Consiglio Collaterale che il 7 febbraio del 1640 esprime parere favorevole per l’istituenda Udienza lucana. Madrid, omettendo l’ipotesi di una fusione tra province, che unisse il Principato Citra e il Principato Ultra, ritenne valida l’ipotesi di impiantare un nuovo capoluogo e una nuova Udienza in Basilicata e, contrariamente al passato, durante la seduta del 7 febbraio 1640, concesse al Consiglio Collaterale di esprimere parere favorevole sull’istituenda Udienza di Basilicata. Il Medina Las Torres, dunque, fu quasi costretto a riconsiderare l’idea di scorporare definitivamente la Regia Udienza di Principato Citra da quella di Basilicata, per rafforzare il controllo militare sulle coste ioniche e nel basso Tirreno, nonché quello politico e fiscale nelle aree interne.
Nel giugno 1641 il Consiglio Collaterale richiese al segretario del Regno di ottenere la documentazione relativa all’Udienza che fu istituita in Basilicata solo tra il 1642 ed il 1643. Relativamente alla prima composizione di ministri che la costituirono, a seguito di un lungo iter burocratico che terminò nel 1642, il viceré, secondo una tesi risalente ai cronisti dell’epoca e ripresa pedissequamente fino a tempi recenti, «elesse Preside don Carlo Sanseverino di Chiaromonte, assegnandogli per luogo di residenza Stigliano» una città che lo stesso viceré aveva ricevuto in dote dalla moglie Anna Carafa.
 Il primo Preside della Regia Udienza di Basilicata fu, tuttavia, non il Sanseverino, avendo egli rivestito la carica successivamente e cioè negli anni 1654-1655, ma Geronimo Marques, al quale, infatti, andarono tutte le missive spedite nel 1643 dalle Segreterie del viceré, compreso “l’ordine di passare subìto a Montepeloso col Tribunale dell’Udienza”.
La Regia Udienza fu istituita in Basilicata il 17 luglio 1643 per volontà del viceré Ramiro Felipe Nuñez de Guzmàn, duca di Medina las Torres (1637-1643), già principe di Stigliano, congiuntamente con la creazione di quella dell’Abruzzo Ultra, con sede all’Aquila, per conferire un assetto più razionale alla divisione territoriale del Regno e rendervi più agile la prassi giurisdizionale.. 
La ricerca della sede per i nuovi uffici provinciali fu lunga ed estenuante, e si dovetterpo superare non poche difficoltà insorte soprattutto in quanto né i baroni, né le autorità ecclesiastiche tenevano molto alla presenza degli uffici provinciali, che, di fatto, avrebbero attenuato la loro autonomia o il loro arbitrio.
Si passò quindi da Stigliano a Montepeloso (Irsina), a Tolve, a Potenza, a Vignola, poi ancora a Montepeloso, a Potenza fino al 1657, a Vignola (dove la Regia Udienza si insediò due volte) e infine a Matera, città demaniale che, benché appartenesse all’estrema Terra d’Otranto, era lontana da Lecce, trovandosi lungo il confine della Basilicata, e in questa provincia aveva parte del proprio territorio cioè Timmari e la Refeccia:. Il viceré Gasparo Bragamonte y Guzman, conte di Peñeranda (1658-1664), da poco arrivato a Napoli, decise di adottare questa soluzione proprio approfittando del fatto che alcune contrade della città ricadevano in territorio lucano, così nel 1663 a Matera è attestato il Preside, Andrea Strambone.
Il Volpe così commenta la conclusione di questo lungo peregrinare:

“Finalmente il detto Vicerè Peneranda osservando che tutti cotesti luoghi offrivano i medesimi disagi; che per lo spazio di pressochè 23 anni non altro aveva fatto il Tribunale, che vagare di paese in paese, e che i monti, che compongono la Basilicata non offrivano un luogo atto ai comodi della vita, ed all’esattezza della giustizia, onde risiedere con decoro il Tribunale, si determinò sortire dalla Provincia. Si volse l’attenzione sulla Terra d’Otranto, finitima alla Basilicata, e si fissò sopra Matera in modo che una porzione del di lei territorio, cioè Timbari e la Refeccia, apparteneva alla Basilicata. Quindi il detto Viceré la smembrò da quella provincia, e l’unì a questa, costituendo di lei capitale. Perciocchè poi in tutte le partizioni del Regno, principiando da quella che si effettuò nel 1669, Matera andò annoverata in Basilicata” (F.P. VOLPE, Memorie storiche profane e religiose sulla Città di Matera, Matera 1818, p. 176).

Il governo spagnolo a Napoli, anche per la piega che nella provincia di Basilicata, avevano preso gli avvenimenti, ritenne di provvedere finalmente ad una sistemazione amministrativa meno labile del proprio potere decidendo di sganciare la provincia lucana dal legame amministrativo con la provincia di Salerno e di crearvi un capoluogo autonomo. Com’è noto la Basilicata si caratterizzò come epicentro della rivolta delle campagne, che da Napoli si era allora diffusa in tutto il territorio meridionale. L’inquietudine, covata per un lungo periodo dalle comunità locali, trovò l’occasione di esplodere negli anni della rivoluzione di Masaniello a Napoli nel 1647-48.
Veniva così a cadere un elemento di assenza e di disgregazione dello Stato centrale, che aveva direttamente sollecitato altre forme di autorità meno controllabili. L’istituzione del nuovo capoluogo era apparsa una vera necessità, sia per gli avvenimenti insurrezionali precedenti, sia perché si giudicò ormai non più governabile una provincia senza un suo centro amministrativo, giudiziario e di polizia.La necessità di una presenza di autorità e truppe a Matera si era sentita nei precedenti avvenimenti del 1647-1648, quando furono scomunicati e minacciati di carcere gli amministratori comunali che avevano interpretato quel movimento come la richiesta di una più giusta politica fiscale, ed avevano conseguentemente eliminato i privilegi fiscali a favore del clero locale, coperto da franchigie persino sulla gabella della farina. 
Quando nel 1663 la scelta cadde su Matera, la città quindi cessò di far parte della provincia di Terra d’Otranto e fu aggregata alla Basilicata, divenendone il capoluogo di provincia, cioè il centro politico ed amministrativo, sede della Regia Udienza Provinciale e di tutti gli altri uffici ed acquartieramenti legati a quella nuova funzione. Ciò costituì un vantaggio notevole per la città e per il suo territorio. La Basilicata veniva sempre più ad assumere un proprio volto, senza dipendere per ogni questione dalla lontana Regia Udienza di Salerno e Matera si vedeva promossa da centro periferico della Terra d’Otranto, lontano le mille miglia da Lecce, a centro più importante di una provincia che aveva accentuato la propria autonomia e che si chiamò, da allora, provincia di Basilicata o di Matera
La città di Matera era situata ai limiti estremi della Terra d’Otranto, era sempre sfuggita al pieno controllo dell’autorità regia, e sembra credibile che anche tale stato di fatto abbia avuto un peso nella decisione. Matera, inoltre, era considerata una terra cospicua, non era sottoposta al giogo baronale, superava, per numero di abitanti, qualsiasi terra in Basilicata: contava 12 mila anime, contro le 4 mila di Ferrandina e le 3 mila e 500 di Potenza. 
A ciò, si aggiunsero ragioni marcatamente militari, in relazione al ruolo bellico assunto dalle coste pugliesi durante i secoli XVI e XVII. Nella strategia generale dell’Impero, infatti, la Puglia assunse un ruolo fondamentale, soprattutto per quanto riguardava il versante adriatico, nel programma di difesa bellico contro i Turchi e contro Venezia. Già nel 1481 Matera era stata scelta come quartier generale dell’armata cristiana in vista della controffensiva organizzata per la riconquista di Otranto da parte degli Ottomani. 
Adesso, dunque, non rappresentava più una roccaforte per la provincia d’Otranto, ma il centro di raccordo politico, istituzionale, economico e militare di tutta la Basilicata. La posizione geografica di Matera, “di confine” tra più province, concorse di fatto ad offrire al suo tribunale la possibilità di esercitare la “supervisione” anche su centri urbani geopoliticamente appartenenti ad altre province, ma effettivamente poco distanti dall’Udienza. Alcune città di Terra di Bari, come ad esempio, Altamura e Santeramo, rientrarono molto spesso nella giurisdizione di Matera, tanto che in più occasioni il viceré ordinò al Preside e agli Uditori materani di intervenire in quei luoghi.
La scelta del viceré non fu gradita dai materani stessi, preoccupati per i gravami inevitabili necessari per mantenere i ministri dell’Udienza. Anche le altre Università non paiono sottoscrivere la scelta del viceré. 
Di queste lamentele si rende interprete presso il viceré, Giovanni Battista Brancaccio, preside a Matera nel 1665; ma non fu presa in considerazione la grazia invocata dai materani perché il sovrano conceda che l’Udienza di Basilicata non risieda più nella città di Matera e restano inascoltate le lamentele delle Università della provincia per l’inopportuna scelta della sede della loro Udienza.
Dando uno sguardo all’ordinamento amministrativo della provincia si rileva un fenomeno di congestione che deriva dall’accentramento di tutte le attività nel capoluogo di provincia.
Quando la Regia Udienza fu trasferita definitivamente a Matera, la città divenne oggettivo punto di riferimento per le 117 Università della provincia, accogliendo il Tribunale annesso ed i tanti rappresentanti degli uffici amministrativi e giudiziari che vi gravitavano intorno, Si assistette così ad un’intensificazione delle attività urbane per soddisfare nell’immediato le tante necessità che si verificarono.
Componevano la Regia Udienza un Preside militare, un Caporuota, due Uditori, un Fiscale, un Avvocato dei poveri, un Segretario, un Maestro di Camera, un Mastrodatti, i loro subalterni, e la squadra detta di campagna, composta di soldati a cavallo ed a piedi, comandati dal Capitano, dal Tenente e dai Caporali sotto gli ordini del Preside dell’Udienza.
Inizialmente la Ruota del Tribunale fu allogata in un’ala del vecchio convento S. Francesco dei “Minori Conventuali” in via delle Beccherie, mentre i sotterranei furono destinati a carceri. Ma presto i locali si rivelarono non idonei e si manifestarono episodi di evasioni dalle carceri non abbastanza sicure. Alla fine di ovviare a questi gravi inconvenienti il Preside d. Vincenzo dè Toledo Villar ed il Capo-ruota d. Aniello Fabbricatore fecero costruire le carceri nella vicina piazza; sopra di esse, nel Giudicato Vecchio, si era già trasferito il Tribunale.
Così nel 1740 la Ruota del Tribunale iniziò la nuova attività, “sotto il Presidiato del Sig. D. Nicola Rosso, l’Avvocazia Fiscale del Sig. D. Domenico Cito, e gli Uditorati de’ Sig. D. Nicola Lombardi, e D. Carlo Cirino”.
L’organizzazione dei servizi si disvelò subito complessa, essendo il Tribunale della Regia Udienza investito di giurisdizione diretta per la cognizione delle cause di appello e del potere di controllo e sorveglianza per la sicurezza pubblica dell’intera regione. Quest’ultima funzione d’istituto rappresentava il compito più arduo per la lontananza dal capoluogo di moltissimi comuni e soprattutto per le segrete intese tra i rappresentanti del barone e le Corti Locali, perché esse quasi sempre ratificavano supinamente gli innumerevoli atti di arbitrio e prepotenza.
Quella scelta, comunque, ebbe un certo peso nello sviluppo sociale e urbanistico di Matera. Dalla seconda metà del Seicento infatti la popolazione di Matera riprese ad aumentare, superando alla fine del Settecento le 13.000 anime; si costruirono nuovi enumerosi edifici, e le classi sociali si arricchirono di nuovi professionisti, che non furono più – come per il passato – espressione della classe dominante, ma si organizzarono come gruppo autonomo, con funzioni primarie e ben precise nell’ambito della vita locale: molti furono i professionisti immigrati, ad esempio, venuti a Matera per esercitarvi la professione di avvocato presso i Tribunali della Regia Udienza, in un peridodo in cui tra comuni, baroni e cittadini venne a ingaggiarsi una intensa attività giudiziaria, per le troppo numerose questioni legali sorte a proposito di usi civici, diritti particolari, usurpazioni, ecc..
L’aver stabilito una sede per l’Udienza della provincia non risolve i problemi che avevano indotto le Università della provincia a chiedere l’istituzione di un’autonoma Udienza di Basilicata. Perdurarono gli abusi ed i soprusi feudali che spinsero alla ribellione e al banditismo chi non nutriva alcuna fiducia nella giustizia regia e baronale.
Il Volpe scrive che tra il 1675 e il 1679 si contavano 3137 banditi.
Le popolazioni invocavano dalle autorità provvedimenti di rigore per riassicurare tranquillità alle loro famiglie, terrorizzate dagli innumerevoli atti di banditismo.
Questa situazione di illegalità fu denunciata a Bernardo Tanucci in occasione della sua venuta a Matera, quando accompagnò Carlo III per visitare la città, il 17 gennaio 1735. Il ministro fu informato delle inquietudini e degli inconvenienti accaduti nella città durante le feste per l’avvento al Trono di Carlo, l’Infante di Spagna.

Tanucci incaricò l’Avvocato Fiscale presso la Regia Udienza di Matera, Rodrigo Maria Gaudioso, di redigere un’esatta descrizione di questa provincia e di puntualizzare soprattutto le entrate Regie e l’attività dei Tribunali con i loro Ministri e salari di ciascuno. Il Gaudioso assolse con diligenza il mandato ed elaborò una relazione particolareggiata ponendo in risalto l’esosità dei tributi gravanti sulle popolazioni nonostante le loro misere condizioni economiche.
Alla stregua di questi risultati egli denunciò l’avidità dei baroni, i quali possedevano molti corpi feudali e fiscali che davano rendite da ducati fino a 5000, mentre nei paesi più poveri in luogo del versamento dei ducati si richiedevano i prodotti del suolo per ragion di terratico. Queste gravità mostrano a quali eccessi si trasportasse il potere baronale e quanto fossero inefficaci le misure del governo per reprimerlo.
In un’indagine della Rosiello emerge che le Università della provincia riconoscevano nel capoluogo un punto di riferimento e di salvaguardia, ma contemporaneamente avvertivano il vincolo di essere controllate da vicino e, più di ogni altra cosa, vedersi spesso imposte tasse eccessive.
E’ innegabile che, come avvenne per la maggior parte delle Province del Regno, Madrid intrecciasse numerosi e diretti rapporti di natura fiscale con la Regia Udienza di Matera. Le modalità attraverso le quali ciò avveniva erano generalmente le medesime: l’udienza era sollecitata esplicitamente ad inviare a Napoli una determinata somma, molto spesso enorme rispetto alle possibilità della provincia. Nella maggior parte dei casi si trattava – com’è noto – di denaro destinato a far fronte alle imprese militari e alle spese straordinarie dell’Impero. Sul piano più generale, soprattutto negli anni a cavallo tra i secoli XVII e XVIII il governo cittadino ebbe modo di costatare che la presenza dell’Udienza a Matera non rappresentava il temuto limite alla propria giurisdizione e che anzi, al contrario, ne garantiva il buon funzionamento, esaltandone il valore nel viceregno.

BIBLIOGRAFIA: G. INTORCIA, Problemi del governo provinciale: L’Udienza di Basilicata nel Seicento, in «Archivio Storico per le Province Napoletane», CII (1984); T. PEDIO, La R. Udienza provinciale di Basilicata: dalla sua istituzione alla scelta della sua sede a Matera (1642-166), in “Bolletino Storico della Basilicata”, VII (1991), n. 7; N. DE RUGGIERI, Il Tribunale della Regia Udienza di Basilicata in Matera, appunti per uno studio, Matera, Giannatelli, 1994.

giovedì 19 aprile 2018

La Basilicata moderna. 24. Matera tra feudalizzazione e Regio Demanio (Maria Pia Belfiore)

La nota rivolta antifeudale di Matera all’inizio del Cinquecento è celebre in quanto diede chiaramente il segno di un’inquietudine sociale abbastanza diffusa, anche se ancora piuttosto latente, nella città murgiana. Quando si trattava, infatti, di sottrarsi al peso baronale, il passaggio al Regio Demanio significava per l’Università sostituirsi al barone nel versamento alla Corona del prezzo richiesto. Diventava "Città Regia" solo quella città che comprava se stessa, cioè si impegnava a versare allo Stato la somma del proprio riscatto, che altrimenti sarebbe stata versata ad altri, con la perpetuazione del dominio feudale su di essa
Quando, però, alla fine del XV secolo il re le assegnò il nuovo signore, e cioè il napoletano Giancarlo Tramontano, che non poteva vantare né il prestigio degli Orsini, precedenti feudatari di Matera, né altre eventuali caratteristiche che in qualche modo attenuassero la sua estraneità all’ambiente locale, forte fu l’ostilità dei materani non disposti alla reinfeudazione della città. 
Il Tramontano, banchiere ed esponente della nuova “borghesia loricata”, cioè un borghese conte e non un vero e proprio barone, a Matera continuò a svolgere le sue attività commerciali suscitando le apprensioni degli imprenditori locali, che temevano di essere schiacciati da un concorrente così facoltoso. In più appariva molto esigente, pretendendo dalla popolazione materana il concorso in ore lavorative per la costruzione in loco di un immenso e massiccio castello-fortezza. Ad un’ennesima imposizione fiscale del conte, indebitatosi oltre modo con un mercante catalano, il popolo materano rispose con la rivolta. Erano i giorni successivi al Natale del 1514. Il conte fu assalito e travolto mentre usciva dalla Cattedrale ed abbattuto nella via adiacente, che ancora oggi si chiama “Via del Riscatto”. Tutta la città ottenne, non molto tempo dopo, un indulto generale che riconosceva ancor di più il valore di quell’atto di resistenza popolare contro il domino baronale.
L’esosità baronale fu però in pratica sostituita da quella regale, così come scrive Winspeare:

“Il governo viceregnale, tosto che vide un numero considerevole di città demaniali, la vendita delle quali offriva al fisco una speculazione più utile della fede e dell’osservanza del contratto, propose e fece approvare il progetto di rivenderle per l’urgenza della cosa pubblica” (D. WINSPEARE, Storia degli abusi feudali, Napoli, Regina, 1883, p. 24).

Matera fu vittima di tale espediente e, non volendo più accettare il dominio feudale, pagò essa stessa più volte il prezzo del riscatto, raccogliendo la somma necessaria a comprarsi per mezzo di contribuzioni ordinarie e straordinarie sui beni di consumo.
Sappiamo che la città comperò se stessa nel 1577, e nel 1582 fu in grado di ridurre le gabelle supplementari cui era ricorsa per racimolare la somma del riscatto.
Dall’ottenuta demanialità del territorio materano, derivava un aumentato prestigio alla classe alta della città ed una sufficiente autonomia: le terre prima amministrate dal barone erano sottoposte ad un’amministrazione universale controllata dai benestanti; da quei cittadini cioè che, proprietari di grossi armenti, erano più interessati al mantenimento del pascolo. Mantenere Matera al Regio Demanio fu quindi precisa volontà del ceto dei possidenti.


BIBLIOGRAFIA: R. GIURA LONGO, I beni ecclesiastici nella storia economica di Matera, Matera, Montemurro Editori, 1961; C. ROSIELLO, Matera spagnola: i luoghi del potere tra descrizioni e nuovi percorsi storiografici, in C. CREMONINI-E. RIVA (a cura di), Il Seicento allo specchio, Roma, Bulzoni Editore, 2011.

giovedì 12 aprile 2018

La Basilicata contemporanea. 20. La nascita della Banca d'Italia secondo Salvatore Lardino (Rossella Romaniello)

Nel convegno del giorno 24 marzo 2017 presso l’Università degli studi della Basilicata, polo del Francioso, a 60 anni dalla storica firma dei trattati di Roma, il 25 marzo 1957, di cui siamo occupati la settimana scorso, notevolissimo è stato l’intervento del prof. Salvatore Lardino, che verte intorno alla genesi formativa della Banca d’Italia, partendo dalla grande sensibilità storica, che a suo avviso l’ha sempre contraddistinta. Quest’ultima di fatto, è sempre stata attenta alla dimensione storica e conserva attraverso molte collane (tra cui le ultime pubblicate dalla Laterza nel 1992 e successivamente dalla Marsilio), la migliore storiografia nazionale e internazionale. Tutto ciò va sottolineato soprattutto perché anche in Basilicata, nonostante tale istituzione fosse assorta in problemi tecnico-finanziari, i suoi uffici hanno sempre mantenuto un alto spessore e interesse storico rispetto a molte altre istituzioni. Interessante è la citazione di un grande storico-economico italiano, Carlo Maria Cipolla, il quale, introducendo uno dei volumi della Banca d’Italia, delinea in linea generale identità e funzioni di una banca centrale, connotandola non nella sua fissità ma nel suo divenire. La banca d’Italia infatti non va intesa come un istituto obsoleto, ancorato ai suoi principi. Cipolla asserisce che le origini della banca“ si perdono nella notte dei tempi” ma non così quelle delle banche centrali. La loro storia si evolve negli ultimi tre secoli dell’età moderno-contemporanea: banca centrale di Svezia 1668, banca centrale d’Inghilterra 1694, banca centrale di Francia 1800, banca d’Olanda 1814, banca austriaca 1817, banca del Belgio 1850, banca di Germania 1875, banca del Giappone 1882, banca d’Italia 1893, Federal Reserve System degli Stati uniti 1913.
Nonostante queste precise datazioni, Cipolla precisa che le banche centrali non nascono come istituzioni compiute e definite come oggi le conosciamo, bensì è un organismo che si sviluppò nel corso del tempo acquisendo funzioni, competenze e fisionomie nuove sempre più complesse, instaurando relazioni col resto del sistema bancario finanziario, con il potere politico e con il sistema economico. 
Lo sviluppo progressivo appena descritto è stato analizzato nel particolare da Lardino relativamente alla nostra banca d’Italia, partendo dalla sua relazione con la situazione preunitaria che caratterizzò il nostro territorio. Solitamente i libri di testo riportano erroneamente l’esistenza di sei banche di emissione all’epoca; in realtà erano in numero minore. Al nord: la banca degli stati sardi che si evolse nella banca nazionale del Regno di Sardegna e poi nel Banco Nazionale del Regno d’Italia nel 1849 fondendo la banca di Genova col Banco di Torino, la Toscana presentava la banca nazionale toscana nata nel ’57 ed erede della banca di sconto sviluppatasi negli anni 1817- 1826, lo Stato Pontificio aveva la propria banca di emissione nata nel 1833 (assorbendo anche la banca delle Quattro Legazioni) divenuta dal ’70 Banca Romana, nel meridione esisteva il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia.
Nel 1863 si aggiunse la Banca Toscana di credito per l’industria e il commercio, nel momento in cui Firenze, con la Convenzione di Volterra, diviene capitale d’Italia e molti degli interessi si spostano nei suoi territori. 
In genale in quegli anni era comune in tutto il territorio nazionale, lo scarso uso della banconota, difatti fino al 1866 la moneta metallica costituiva il 90% del denaro in circolazione.
L’emissione di banconote in lire nasceva il 24 Agosto 1862 mediante la Legge Pepoli, con non poche problematiche come il superamento del mono-metallismo / bi-metallismo o anche nella scelta del regime da utilizzare, se decimale o altro. 
 Già nel momento dell’Unità Cavour, aveva in mente l’idea di una Banca unica, prefigurava la nascita di una banca Nazionale del Regno d’Italia che fosse la sola emissaria di banconote e che determinasse quindi l’esautorazione del potere di emissione da parte degli altri istituti bancari. Tale progetto fu ostacolato dagli istituti bancari locali e dalla scuola liberale facente capo a Francesco Ferrara che non accettava un regime di monopolio da parte di un'unica banca per quanto concerne l’emissione. Nel 1863-’65 ci furono altri tentativi di Minghetti e Quintino Sella di fondere la Banca Nazionale con quella Toscana, ma tale unità non si raggiunse. Marco Ovato, un eccellente storico- economico che varie volte ha delineato il sistemi di emissione e i sistemi bancari in genere, afferma che quella fu la prima occasione che andò perduta di unificare i sistemi di emissione.
Nel 1866 il ministro Antonio Scialoia propose all’approvazione del Parlamento l’introduzione del “corso forzoso”( non convertibilità della moneta in oro) per venir meno al presupposto vigente di equiparare il valore della moneta ad un quantitativo di oro. Questo provvedimento, di conseguenza, portò ad un aumento della circolazione cartacea rispetto alla circolazione metallica.
Nel 1874 ci fu il primo tentativo fallimentare di giungere ad una razionalizzazione del sistema di emissione con la storica bozza “Minghetti- Finali” che propose un consorzio tra le banche di emissione.
In realtà la possibilità plurima di avere più banche di emissione non era un vero aspetto negativo. Infatti, un grosso economista, afferma che la scarsa diffusione di depositi bancari determinava il fatto che la fonte principale di risorse, per effettuare il credito bancario, fosse costituita proprio dall’emissione di banconote: sostanzialmente, accettando le banconote, il pubblico faceva credito agli istituti di emissione e quindi questi ultimi potevano dar credito ai propri clienti.
Soltanto negli anni ’70 iniziavano ad affermarsi banche di non emissione come il credito mobiliare e la banca generale di livello nazionale ma con contatti internazionali. In questo quadro gli istituti di emissione svolsero un ruolo importante nello sconto di cambiali, nel finanziamento della produzione e dell’investimento, la lotta all’usura, la monetizzazione dell’economia italiana.
La storia ci dimostra che ci fu un tentativo di abolizione del corso forzoso negli anni del decollo economico-industriale dell’Italia, nel 1881-’83, che però durò solo fino al 1887 a causa della bolla speculativa per la proliferazione edilizia di Roma Capitale e per una crisi dei campi. In seguito la crisi del 1892 porta alla presentazione in Parlamento della relazione Alvisi-Biagini (di cui ne furono promotore il deputato siciliano Napoleone Colaianni e il collega Gamazzi) che era stata segretamente commissionata dal governo per capire quali fossero le condizioni della Banca Romana che appariva molto in dissesto. Tale relazione illuminò su questo evento tristemente noto come “scandalo della Banca Romana” che vide clandestinamente la stampa di 9 milioni di lire e l’eccedenza abusiva di 25 milioni di lire nella circolazione cartacea. Da tale episodio emerse la responsabilità di tre governi (Crispi, Rudinì, Giolitti) accomunati tutti da un tipico finanziamento illecito dei partiti politici, avevano sfruttato questo istituto per finanziare le proprie campagne elettorali. L’unificazione bancaria che tante volte si tentò di ottenere, si raggiunse quindi ,solo forzatamente in un momento di crisi come era stato quello appena descritto; perciò il 10 Agosto 1893 con la legge bancaria n°449 si istituì la Banca d’Italia che assorbì la banca nazionale del Regno, la Banca Nazionale Toscana, la Banca Toscana di credito e la Banca Romana che però fu messa in liquidazione. Il banco di Sicilia e il Banco di Napoli continuarono ad avere potere di emissione, videro invariate le loro prerogative.
Infine non va tralasciato, che il vero salto di qualità la Banca d’Italia non lo fece con i suoi primi direttori ( Grillo e Marchioni) ma con un grande economista, Bonaldo Stringher, che ne fu direttore per ben ventotto anni e poi governatore dal 1928 al 1930 quando tale figura fu istituita. Il prestigio della Banca d’Italia crebbe notevolmente con lui, venne istituito un sistema bancario misto, fu fondamentale il sostegno di tale organismo nel superamento della crisi nel 1907 e nel 1926, con due importanti decreti, ottenne l’esclusiva dell’emissione (anche le banche meridionali vennero quindi estromesse da tale possibilità). Inoltre, sempre nel ’26, il decreto n° 1830 affida alla Banca d’Italia la vigilanza sulle casse di risparmio che più compiutamente sarà recepita con la legge bancaria del 1936 la quale: la rese istituto di diritto pubblico (con un ridimensionamento netto del capitale privato) e detentrice dell’emissione in esclusiva.
In conclusione, citando un studio sulla Banca d’Italia (2010) di Giampiero Cama, risulta importante un passo ripreso dall’economista James Tobin "Nulla è più politico della moneta", che probabilmente può essere capace di renderci consapevoli di quanto la moneta e quindi la Banca d’Italia, sia fortemente calata nel politico. Difatti, spesso ha avuto un ruolo di supplenza politica, soprattutto nel passaggio tra le due guerre mondiali (basti pensare alle presidenze Enaudi e Ciampi, personalità provenienti dalla Banca d’Italia). 
La banca d’Italia ancora oggi ha questo importante compito, accompagna lo sviluppo economico, la stabilità democratica, la modernizzazione, il progresso civile del nostro Paese, connotandosi come uno degli istituti che meglio difende tali prerogative. Compito di recente assorbito dalla Banca d’Italia è promuovere la scrittura di regole in un capitalismo maturo, che devono oltrepassare il “medioevalismo” e ammodernarsi per meglio rispondere allo sviluppo economico.

giovedì 5 aprile 2018

La Basilicata contemporanea. 19. La Basilicata e un convegno sull'Euro (Marina Corsini-Martina Summa)


Lo scorso venerdì 24 Marzo, nella sede di Potenza dell’Università degli Studi della Basilicata, in Via Nazario Sauro, si è tenuto il convegno L’Europa in mano per celebrare i sessanta anni dei Trattati di Roma. Questi furono trattati istitutivi della CEE (Comunità Economica Europea) firmati a Roma nella sala degli Orazi e Curiazi del Campidoglio il 25 Marzo 1957. A firmarli furono i cosiddetti “sei Paesi fondatori”: Italia, Francia, Germania, Belgio, Olanda e Lussemburgo. Essi furono la pietra angolare del cammino di quella che all’inizio degli anni Novanta sarà poi denominata UE (Unione Europea).
La giornata si è aperta con i saluti del prorettore vicario dell’UNIBAS Michele Perniola, portando i saluti della rettrice Aurelia Sole impegnata, lo stesso giorno, nelle sedi universitarie di Matera. I ringraziamenti sono stati estesi, dallo stesso, ai promotori di questa giornata: al Professore Antonio Lerra; docente UNIBAS e presidente Deputazione Lucana di Storia Patria, alla filiale di Potenza della Banca d’Italia e alla stessa Università degli Studi della Basilicata. Dopo una breve riflessione sull’importanza dell’Europa nel corso della storia e nel presente dell’Italia, la parola è stata passata a Giancarlo Fasano direttore della filiale potentina della Banca d’Italia dal 2010. Fasano, ringraziando alcuni rappresentanti della stessa filiale, ha introdotto l’importanza economica dell’Unione Europea collegando questo saluto introduttivo a quelli che sono stati poi gli interventi sulla storia della filiale di Potenza di Raffaella Di Donato e le caratteristiche della nuova banconota da 50 euro della serie Europa di Michela D’Atena. La celebrazione potentina è stata affiancata, così come ricordato dallo stesso Fasano, da un’esposizione interattiva: “La Banconota delle idee” organizzata dalla Banca d’Italia a Roma e inaugurata il pomeriggio del 24 marzo.
Infine gli ultimi saluti sono stati portati da Debora Infante, Dirigente Ambito Territoriale di Potenza - Ufficio Scolastico Regionale per la Basilicata. Il suo saluto introduttivo ha voluto sottolineare l’importanza dell’internazionalizzazione in ambiente scolastico riferendosi esplicitamente alle parole di Mattarella durante le Celebrazioni a Camere riunite per i sessanta anni dalla firma dei Trattati di Roma; ovvero:” Oggi l’Europa appare quasi ripiegata su sé stessa. Spesso consapevole, nei suoi vertici, dei passi da compiere, eppure incerta sull’intraprendere la rotta. Come ieri, c’è bisogno di visioni lungimiranti, con la capacità di sperimentare percorsi ulteriori e coraggiosi.” Con queste parole il Capo di Stato, così come la Dottoressa Infante ha detto, si riferisce al coraggio e alle capacità dei giovani per portare avanti questa unità a livello europeo. Riportando dati numerici, ha evidenziato un processo di internazionalizzazione che si sta portando avanti negli ambienti di formazione dei giovani, sia con incontri a scuola sia con formazione di docenti all’estero e condivisione di modelli didattici differenti; per di più l’attenzione è stata posta anche sulla mobilità degli studenti grazie ai progetti Erasmus. Tutto ciò garantisce la formazione di generazioni di giovani capaci di sentirsi all’interno di una unità europea e di mantenere coesa l’Europa stessa.
Dopo questi saluti iniziali e l’inquadramento degli argomenti dello stesso convegno la parola è passata, con le proprie relazioni, ai professori: Antonio Lerra (Università degli Studi della Basilicata, Presidente Deputazione Lucana di Storia Patria), Salvatore Lardino (Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, Presidente Comitato di Potenza), Raffaella Di Donato (Banca d’Italia – Filiale di Potenza), Michela D’Atena (Banca d’Italia – Filiale di Potenza) e Donato Verrastro (Università degli Studi della Basilicata).

Interessante è stato proprio l’intervento della dott.ssa Michela D’Atena che ha illustrato il design e le caratteristiche tecniche di sicurezza del nuovo biglietto da €50.
Nel 2017, oltre ai 60 anni dalla stipula dei trattati di Roma, ricorre anche un altro anniversario, ovvero i 15 anni dall’introduzione dell’Euro, moneta che ormai fa parte della nostra vita dal 1 gennaio 2002 ed è attualmente la moneta ufficiale e legale di circa 335 milioni di cittadini, di diciannove dei ventotto paesi che costituiscono l’Unione Europea. E’ sicuramente il simbolo più tangibile dell’eurozona ma è anche un importante segno dell’identità culturale del nostro continente. 
Nella grafica delle banconote, sono presenti simboli dell’appartenenza ad una stessa civiltà, come la presenza delle stelle che sono simbolo degli ideali di coesione e di solidarietà dei cittadini. 
La D'Atena ha fatto notare che sul fronte delle banconote non sono presenti monumenti esistenti, ma elementi architettonici come portali, finestre e archi, tipici di sette stili che hanno caratterizzato l’Unione Europea, a partire dai €5 sulla quale è rappresentata un’architettura classica, segue la banconota da €10 con un’architettura romanica, la banconota da €20 con un’architettura gotica, quella da €50 che riporta un’architettura rinascimentale e le banconote da €100, €200 e €500 che raffigurano rispettivamente un’architettura barocca e rococò, un’architettura ottocentesca e per finire un’architettura novecentesca, mentre sul retro di ogni banconota è sempre raffigurato un ponte, simbolo di unione tra popoli diversi.
Il riferimento alle comuni origini culturali della civiltà europea è ancora più evidente nella nuova serie delle banconote dove vi è rappresentato il volto della figura mitologica di Europa, tratta da un vaso risalente a oltre 2000 anni fa ritrovato a Taranto. 
L’Euro è la moneta legale dell’eurozona emessa dalla BCE (Banca Centrale Europea) ed è proprio questa che, grazie al trattato dell’Unione Europea, ha l’autorizzazione di emettere le banconote all’interno delle singole banche nazionali centrali, che si occupano non solo della produzione e della circolazione delle banconote, ma seguono tutto il ciclo del contante compreso il ritiro delle banconote che non rispondono più a delle particolari qualità e che vengono restituite alle filiali della Banca d’Italia che provvederanno a distruggerle. 
Ogni banca funzionale si occupa della produzione di alcuni pezzi della banconota, come nel caso della Banca d’Italia che stampa i biglietti da €20 e €50. 
Tutto il processo di produzione delle banconote avviene in quarantacinque giorni nei quali si susseguono diverse tecniche di stampa, come la stampa cartografica, la stampa tipografica, l’applicazione a caldo di elementi olografici ecc. e tutto avviene in maniera automatizzata grazie alle macchine e l’unico compito dell’uomo è quello di presidiare alcuni momenti e processi di verifica e controllo. Le banconote circolanti attualmente sono oltre 18 miliardi e di queste il 45% viene rappresentato proprio dalle banconote da €50. 
Un fenomeno che purtroppo caratterizza gran parte dell’Europa da diversi anni è la falsificazione delle banconote: nel 2016 infatti sono state intercettate a livello europeo oltre 153 mila banconote false, in modo particolare in Francia, Italia, Germania e Spagna ed i biglietti più contraffatti sono risultati quelli da €20 e €50. In Italia, oltre il 79% dei biglietti falsi è attribuibile a delle stamperie dette “Napoli Group” che hanno sede nella zona di Napoli e dintorni; una statistica ci mostra che le regioni dove circolano il maggior numero di biglietti falsi sono Lombardia, Lazio e Campania. 
Dopo questa introduzione, la Dott.ssa D’Atena ci ha mostrato, attraverso alcune immagini, le caratteristiche della nuova banconota da €50.
La nuova serie di banconote è stata introdotta per la prima volta nel 2013 con il biglietto da €5, nel 2014 fu introdotto il nuovo biglietto da €10, nel 2015 quello da €20 e il 4 aprile 2017 entrerà in circolazione la nuova banconota da €50, come abbiamo già ricordato. 
Sono in fase di sviluppo le banconote da €100 e €200 che entreranno in circolazione presumibilmente verso la fine del 2018; è stato deciso che la seconda serie non comprenderà il taglio da €500, in considerazione dei timori che questa banconota possa agevolare attività illecite. Le nuove banconote in Euro presentano: gli stessi disegni della prima serie ispirati agli stessi stili architettonici, gli stessi colori ma molto più accentuati e vivi, conservano le stesse dimensioni delle precedenti ma la carta utilizzata ha una particolare consistenza e sonorità.
Nella progettazione delle nuove banconote si è tenuto conto del fatto che dal 2002 altri paesi sono entrati a far parte dell’Unione Europea, infatti ora la carta dell’Europa mostra anche Malta e Cipro e la scritta “Euro” compare in caratteri cirillici, oltre che latini e greci, così come l’acronimo della BCE è riportato in dieci varianti linguistiche anziché cinque. 
Sono stati inseriti degli elementi di sicurezza che rendono queste banconote meno falsificabili e più facilmente riconoscibili, come il fatto che l’immagine principale, le iscrizioni e la cifra di grande dimensione indicante il valore sono stampate in rilievo.
Lungo i margini destro e sinistro della banconota sono stati inseriti una serie di trattini in rilievo realizzati con una particolare tecnica tipografica chiamata calcografia, che variano da banconota a banconota avente valore diverso e consentono anche alle persone non vedenti di poter distinguere il valore del taglio.
Tra le novità vi è l’introduzione di una filigrana che è possibile vedere solo guardando la banconota in controluce nel quale si può scorgere il ritratto sfumato di Europa.
Il francobollo presente nella prima serie delle banconote è stato sostituito da un ologramma, anch’esso visibile soltanto in controluce, nel quale si riconoscono la cifra del valore e una finestra con il ritratto di Europa. Anche il numero verde smeraldo posto in basso a sinistra produce l’effetto di una luce che si sposta in senso verticale e inoltre il colore cambia passando da verde smeraldo a blu scuro. In alcune aree della banconota sono state inserite delle sottili iscrizioni: questa micro scrittura diventa leggibile solo attraverso una lente di ingrandimento, come ad esempio la parola “Euro” inserita più volte nelle stelle presenti sopra il portale e sopra il capitello della colonna. Altri elementi di sicurezza sono visibili esclusivamente con delle attrezzature in dotazione alle banche, come delle lampade a luce ultravioletta oppure sotto una luce a infrarossi. 
La nuova banconota da €50, come i tagli della serie “Europa” già emessi, circola insieme ai biglietti della prima serie, che continuano ad avere corso legale. 

La Basilicata moderna. 44. Potenza post-napoleonica

La gestione di un capoluogo non fu mai, nella tarda modernità del Mezzogiorno d’Italia, una cosa facile, tanto meno in una provincia così  v...