lunedì 9 settembre 2013

Storici Lucani. 7. Costantino Gatta, medico e storiografo della Lucania/Cilento

Costantino Gatta nacque a Sala Consilina il 19 gennaio 1673, da Girolamo, medico e studioso di filosofia aristotelica, e da Giovanna Villagut, di un'antica e nobile famiglia catalana, originaria di Barcellona.
Suo fratello maggiore, Francesco, nato nel 1663, seguì la vocazione ecclesiastica, divenendo gesuita; dopo essersi addottorato in filosofia e teologia a Napoli e in diritto a Roma, ricevette la nomina di vicario apostolico, con l'incarico di riscattare gli schiavi cristiani rapiti dai pirati barbareschi, a Tunisi e nel Marocco.
L'agiatezza della famiglia fu in grado di assicurare al Gatta un'istruzione di prim'ordine a Napoli, dove si addottorò in medicina nel 1698. Ritornato immediatamente dopo la fine degli studi nella città d'origine, il Gatta divise la sua esistenza tra l'esercizio della professione medica e un'attività di ricerca storico-erudita e scientifica, che lo portò a intrattenere un fitto commercio epistolare con il gruppo di letterati partenopei riuniti intorno al patrizio napoletano Ignazio Maria Como e a conquistare una certa rinomanza, come ci viene testimoniato dall'elogiativa menzione che di lui fece Giuseppe Volpi nella prima edizione della sua Cronologia dei vescovi pestani, edita a Napoli nel 1720.
Nel 1703 veniva stampata a Napoli la sua prima opera, dedicata a una critica della medicina galenica, Aurora acromatica, sive Isagogicon in quo primo de rebus coelistibus, secundo de atmosphera corporis humani, sive de fluxu, refluxuque partium, tertio de rerum naturalium elementis, a cui farà seguito, a distanza di più di dieci anni, Il trionfo della medicina. Apologia contro Plinio. Distinta in sette ragionamenti, libello, edito sempre a Napoli nel 1716, teso a rivendicare la certezza scientifica della medicina contro lo scetticismo dell'autore latino.
Nel 1720, incuriosito da un fatto straordinario accaduto in quell'anno (l'essudazione della statua di S. Michele, avvenuta nell'omonimo tempio della città di Sala), il Gatta compose un'opera ove cercava di fornire, almeno parzialmente, una spiegazione in termini fisici di quell'evento, facendola precedere da una dettagliata notizia storico-geografica della sua regione natale. Nacque così La Lucania illustrata per la miracolosa resudazione dell'antica effigie del glorioso principe s. Michele arcangelo, nel tempio eretto su di un monte della città di Sala (Napoli 1723).
A questa prima opera di carattere storico-erudito si aggiunsero, nel 1732, le Memorie topografiche-storiche della provincia di Lucania, compresa al presente nella provincia di Basilicata, e di Principato Citeriore, colla genealogia de' serenissimi principi di Bisignano dell'illustre famiglia Sanseverino e, nel 1743, la riedizione accresciuta di questo volume, stampata postuma per la cura del figlio Gherardo Saverio, con il titolo Memorie topografiche-storiche della provincia di Lucania, colle notizie dell'antico e venerabile tempio dedicato alla ss. Vergine, nel territorio della città di Saponara, e d'un sepolcro de' gentili presso l'antica città di Consilina, ambedue edite a Napoli.
Una fatica, questa del G., destinata a incontrare pareri discordi presso il pubblico degli studiosi. Se, infatti, un suo amico e corrispondente napoletano, il padre Elia D'Amato, nelle sue Variae animadversiones del 1734 (pubblicate nel tomo XXIV della Raccolta di opuscoli del Calogerà), pur stigmatizzando gli eccessi di fanatismo municipale, che portarono il Gatta ad avanzare l'ipotesi di un'origine lucana anche per i calabresi Cassiodoro e Pomponio Leto, riconobbe comunque l'erudizione profusa dal Gatta, Giovanni Donato Rogadeo nel suo Del diritto pubblico e politico del Regno di Napoli (Napoli 1769) parlò del Gatta come di un "autore di niuna critica".
Nelle due versioni delle Memorie topografiche-storiche, il Gatta stendeva, in ogni caso, una relazione dello stato naturale e civile dell'antica Lucania, delle colonie e delle prefetture romane in essa insediate, dei monumenti e delle vestigia di quell'antico passato, ancora superstiti, dedicando un rilievo particolare al suo paese d'origine, il Vallo di Diano, che egli riteneva, secondo la testimonianza di Frontino, nato dalla colonia romana di Consilina e che era chiamata da Antonino e Cassiodoro Marcelliana. A tutto questo, il Gatta aggiungeva, poi, una descrizione della Lucania moderna, dalla storia politica delle varie dominazioni alla storia civile e intellettuale, con dettagli importanti di carattere sociale ed economico (sulla situazione dell'agricoltura e delle arti), descrivendone le principali città, terre, feudi e stendendo un particolareggiato elenco, corredato da alcune accuratissime genealogie, delle famiglie nobili residenti nella regione. Particolare attenzione veniva, poi, tributata alla storia cristiana della Lucania: all'insediamento della nuova religione, al suo sviluppo tra Basso Impero e Alto Medioevo, al fiorire di insediamenti monastici, alle personalità eminenti che si distinsero negli studi teologici, nella pietà e nel servizio divino, alle tradizioni liturgiche e devozionali, fino al vasto e composito mondo della religione popolare (dal culto dei santi al proliferare dei miracoli), sempre osservata con occhio attento al particolare colorito e folcloristico, ma anche pronto a discernere tra fede e superstizione, con un'attenzione di stampo precocemente illuministico.
E fu sempre questa attenzione critica e razionalistica, già manifestatasi nel La Lucania illustrata, a informare una delle ultime opere del Gatta, indirizzata nel 1734 al Como e poi edita postuma nel XIII tomo della Raccolta di opuscoli del Calogerà: Di uno strano e mostruoso crescimento di peli, di barba e di ugne in due donne napoletane. Dissertazione storico-fisica.
Un'opera, questa, in cui la categoria del "mostruoso", così cara alla sensibilità seicentesca e barocca, tendeva a svincolarsi dal suo carattere di straordinarietà e dalla aura di prodigioso che tradizionalmente lo circondava, per essere riportato, invece, alle sue caratteristiche di mero fenomeno fisico, investigabile per "cause et rationi", scientificamente comprensibili, secondo gli insegnamenti della grande tradizione naturalistica italiana di F. Redi e A. Vallisneri, che il Gatta esplicitamente evocava come illustri predecessori. Il Gatta morì a Sala Consilina il 27 ag. 1741.

FONTE: voce di E. DI RIENZO in DBI, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1999, vol. 52.

venerdì 6 settembre 2013

Matera. 5. L'enigma Eustachio da Matera

Nato nel XIII secolo, probabilmente a Matera, Eustachio fu di fede ghibellina. Il suo nome non è documentato in alcuna fonte contemporanea, ma l'agostiniano Dionigi da Borgo Sansepolcro (morto nel 1342), chiamato a Napoli alla corte di re Roberto d'Angiò nel 1338, nei suoi Commentarii in Valerium Maximum fornisce la più antica testimonianza dell'esistenza di Eustachio (qualificato di "venosino" certamente per le sue attività svolte a Venosa documentate da fonti più tarde), autore di un poema intitolato Planctus Italiae: "Eustachium Venusinuni, qui sub nomine poétae introducitur et Plantus Italiae nominatur". Dionisio riporta poi, in margine a Valerio Massimo (II, 2, 3), sette distici elegiaci di E. in lode di Taranto.
La diffusione nel sec. XIV dell'opera di Eustachio è testimoniata in modo indiretto anche da Giovanni Boccaccio, che dagli intellettuali della corte angioina ricevette non poche suggestioni: egli, nella Genealogia deorum gentilium (VIII, 41), riporta infatti una leggenda sulla fondazione di Genova che dice raccontatagli da Paolo da Perugia, il quale a sua volta la avrebbe appresa da un certo Eustachio ("asserit tamen Paulus Perusinus secundum nescio quem Eustachium").
Due fonti del sec. XV, provenienti dall'Italia meridionale, offrono le sole notizie superstiti sulla biografia di E., nonché altri quattro frammenti del suo poema. Si tratta del codice della Biblioteca nazionale di Napoli segnato IX.C.24 e di un codice già della Biblioteca del Seminario vescovile di Potenza. Nel codice napoletano, che è miscellaneo, tra i ff. 96 e 131 è presente un commentario virgiliano, scritto nel 1478 da Berardino di Policastro di Suessa. Il Capasso suppone che si tratti di una copia da un originale della fine del sec. XIV; il Veselovski lo attribuisce, invece, alla metà del XV. Nel libellus sono riportati quattro estratti dal Planctus Italiae di Eustachio, relativi a Napoli (f. 89r), al Cavallo napoletano (ff. 89v-90r), a Messina (f. 116v) e a Taranto (f. 119v-120r). I versi relativi a quest'ultima città concordano (le varianti sono insignificanti) con il testo tradito da Dionigi da Borgo Sansepolcro. Inoltre, al f. 94r l'anonimo autore della raccolta miscellanea cita un "Eustachium quendam" tra gli autori che fornirono al Boccaccio il materiale per la sua Genealogia, mostrando, però, di non conoscerlo.
Il codice di Potenza, proveniente dal convento dei padri conventuali della stessa città, era conservato alla fine del sec. XIX nella Biblioteca del Seminario vescovile. È da ritenersi perduto perché sono risultati inutili tutti i tentativi fatti per rintracciarlo. In esso era compresa una poesia latina, un frammento di trentaquattro versi del Planctus Italiae, relativi alla distruzione di Potenza, avvenuta dopo la battaglia di Tagliacozzo (23 ag. 1268), in cui Eustachio ricorda come i Potentini piombassero a tradimento sui baroni partigiani degli Svevi con l'intento di ingraziarsi re Carlo d'Angiò, e come nonostante quest'atto di tradimento le mura di Potenza fossero abbattute egualmente, ed i partigiani dell'Impero liberati grazie ad un'azione improvvisa condotta da alcuni cittadini di Venosa, che era filosveva, e da due cavalieri, Riccardo di Santa Sofia ed Enrico di Castagna:

Allora il furore del popolo potentino travolse tutti
quelli che portavano i vessilli dell’aquila imperiale.
La città di Potenza fu generata dai boschi lucani, 
e sostenuta dalla tua protezione, o San Gerardo.
Fornita di monti e di prati a perdita d’occhio
coltiva campi fecondi di greggi ed armenti.
Austera di stirpe lombarda e potente di coloni
rifulge più ricca dei suoi vicini.
Udite le furie minacciose di stragi del vincitore,
impazzì il popolo, in un turbine la turba si precipita.
Con questo furore vorrebbe placare l’ira del vincitore,
vendicarsi, fare strage di nobili.
E questo è nulla rispetto al dopo, quando giacque distrutte
le sue mura, in più punita per la sua empietà.
Gugliemo cade e la stirpe Grassinella
E alla caduta della loro casa segue molta rovina.
Viene preso quel Bartolomeo
Che chiama con molti alla rivolta, 
Stretti vincoli stringono i nobili
E conducono tutti i prigionieri nella rocca di Acerenza.
Ma la sorte mutevole diede alterne vicende:
Infatti in compagnia di armati Riccardo di Santa Sofia,
Enrico di Castanea e la coorte venosina
Erano giunti, evento straordinario, ai nemici di Acerenza.
Vedono quindi venire i prigionieri.
All’inizio i capi, entrati in battaglia, 
Decidono di subire il discrimine: uno fugge, un altro muore.
Un soldato con gli alleati rende libero Bartolomeo
E il fato offre un’attesa alla morte incombente.
Allora morì quel Pietro Sapienza di Basilicata, 
Portando in campo l’iniquità della maggior parte della gente.
Viene tradito, e il patto della preziosa amicizia
Dall’oro sciolto. La fede diventa scelleratezza:
Oh quanto grande delitto è il funesto denaro!
I biondi metalli sottomettono anche il cielo al loro prezzo.

In margine ai primi sei versi, e alla fine del frammento, vi erano - secondo la testimonianza di Giuseppe Rendina, autore nel XVIII secolo di una Istoria della città di Potenza - due annotazioni, che rappresentano, allo stato della documentazione, le sole notizie superstiti relative alla biografia di Eustachio. La prima era costituita da cinque versi, in cui si ricordava che Eustachio, nativo di Matera, poi giudice e scriba a Venosa, pianse la conquista della sua "patria". La seconda notizia era costituita da un'altra quartina, in cui l'ignoto autore ricordava che nel 1270, allorché regnava Carlo I d'Angiò, E. temperava le angosce dell'esilio registrando cronisticamente i dolorosi eventi di cui era stato testimone:

Nell’anno milleduecentosettanta,
Regnando il Franco, essendo la sede romana vacante,
Alleviando le pene dell’esilio,
Dettando questi mesti fatti per anno ad uno ad uno.

(trad. di M. T. Imbriani)

FONTE: voce di E. CUOZZO in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1993, vol. 43.

giovedì 5 settembre 2013

Nicola Festa, un filologo da Matera

Nacque a Matera il 17 nov. 1866 da Francesco e da Lucia Mazzei in una famiglia modestamente agiata, capace comunque di permettere al figlio la frequentazione del locale ginnasio-liceo E. Duni, dove, dal 1882 al 1884, ebbe insegnante di latino e greco il professore di prima nomina Giovanni Pascoli. L'insegnamento del Pascoli decise della scelta scolastica e della vita del F., ma non per questo va "mitizzato" il rapporto fra il discepolo e il suo maestro, quantunque continuasse con occasionale affettuosità, cortesia e nostalgia per tutta la vita del poeta. Questi si compiacque di avere scoperto nel mesto giovinetto di Lucania il futuro "illustre" filologo e si lasciò coinvolgere nelle battaglie concorsuali del Festa.
Altro, e durevole, fu invece il merito, il risultato dell'insegnamento impartito dal Pascoli al F.: la decisione d'una scelta in favore della filologia, cui conseguiva la scelta dell'università dove iscriversi. Che fu il fiorentino Istituto di studi superiori, cioè la facoltà e la scuola di G. Vitelli. Del quale il F. doveva diventare quasi un figlio d'anima, il discepolo prediletto.
A Firenze il F., pur di carattere chiuso e difficile, si trovò subito bene, lavorò sodo e si laureò con "una dissertazione sulla geografia e la cosmografia omerica, ricca di buone osservazioni e degna, secondo il parere della nostra Facoltà, di ogni elogio ... Ma la dissertazione del Festa è inedita, perché dell'operosità letteraria egli ha ben altra idea che non sia quella di coloro a cui hanno insegnato a pubblicare ogni aborto". Così il Vitelli, un decennio dopo la laurea del F. (Il signor Giuseppe Fraccaroli e i recenti concorsi universitarii di letteratura greca, Firenze-Roma 1899, p. 10 n. 1). Probabilmente, una dissertazione ancor troppo "letteraria" per chi doveva, o voleva, avviarsi ad essere "filologo", cioè in prima istanza editore di testi, possibilmente tardivi, non "classici" e non "letterarii". Il che anche importava un'esperienza di codici, massime della Laurenziana, da sfruttare e da catalogare.
Questi, invero, i lavori del F. nell'ultimo decennio del secolo, in cui seppe anche trar profitto dalla sua vivissima inclinazione alle matematiche e da certa propensione al filosofare etico-mistico. Pubblicò, per la Teubneriana, Giamblico (De communi mathematica scientia, Lipsiae 1891) e Palefato (De incredibilibus, ibid. 1902), preceduto ed accompagnato da numerosi articoli su codici, fonti, ecc. Né disdegnò, per necessità di vita, prima un posto di precettore presso una nobile famiglia del Valdarno inferiore, quindi l'insegnamento nel ginnasio municipale di Orvieto, donde lo liberò, senza concorso, nel 1894, la nomina a professore straordinario di lingua greca e latina presso l'Istituto di studi superiori. Poté così attendere con lena ai suoi studi greci, cui tosto affiancò severi, e allora pionieristici, studi bizantini, mentre collaborava alle iniziative del Vitelli, sia, dal 1891 gli Studi italiani di filologia classica, sia, dal 1897, la Società italiana per la diffusione degli studi classici, ch'ebbe, ed ha tuttavia, il suo organo nell'Atene e Roma.
La bizantinistica del F. ebbe larghi orizzonti e governò gran parte della sua vita. Il F. la intese come la lingua e la storia del medioevo "greco" tanto nella pars Orientis dell'ex impero romano quanto nell'Italia meridionale, in Sicilia, ecc. Agivano suggestioni "locali", la sua Matera ch'egli chiamò "mezzo greca" e nel cui dialetto ravvisò e ritrovò tracce dell'esperienza, non soltanto linguistica, bizantina (per esempio, i Lombardi, il Longibardus, ecc.), e il permanere di tradizioni e d'influssi "greci" nella stessa Cancelleria di Federico II. La bizantinistica, d'altronde, quasi naturalmente portava in area russa. Il F. perciò apprese il russo e se ne avvalse anche per un'attività letteraria a latere, la traduzione del Tarass Bulba di N. V. Gogol e di vari scritti di A. N. Majkov.
Stampò (Firenze 1897) l'edizione dell'epistolario d'un imperatore duecentesco, Teodoro Duca Lascaris, l'anno medesimo della scoperta del papiro bacchilideo, e l'anno di poi (ibid. 1898) eccolo apprestare un'edizione commentata delle Odie i frammenti di Bacchilide, la sua maggiore prova in campo "classico".
Forse per reazione al battage pubblicitario degli amici fiorentini, il F., già uscito malconcio dal concorso per la cattedra di Catania (concorso poi annullato dal Consiglio superiore su proposta del Vitelli), fu trattato ancor peggio dalla medesima commissione (relatore nuovamente G. Fraccaroli, mentre, ritiratosi D. Comparetti, la presidenza passò a M. Kerbacher). Anche questo concorso, e ancora su proposta del Vitelli, fu annullato dal Consiglio superiore, tranne per il primo vincitore, G. Setti. Mentre il Vitelli proclamava sul Marzocco "scandalosamenteingiusto" il verdetto, p. E. Pistelli indirizzava una lettera aperta al Pascoli, allora professore all'università di Messina, per sollecitare l'intervento a protesta e a sostegno dell'amico.
Il Pascoli rispose evasivo, anche per non guastarsi col Fraccaroli, recensente benevolo del suo primo volume dantesco: il quale Fraccaroli rendeva pubblica, frattanto, la sua stroncatura del Bacchilide in oltre settanta pagine della Rivista di filologia (1898-99).Negava alcun merito al libro del F., che tradiva evidenti la fretta e l'aiuto altrui, specialmente di Fr. Blass, mentre deliberatamente trascurava la metrica e troppo indulgeva, nella grafia, nello stile, nel paesaggismo e nello sforzo infelice del "bello scrivere", al descrizionismo già declinante (né solo per avversione all'uso e al metodo dello Zumbini, ma per una più affinata coscienza critica) e a certi modi e stilemi decadentistici di cui si compiacevano gli scrittori del Marzocco. Insorse il Vitelli (con l'opuscolo sopra citato), a difesa di troppe lezioni poi abbandonate dal medesimo F., e riducendo, comunque, i prematuri e pregiudizievoli elogi della cerchia fiorentina. Rispose al Vitelli il Fraccaroli con Il metodo critico del Prof. G. Vitelli (Torino 1899) e con l'augurio si facesse il silenzio intorno al F. e al suo Bacchilide. Ne profittò il F. forse anche più del necessario, se, rifatto il suo libro (Firenze 1916),accolse quasi tutte le critiche e correzioni del suo censore, si preoccupò della metrica e tagliò via risolutamente tutti i preziosismi grafici e descrittivi, dando all'opera propria un valore filologico normativo.
Nel 1900, scaduto il Vitelli dal Consiglio superiore, quindi eleggibile ed eletto (non senza un'attiva campagna in favor suo del Pistelli e del Pascoli) tra i giudici d'un nuovo concorso, il F. ne uscì vincitore, e vacando la cattedra di Roma per il ritiro del Piccolomini infermo, vi fu chiamato, preludendo al suo corso con la singolare prolusione Sulle più recenti interpretazioni della teoria aristotelica della catarsi nel dramma (Firenze 1901). Singolare, invero, perché, mentre assai giustamente il F. vi auspica "che tra gli studi filosofici e i filologici si stabiliscano più saldi e più intimi legami di quelli generalmente oggi esistenti", la prolusione medesima non costituisce, come dovrebbe, un contributo alla storia dell'estetica antica, né offre, quindi, un'interpretazione adeguata della catarsi aristotelica, quale in diverso clima storico-filosofico offriranno successivamente M. Valgimigli e A. Rostagni. Ed è anche significativo che, pur travagliatosi lungamente intorno alla cosiddetta edizione nazionale della Poetica, il F. non ne facesse poi nulla, impari, probabilmente, il filologo dinanzi a un testo non intelligibile senza un'adeguata preparazione appunto storico-filosofica.
Da Roma il F. non si mosse più. E, sebbene abbia avuto fra i propri allievi gli stessi maggiori maestri del Novecento (per esempio, L. Salvatorelli e G. Levi Della Vida, L. Venturi, G. Pasquali e P. P. Trompeo), né essi poterono sentirsi suoi discepoli sebbene abbia esercitato autorità e potere in ambito di commissioni per la maturità e le scuole medie; sebbene sia presto entrato ai Lincei e in Arcadia (di cui fu a lungo custode generale); sebbene abbia collaborato alla Cultura, e con C. De Lollis sia stato per molti anni condirettore d'una rivista militante e "crocianeggiante", non si può dire che abbia lasciato una traccia incisiva nella cultura, classica e non, del Novecento italiano. Promosse, con un quindicennio d'incarico ininterrotto, gli studi bizantinistici, ma stranamente battagliò, sulla Cultura appunto, con articoli a un tempo ingenui e faziosi, contro Gabriele D'Annunzio e contro G. Ferrero (C. Barbagallo, L'opera storica di G. Ferrero e i suoi critici, Milano 1911, pp. 176 n. 1, 211 n. 2).
Alle soglie della prima guerra mondiale, comparve, non senza l'elogio del sodale pascoliano L. Siciliani, un F. "essoterico", desideroso cioè di uscir dalla cerchia dei tecnici e di far profittare il cosiddetto gran pubblico dell'opera sua di ellenista. In collaborazione con una giovane allieva, Hilda Montesi, che poi divenne sua moglie, intraprese una serie notevolissima di versioni prosastiche da poesia greca, Sofocle (tranne l'Aiace), i due poemi d'Omero e, contemporaneamente, saggi illustrativi e divulgativi, sull'Atene e Roma soprattutto, mentre dava opera, col Salvemini e altri, ad organizzare gli insegnanti medi e universitari, con un chiaro programma antimassonico e cattolico, ma sostanzialmente "liberale". Così, alla destituzione "patriottico-bellica" del collega K.J. Beloch, si batté vigorosamente perché gli succedesse il cattolico bensì, ma neutralista, G. De Sanctis e, fondato nel 1919 il Partito popolare italiano, tosto vi aderì. Candidato (non riuscito) appunto per il partito popolare alle elezioni politiche del maggio 1921, ebbe a subire la violenza delle prime squadre fasciste, in una battaglia ch'ebbe in Basilicata particolare drammaticità fra clientelismo, squadrismo, ecc. (come attestano anche le lettere di B. Croce, allora ministro della Pubblica Istruzione, a Giovanni Castellano, Napoli 1985, pp. 113 ss.). Poco di poi (14 apr. 1922) si costituiva in Roma l'Associazione professori universitari cattolici, che elesse il F. a suo presidente (donde più strette relazioni con G. De Sanctis, presidente della sezione torinese dell'Associazione stessa e in più presidente d'una società cattolica di cultura). Il 1925 lo trovò tra gli antifascisti militanti. Patrocinò con impegno e successo l'ascrizione del Croce all'Arcadia. Fu tra i primi firmatari del "manifesto Croce" e il successivo 10 giugno apparve tra i collaboratori d'un volumetto, subito sequestrato dalla polizia, in memoria di G. Matteotti nel primo anniversario dell'assassinio: la traduzione. o trascrizione appunto in chiave Matteotti, della pagina platonica sul Giusto perseguitato e crocifisso dai nemici della Verità. Ma il suo antifascismo durò poco.
Licenziò allora, primo volume dell'edizione nazionale, il testo critico dell'Africa (Firenze 1926) e l'accompagnò con un Saggio sull'"Africa" del Petrarca (Palermo 1926), il maggior frutto dei suoi studi sull'umanesimo. Il Saggio è ancora tipico della "scuola storica"; è, in altri termini, una storia esterna del poema (cronologia compositiva, edizioni, traduzioni, lacune, ecc.), con troppo scarso rinvio alle fonti del poema (come tosto avvertì il suo cordialmente severo recensore E. Fraenkel) e nessun tentativo o proposito d'individuare finalità, scopo e poesia dell'Africa, benché, nell'offrire il Saggio in dono nuziale alla figlia di G. Gentile, augurasse al poema di "diventare un giorno - speriamo vicino - il nostro poema nazionale".
Era la fase di transizione al fascismo, confermata dall'autoscioglimento dell'Associazione professori mediante referendum tra i soci (il F. comunicò a De Sanctis i risultati di tale referendum il 25 giugno 1926).La politica "perbenistica" del regime, la bonifica dell'Agro Pontino, la campagna demografica, la conciliazione infine fecero il resto, non foss'altro per i legami del F. col peggior ambiente clerico-fascista dell'Urbe, la sua attività in Arcadia e all'Istituto di studi romani, imperversando altresì le celebrazioni bimillenarie di Virgilio, di Orazio e di Augusto. Il F. trasse argomento da un discorso sull'Originalità di Virgilio (in Nuova Antologia, settembre-ottobre 1930, pp. 333)per inveire contro la critica del Croce e del Norden, del Marchesi e del Fiore, accusati di antipatriottismo e di scarso o punto amore per la (rinnovata) latinità (littorio) imperiale. Dettò, quindi, per il volume collettivo dell'Accademia dei Lincei (Augustus, Roma 1938)un saggio (pp. 251-305),dove elogia il depoliticizzamento universalistico della letteratura augustea, esalta di Orazio le odi romane e di apparato, ché "toccava all'età nostra, all'Italia fascista, instaurare l'interpretazione integrale, il giudizio complessivo ed esatto dell'opera multiforme del poeta di Venosa" (p. 293);dopo di che non si perita di presumere "di avere additato vie nuove alla giusta comprensione di quella età che oggi vogliamo celebrare. E lo afferma volentieri, in quanto sa che il merito non è suo, ma di chi ha voluto e saputo rinnovare nell'Italia d'oggi la vita e le gesta e i propositi di venti secoli addietro" (p. 299). Nel medesimo stile è il breve libro sull'Umanesimo (Milano 1935),che riesce non di meno a serbare un onesto equilibrio fra il pasticcio dei coevi cattolici alla Toffanin e la sola storica immagine d'origine protestantico-idealistica e tedesco-meridionale. Infine la traduzione (1936)latina dei discorsi "imperiali" del Mussolini, analoghe epigrafi latine per la Città universitaria di Roma (che non gli perdonò, pur al F. sempre assai benevolo, il De Sanctis) e la difesa dell'autarchia.
Perdurava, tuttavia, accanto al F. "essoterico" il probo e silenzioso filologo esoterico, impegnato, anzi, di questi anni, in una delle sue opere più valide: i due volumi laterziani (Bari 1932-35) dei Frammenti degli stoici antichi. Intrapresa, inizialmente, come un semplice volgarizzamento degli Stoicorum veterum fragmenta (S. V.F.), edita da H. von Arnim, la silloge del F. più e più acquistò, rispetto all'originale greco-germanico, in annotazioni, illustrazioni e ritratti introduttivi dei filosofi dei quali il F. commenta i frammenti, provvedendo così anche ad una ricostruzione delle opere perdute. Con tale suo estremo lavoro il F. conferma e avvalora, altresì, una felice scoperta papirologica del Vitelli e di M. Norsa.
Ormai declinante in salute, si vide, sciolta l'Accademia dei Lincei, "aggregato" all'Accademia d'Italia (1938) ed entrò (autunno 1939) in Senato, "per opera del Duce".
Il F. si spense in Roma, il 30 maggio 1940.

FONTE: voce di P. TREVES in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1997, vol. 47

martedì 3 settembre 2013

Risorgimento lucano. 12. Nicola Mignogna: un tarantino Prodittatore di Basilicata

Nacque a Taranto il 28 dicembre 1808 da Cataldo e da Anna Rosa Troncone. Confuse e contraddittorie risultano le notizie relative all’atteggiamento politico del padre, concessionario di un tratto di costa riservato alla raccolta dei mitili: secondo alcuni, prese parte all’erezione dell’albero della libertà nel 1799, mentre per altri, nel 1806, si schierò con i Borbone a difesa del castello cittadino. In ogni caso, né l’ambiente familiare né quello del seminario vescovile della città natale, dove il Mignogna trascorse i primi anni giovanili fino alla vigilia dell’ordinazione sacerdotale, incisero particolarmente sulla sua formazione culturale e politica. Viceversa, fu decisivo il trasferimento a Napoli avvenuto alla fine del 1828, a seguito del matrimonio della sorella Teresa con l’ufficiale dell’esercito borbonico Serafino Salomone; abbandonato l’abito talare e intrapresi gli studi in legge, iniziò a frequentare a Napoli l’ambiente universitario e, soprattutto, i corsi tenuti da docenti privati, presso i quali con maggiore difficoltà la polizia riusciva ad esercitare il proprio controllo e ostacolare la diffusione delle idee libertarie.
Nella prima metà degli anni Trenta il Mignogna entrò in contatto con Benedetto Musolino e Luigi Settembrini, suoi colleghi negli studi giuridici, i quali nel 1834 avevano fondato la setta segreta denominata Figliuoli della Giovine Italia che, se nel nome ricalcava la più nota organizzazione mazziniana, nei fatti non era collegata ad essa e, pur condividendone i principi repubblicani e l’aspirazione unitaria, restava legata ai metodi carbonari della propaganda clandestina e dei rituali settari. Nello stesso periodo maturarono un atteggiamento antiborbonico anche il cognato e il di lui fratello Federico, ufficiale borbonico anch’egli, destinato successivamente ad affiancare in più occasioni l’attività del Mignogna.
Completati gli studi, il Mignogna iniziò a svolgere la professione legale senza particolare successo, limitandosi a patrocinare gli abitanti del quartiere Porto, dove col tempo stabilì stretti rapporti con esponenti dell’elemento popolare. Intanto riservava notevoli energie all’attività cospirativa, in particolare riproducendo con un suo torchio documenti – come l’appello di Mazzini a Pio IX (1847) – destinati alla diffusione clandestina. Tuttavia nel 1848 non si mise particolarmente in luce, probabilmente condividendo la linea di Settembrini, contrario ad assumere un atteggiamento di contrapposizione radicale.
Scampato alla prima ondata reazionaria, riprese l’attività cospirativa, in particolare quando, agli inizi del 1849, lo stesso Settembrini, con il quale conservava un forte legame, assunse la direzione del circolo napoletano della setta antiborbonica «Unità italiana», ennesima manifestazione di quella carboneria «riaccesa e riformata» attiva a Napoli nel periodo preunitario; tra i suoi non numerosi componenti, dediti a progettare «i più matti deliri» come «porre una mina sotto Palazzo Reale», il Mignogna si distingueva come «il più matto». La polizia borbonica intervenne a interrompere le trame e, il 23 giugno 1849, il Mignogna e Settembrini furono arrestati con altri presunti cospiratori; nonostante le pressioni, gli inquisitori non riuscirono a provare il coinvolgimento del Mignogna, nemmeno dopo che il 16 settembre 1850 Salvatore Faucitano, altro membro dell’associazione, realizzò l’attentato a palazzo reale, aggravando la posizione dei compagni detenuti che non erano estranei al progetto.
Rimesso in libertà con il verdetto del 19 dicembre 1850, lo stesso che sanciva la fine dell’«Unità italiana» attraverso la condanna dei suoi dirigenti, il Mignogna riprese l’attività cospirativa, impegnandosi nel tentativo di ricostruire i rapporti tra i superstiti democratici napoletani, mentre una nuova organizzazione, la «Setta carbonico-militare», che anche nel nome richiamava l’esperienza dei precedenti gruppi antiborbonici, assunse la direzione dell’intero movimento finendo per attirare ancora l’attenzione della polizia. Nel 1851, quando iniziarono le indagini sulla «Setta», anche il Mignogna fu tratto in arresto, nonostante non ne facesse parte, essendo impegnato a preparare «i mezzi per altre vie, forse più modeste, più pratiche». Dopo una lunga detenzione, a seguito di un rescritto dell’aprile 1854 fu liberato e subito riprese l’attività sovversiva, ritrovandosi quasi costretto dalle detenzioni e dagli esili ad assumere un ruolo di maggiore responsabilità. In collaborazione con Antonietta De Pace puntò da un lato a mantenere i rapporti con i carcerati e collegare i diversi nuclei ancora attivi nelle province e, dall’altro, a rinsaldare il fronte antiborbonico ricercando un’intesa con i moderati napoletani, anche per fronteggiare la concorrenza dei murattisti, i quali stavano ingrossando le proprie fila. Il fallimento di tale strategia, dovuto soprattutto alla diffidenza degli interlocutori; i rapporti intessuti dagli esuli meridionali con i compagni di fede degli altri Stati italiani, estesi anche ai referenti napoletani; infine, l’incontro con Giuseppe Fanelli, il quale, d’intesa con Nicola Fabrizi e Mazzini, dalla metà del 1853 era tornato a Napoli e aveva iniziato a svolgere un’attività pressoché coincidente, spinsero il M. a far confluire definitivamente i relitti delle esperienze carbonare nella più vasta e avanzata rete dei democratici italiani e a stabilire rapporti più intensi con la componente repubblicana e mazziniana.
Il 27 luglio 1855, a seguito della denuncia di un delatore, il Mignogna fu arrestato, accusato, tra l’altro, di aver introdotto clandestinamente a Napoli il giornale stampato da Fabrizi a Malta e di averne promosso la distribuzione presso militari e popolani. Come in passato, il suo comportamento durante gli interrogatori fu, a differenza di tanti altri, di totale contestazione delle accuse e di rifiuto a collaborare. Secondo una voce popolare diffusa all’epoca, proprio in occasione di uno dei tanti maltrattamenti subiti in carcere la capigliatura e la barba, che aveva molto folte, incanutirono di colpo a causa dello sforzo di sopportare le sofferenze inflittegli senza rivelare i segreti di cui era depositario. Nel novembre 1855, in una lettera a Fabrizi, Fanelli informò che la condizione del Mignogna in carcere era «orribile, straziante» e chiese di intervenire, presumibilmente per favorire l’interessamento della diplomazia inglese a Napoli. Non solo la solidarietà, ma anche l’interesse a non ritrovarsi coinvolti spinsero in tale direzione, ottenendo dapprima il risultato di richiamare l’attenzione di opinione pubblica, diplomatici e giornalisti esteri sul processo che dal Mignogna prese il nome; quindi, di operare una pressione per limitare la condanna, pronunciata nell’ottobre 1856, al provvedimento di esilio perpetuo. L’ostinato silenzio del Mignogna consentì a Fanelli, Luigi Dragone, Antonio Morici e agli altri componenti del Comitato segreto istituito nei mesi precedenti, di risultare estranei alle indagini e poter proseguire l’attività cospirativa; tuttavia, la sua forzata uscita di scena costituì, secondo un’espressione utilizzata da Carlo Pisacane all’indomani dell’arresto, una «sciagura grandissima», soprattutto perché privava il gruppo di colui che più di tutti era al centro della trama.
A fine ottobre, il Mignogna raggiunse Genova, dove trovò ad accoglierlo Pisacane, col quale era in corrispondenza da prima dell’arresto onde studiare il modo per conferire maggiore impulso all’iniziativa dei democratici nel Mezzogiorno, e il fratello del cognato, Federico Salomone, membri del Comitato degli esuli napoletani a Genova; qui il ruolo del Mignogna divenne presto rilevante, anche per il peso che i suoi pareri, costantemente richiesti e addotti da Pisacane a sostegno delle proprie tesi nella corrispondenza con Fanelli, ebbero nelle decisioni assunte in merito alla spedizione, che intanto si andava definendo. Non è da escludere che la risolutezza del Mignogna contribuì ad influenzare Pisacane, come rivela, ad esempio, il giudizio espresso in merito al sostegno dei detenuti a Ponza, del tutto divergente dall’opinione di Fanelli, come di consueto incerta e altalenante. Il 4 giugno il Mignogna prese parte a Genova alla riunione durante la quale, alla presenza di Mazzini, fu deciso di dare corso alla spedizione di Sapri; ormai prossimo ai cinquant’anni e provato fisicamente dalle lunghe detenzioni, il Mignogna, che non era stato e non sarà mai uomo d’armi, non partecipò all’impresa, limitandosi a mantenere i contatti telegrafici con Fanelli.
Il drammatico esito della spedizione produsse inevitabilmente una forte delusione, non sufficiente però ad annullare nel Mignogna i propositi di una vita, sicché nel 1860 fu tra i Mille a salpare da Quarto, inquadrato nella 3a Compagnia comandata da Francesco Stocco e composta da calabresi e pugliesi, in maggioranza di grande prestigio, ma ormai avanti negli anni. Nelle battaglie che ebbero luogo durante l’impresa non figurò, limitandosi a cooperare soprattutto a livello organizzativo in qualità di capitano tesoriere.
Dopo la conquista di Palermo, fu inviato da Garibaldi sul continente, assieme con V. Carbonelli e L. Vinciprova, con il compito di promuovervi insurrezioni popolari e agevolare la risalita delle Camicie rosse verso Napoli; da Genova, dove inizialmente si era recato forse anche per valutare la possibilità di assecondare il progetto mazziniano di una seconda spedizione che dal Nord avrebbe dovuto convergere su Roma, il 13 luglio il Mignogna si imbarcò per Napoli; qui intanto al Comitato unitario si era affiancato il Comitato dell’Ordine, d’ispirazione moderata, il quale, seguendo le indicazioni di C. Benso conte di Cavour, tentava di tenere sotto controllo l’impresa garibaldina per evitare soluzioni autonomistiche e repubblicane. I contrasti e i sospetti che caratterizzavano i rapporti tra le due componenti aumentarono quando il M. elaborò il progetto di recarsi in Basilicata per favorirvi l’insurrezione, avendo ricevuto, il 31 luglio, una lettera da Garibaldi in cui si sottolineava come «ogni movimento rivoluzionario, operato nelle provincie napoletane», sarebbe stato «non solamente utilissimo», ma avrebbe anche conferito al suo sbarco sul continente «una tinta di legalità in faccia alla diplomazia». Come soluzione di compromesso, il Comitato dell’Ordine impose di affiancare al Mignogna Camillo Boldoni, ufficiale dell’esercito piemontese venuto in contrasto con lo stesso Garibaldi durante la guerra del 1848.
Partiti da Napoli l’11 agosto con sole altre quattro persone, giunsero prima a Montemurro, dove incontrarono Giacinto Albini, e, quindi, si trasferirono a Corleto, dove il 16 agosto fu proclamata l’insurrezione. Nello stesso giorno, mentre il Mignogna si recava a Potenza per mobilitare i liberali locali, da diversi centri abitati colonne di volontari si concentrarono sotto la guida di Boldoni, per marciare il 18 agosto verso Potenza, dove, lo stesso giorno, dopo aver vinto la debole resistenza della guarnigione borbonica, fu proclamato il governo provvisorio, col Mignogna e Albini prodittatori e Boldoni capo delle milizie insurrezionali. Tale evento contribuì a determinare la decisione degli ufficiali borbonici stanziati in Calabria di ritirarsi verso Napoli, per evitare di essere presi tra due fuochi e, quindi, ad agevolare e accelerare la risalita di Garibaldi, sicché già il 4 settembre il Mignogna e altri poterono incontrare il generale al fortino di Lagonegro e con lui giungere a Napoli il 7 settembre. Intanto, poiché Boldoni, su indicazione del marchese Salvatore Pes di Villamarina, premeva per accelerare i tempi dell’annessione della Basilicata al Regno sabaudo, il 6 settembre Garibaldi, sollecitato in tal senso dal Mignogna, provvide a rimuovere Boldoni dall’incarico, invitandolo a «riprendere il suo posto nell’armata Sarda»; inoltre, affidò la prodittatura al solo Albini e ordinò al M. di unirsi a lui.
Dopo la battaglia del Volturno e la partenza del generale da Napoli, il M. si dimise dall’esercito garibaldino e riprese l’attività politica all’interno del gruppo democratico napoletano, tornando a quei compiti organizzativi che più gli erano congeniali: fin dal giugno 1861 assunse la vicepresidenza «per elezione» del Comitato partenopeo di provvedimento per Roma e Venezia (presieduto da A. Saffi su designazione di Garibaldi); promosse la costituzione dell’Associazione del tiro a segno; cooperò per reperire i fondi per la pubblicazione del Popolo d’Italia; coinvolto anch’egli dalla dura polemica che vide contrapposti Fanelli e Giovanni Nicotera, fu chiamato a far parte del giurì che avrebbe dovuto dirimere definitivamente la questione. Quindi, il 28 giugno 1862, accompagnò Garibaldi a Palermo, nel tentativo di promuovere una nuova spedizione che, partendo dalla Sicilia, sarebbe dovuta giungere a Roma; il 29 agosto, poco prima che Garibaldi fosse fermato sull’Aspromonte dall’esercito italiano, il Mignogna aveva ricevuto l’incarico di precedere la colonna per mobilitare i Lucani, sulla scia di quanto avvenuto due anni prima.
L’anno successivo, alle elezioni suppletive per il Consiglio comunale di Napoli, il Mignogna fu il più votato tra i democratici grazie anche al sostegno del ceto popolare presso il quale godeva di grande prestigio; nello stesso anno entrò in massoneria, insieme con Nicotera, affiliandosi alla loggia napoletana «I figli dell’Etna».
Nel 1865 fu confermato consigliere comunale ma, nonostante l’età e i malanni crescenti, continuò a restare affascinato dal programma garibaldino, sicché nel 1867, con l’aiuto dei nipoti, simulò uno scavo archeologico al confine con lo Stato pontificio per attrezzare un deposito di armi. Dopo la sconfitta di Mentana, la sua partecipazione alla vita pubblica diminuì sensibilmente; si trasferì a Giugliano in Campania e prese in affitto una porzione del lago Patria per sfruttarlo per la pesca, riprendendo l’attività svolta anni prima dal padre a Taranto. Presto però le sue condizioni fisiche si aggravarono. Morì a Giugliano il 31 gennaio 1870.

FONTE: voce di A. CONTE in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2010, vol. 74.