giovedì 28 febbraio 2019

La Basilicata medievale. 13. Un'iscrizione bizantina a Pescopagano

Del VII secolo, un periodo abbastanza oscuro per la Basilicata, è un documento epigrafico notevole, venuto alla luce dai ruderi di quello che una volta era il tempio religioso più importante della comunità di Pescopagano. Si tratta di una pietra squadrata di favaccino locale, collocata all'interno della Chiesa Madre di Santa Maria de Serris, subito dopo l'ingresso principale, sulla sinistra, murata nella parete portante e scampata alla demolizione effettuata dopo il terremoto del 1980.
I caratteri sono ancora leggibili e la iscrizione è abbastanza ben conservata. Essa ha un valore notevole sul piano storico, perchè conferma da una parte che il sito di Santa Maria a Pescopagano ospitava da tempi abbastanza antichi attività di culto e  certifica, altresì, anche che nella zona a cavaliere tra Basilicata e Irpinia il culto cristiano era già ampiamente diffuso prima della elevazione a sede vescovile di Conza, nell'VIII secolo.
Inoltre, si confermano le ipotesi dei medievisti che vogliono Pescopagano come luogo dell'ultimo riparo dei goti nella guerra con i bizantini, che qui, sotto la guida del tartaro Ragnari, trovarono riparo nel 554\555 e vennero assediati dalle truppe di Narsete che, con l’uccisione del condottiero goto, mise termine alla dominazione gotica in Italia (Agatia, Storie, II 13, 1 ss.); nel periodo gotico-bizantino esisteva, quindi, nella zona già un centro urbano importante, con luoghi di culto ornati da iscrizioni in pietra e, quindi, già sufficientemente evoluto ed articolato.

L’iscrizione è senz'altro di epoca bizantina. Il testo è il seguente:

+ Enesi + Phestesi 
+ theos + pater + is- 
+ schyros + 

Si tratta, comunque, di un'iscrizione greca traslitterata in carattere latino:
+ ainesis + apheseos “sia lode e ringraziamento per la liberazione (dai peccati) 
+ theos + pater a dio padre
+ ischyros + santo, forte ed immortale”

giovedì 21 febbraio 2019

Risorgimento lucano. 31. Su un libro del 2014

Nell'interessante lavoro di Pasquale Montesano, Rivolta legittimista e brigantaggio a Favale (Potenza, EditricErmes, 2014), ben focalizzando e trattando, con minuzioso utilizzo della documentazione disponibile, i differenziati obiettivi portanti ruotanti intorno alla “questione terra”, da parte di già grandi proprietari e contadini poveri, opportunamente ne legge andamento ed esiti nei loro diretti ed indiretti intrecci con le più complessive forme, non solo locali, di progettualità e pratiche politiche attuatesi sul terreno del legittimismo filo borbonico. 
E ciò soprattutto nella dimensione brigantesca che – com'è noto – assunse in Basilicata espressioni molto cruente, al centro, anch'esse, di rinnovate ricostruzioni e letture volte ad adeguatamente riconsiderare la questione brigantaggio nella complessità ed articolazione delle sue espressioni socio-professionali e territoriali, in accurata contestualizzazione, genera-le e locale, dai plebisciti di annessione al dopo Sarnico ed Aspromonte, alle premesse e  riflessi della legge Pica. 
Lungo fasi, dunque, differenziate e distinte, per la lettura delle quali risulta di indubbio interesse l’attuale apporto di Pasquale Montesano, che, attraverso ampia e dettagliata documentazione, riconduce a prevalenti interessi ed odi di parte la pratica di tale fenomeno per la comunità e l’area analizzate.  
Con ciò si concorre ad una vera e propria smitizzazione del brigantaggio, opportunamente ricondotto al contesto politico-istituzionale e socio-economico del tempo, al di là di produzioni di diffuso taglio  romanzato e romanzesco, spesso frutto di operazioni nelle quali la storia risulta disinvoltamente piegata e violentata, fino a renderla complice di disinvolte attrazioni turistiche sul territorio. Laddove, invece, proprio rigorose operazioni di recupero e di utilizzo di documentazione archivistica, come nel caso di Favale e non solo, possono positivamente con-tribuire, insieme con il recupero e la valorizzazione di interessanti elementi identitari locali, a più complessivi percorsi di ricostruzioni e di analisi di periodi ed aspetti particolarmente significativi della storia più generale, oggi al centro di sempre più larghe attenzioni, quale, appunto, quella relativa alla difficile costruzione dell’Italia unita.

giovedì 14 febbraio 2019

La Basilicata moderna. 31. Il brigante Pagnotta (Ambrogio Quinto)

La banda di Nicola Abalsano, detto Pagnotta, fu protagonista di un saccheggio sanguinoso, a Pisticci, nel 1808: dopo le efferatezze commesse a Sant’Arcangelo, Tursi e Rotondella, la banda, infatti, si era rafforzata ulteriormente con l’ingresso di alcuni ex militari borbonici, sbandati e ricercati dalla polizia francese, briganti calabresi guidati dal capomassa Mezzacapo.
 Nel febbraio 1808, i briganti di Pagnotta, dopo alcuni mesi di “inattività”, si trasferirono dal bosco di Policoro (dove avevano “svernato”) nell’interno, per poter entrare a Pisticci e saccheggiarla. 
Un piccolo gruppo affidato a Francesco Antonio Vicino di Oriolo si era collocato in una località strategica denominata Catoio (o Catoi), in Val Basento, luogo ideale di appostamento e di controllo di un vasto territorio di cui Pagnotta era venuto a conoscenza che potesse costituire una notevole entrata per il suo relativo benessere economico e mercantile, tra l’altro con il conclamato obiettivo di “punire” la comunità pisticcese che aveva giustiziato Natale Bolognese. 
Il piano per l’attacco fu accuratamente studiato in ogni particolare: vennero inviati anche, nei giorni precedenti, alcuni briganti travestiti da “monaci-cercatori” per individuare la posizione delle abitazioni delle famiglie ricche e preparare le modalità dell’attacco ed alla fine, per entrare nel paese, fu escogitato uno stratagemma, che non era una novità, ma costituiva il copione più classico di cui tutte le bande si servivano. Pagnotta, infatti, inviò a Pisticci un suo messaggero calabrese, Antonio Rasola, per comunicare che il proposito della banda era quello di entrare amichevolmente in paese per fare dono alla popolazione di una bandiera borbonica, ricamata dalla regina Maria Carolina.
La voce si diffuse ben presto e purtroppo in molti prestarono fede alle promesse del capomassa, mentre il comandante della Guardia Civica Pietro Filippo Latronico rimaneva all’erta. Tra i più ricchi proprietari di Pisticci, il Latronico, nato nel 1780, era stato, tra l’altro deputato dell’Università e componente del pubblico parlamento. 
Egli non esitò a respingere fermamente la proposta, essendo ben radicata in lui la convinzione che lo scopo principale dei briganti fossero il saccheggio e la distruzione, mascherati con un fine politico. Il comandante commise un grave errore, che irritò non poco Pagnotta, nel trattenere come prigioniero il messaggero, e rispondendo, quindi, con il silenzio alle proposte dei briganti, che indugiarono ancora alcuni giorni, riuscendo ad assumere altre preziose informazioni sullo stato del paese, sulle sue ricchezze, sugli avversari della monarchia borbonica, sui sostenitori del governo francese, servendosi delle notizie che erano loro comunicate da elementi del comitato borbonico locale e dai contadini pisticcesi che erano impegnati quotidianamente a Scanzano e Policoro. Anzi, questi riferirono che la popolazione di Pisticci, contrariamente alle autorità, sarebbe stata ben disposta ad accoglierli. E la cosa corrispondeva, in un certo senso, a verità. 
Il Latronico conosceva bene la particolare situazione del paese e quanto uomini e mezzi di cui disponeva fossero del tutto inadeguati a sostenere l’urto dei paventati cento briganti.
 Erano giunti, intanto, a Pisticci, da Policoro, due contadini che confermarono le intenzioni dei briganti, che si proclamavano soldati «veri ed insorgenti», con divisa borbonica ed in numero rilevante. I due, anzi, avevano notato la loro perfetta organizzazione militare, armati di tutto punto, per cui era preferibile non opporre resistenza alcuna, anche perché ogni tentativo di ribellione sarebbe stato considerato come una sfida al Borbone. Fu, altresì, ribadito che i briganti non avevano intenzione di fare del male e che la loro era solo una dimostrazione di grande fedeltà al Regno borbonico, in un paese che peraltro aveva sempre espresso solidarietà al trono di Ferdinando IV. Era più che evidente che i contadini-ambasciatori erano stati ben istruiti su quello che dovevano riferire. 
Verso il mezzogiorno del 28 febbraio, mentre quasi tutte le famiglie pisticcesi si accingevano a consumare il loro pasto, prima di uscire per festeggiare l’ultimo giorno di carnevale, nonostante l’abbondante neve caduta nei giorni precedenti e quando ormai si riteneva che la banda Pagnotta avrebbe desistito dall’entrare, i primi briganti fecero improvvisamente la loro apparizione all’estrema periferia del centro abitato. 
 Il comandante Latronico, avvisato tempestivamente, dotò di armi i suoi legionari, intenzionato alla estrema difesa, mentre i briganti, dal canto loro, cominciarono a sventolare la bandiera borbonica e molte donne risposero a quel segnale con lo sventolio di fazzoletti, in segno di amicizia, di festa e giubilo. Alcuni si avvicinarono addirittura ai briganti, mantenendo le briglie alle loro cavalcature in atteggiamento di sottomissione e qualche legionario, in preda a paura e timore, abbandonò la truppa per mescolarsi, cambiatosi d'abito, alla piccola folla in festa. Il Latronico, a questo punto, si convinse che non avrebbe potuto frenare l'impeto dei briganti.  Anche un drappello della Guardia Civica giunta da Ferrandina, al comando di Giacomo De Leonardis, notò lo strano “abboccamento” tra gran parte dei pisticcesi e briganti: per questo decise di abbandonare, con lo stesso Latronico, il paese in balìa dei briganti, che non persero tempo a manifestare le loro vere intenzioni, dandosi al saccheggio: giunti nella Piazza Grande i briganti si proposero di liberare i detenuti per dare un senso politico alla loro azione. Al custode delle carceri Giuseppe Sangiorgio chiesero una scala per penetrare nella prigione ma, poiché egli esitava, venne ucciso senza pietà.
 Nel vicino quartiere Loreto, dove abitavano numerosi “bracciali”, alcuni sacerdoti e piccoli proprietari, furono trucidate altre cinque persone: lo stesso Pagnotta decapitò prima e mutilò poi di una gamba l'anziano farmacista, solo perché lo aveva sorpreso sul suo balcone di casa mentre osservava le sue mosse, e subito dopo infilzò con la sciabola il figlio. 
Molte abitazioni cominciarono ad essere saccheggiate, senza risparmiare nemmeno i luoghi sacri: dodici pisticcesi, che avevano cercato di trovare scampo in Chiesa Madre furono prelevati con la forza per essere tradotti in campagna, come ostaggi. 
 Giuseppe Viggiani, guardia civica, quando seppe che i briganti erano entrati in paese, si alleò con i briganti, offrendosi di far loro da guida ma, per la sua pesante mole, non riuscì però a mantenere il passo dei più agili briganti, che si allontanarono sempre più da lui, al che Pagnotta gli scaricò in pieno petto numerosi colpi, lasciandolo cadavere nella strada. Anche un altro cittadino pisticcese, Leonardo Pasquariello si mise a disposizione dei briganti guidandoli nelle case più ricche, tra cui quella della famiglia Latronico, dove fece un buon bottino personale. Ancora non pago, si recò nel rione Marco Scerra alla ricerca di altre case da saccheggiare, ma un brigante, credendolo una spia, gli troncò di netto il capo e, dopo aver bevuto il sangue che sgorgava abbondante dalle vene recise, il brigante si recò nella vicina piazza, tenendo tra le mani, come macabro trofeo, il capo troncato del Pasquariello, che lanciò contro una lastra di marmo. 
Dopo circa sei ore di saccheggio e di terrore Pagnotta e la sua banda abbandonarono il paese, portando con sé, oltre ai dodici ostaggi, anche la giovanissima Lucia Lazazzera, figlia del “Magnifico” Nicola, che aveva trovato scampo in Chiesa Madre, e nipote del sacerdote Carlo Lazazzera, che oppose un netto rifiuto a cantare il Te Deum in onore alla vittoria dei briganti.
Qualche giorno dopo, i briganti di Pagnotta vennero sorpresi, mentre dividevano il pingue bottino, ed attaccati, nei pressi del Castello di San Basilio, da un distaccamento di dragoni francesi, al comando del capitano Stefano Pittaluga: alcuni ostaggi riuscirono a fuggire, mentre la Lazazzera venne scambiata per una di loro e crudelmente percossa dai soldati. Tentò invano di darsi alla fuga, ma, raggiunta, fu travolta dai cavalli, perdendo la vita, ed il suo corpo rimase confuso tra quelli dei briganti uccisi e fu sepolta nel convento francescano.
I danni ed i disagi causati dall’attacco di Pagnotta furono gravissimi, con molte famiglie spogliate anche del poco che avevano, sicché l’agricoltura andò in crisi e pochi si avventuravano nei campi; il lavoro cominciò a scarseggiare e si viveva nel continuo timore di un immediato ritorno di altre bande di briganti. Molti pisticcesi ebbero a pentirsi dell’appoggio offerto al Pagnotta, mentre altri, per mancanza di mezzi e prospettive sicure, ritennero opportuno rinviare ad altra data i progetti di formare nuove famiglie. Nel 1807, infatti, si registra un graduale decremento di matrimoni, appena sessantacinque, contro i centosei dell’anno precedente.
L’atteggiamento dei pisticcesi, anzi, fu considerato un vero e proprio “tradimento” dal generale francese Louis Franceschi di Nizza, comandante per la Sicurezza della Provincia di Matera e già luogotenente del generale Massena, che giunse a Pisticci, intenzionato a smascherare i responsabili e i complici dei briganti. Fu il comandante Latronico che cercò di far ragionare il francese, spiegandogli la situazione, poiché non tutti erano responsabili di quanto accaduto, sicché Franceschi cambiò idea, ma volle necessariamente un capro espiatorio e lo trovò nei tre falsi ambasciatori, detenuti del carcere pisticcese, che fece passare per le armi. Ma il generale volle anche imporre alla popolazione una tassa di circa 800 ducati. 
Il 9 marzo 1808, infine, dopo un processo sommario, furono fucilati a Matera Ambrogio Gaeta e padre Carlo da Pisticci, promotori del Comitato Insurrezionale, quali «amici e fautori dei briganti» e sepolti nell’ipogeo della Chiesa di S. Francesco da Paola..
Il 27 marzo vennero giustiziati due collaboratori del Gaeta, Paolo Masiello e Ambrogio Tricchinelli. Dai registri della Chiesa Madre, si rileva un particolare importante: l’arciprete del tempo, Pietro Antonio Laviola definiva gli uomini di Pagnotta «insurgentes» e «volgarmente detti briganti», attribuendo ad essi quasi una connotazione “patriottica”. Infine, catturati dai francesi, anche i fratelli Pagnotta furono giustiziati a Matera.
BIBLIOGRAFIA: 
CONIGLIO G., Il Brigantaggio nella Terra di Pisticci, Pisticci, IMD Lucana, 1990.
ID., Il brigante Pagnotta. Nicola Abalsamo (1762-1808), Cavallino di Lecce, Capone, 2003.

giovedì 7 febbraio 2019

La Basilicata moderna. 30. La nuova configurazione territoriale napoleonica

L’articolazione politico-amministrativa della Basilicata venne, dal 1806 così organizzata: 

POTENZA (Intendenza) (Pignola), Melfi (Lavello), Venosa (Maschito), Barle (Rapolla, Ripacandida), Santofele (Pescopagano, Ruvo, (Rapone), Muro (Castelgrande), Bella (Baragiano Ruoti), Rionero (Atella), Tito (Picerno, Pietrafresa), Avigliano, Tolve (Cancellara, Albano, S. Chirico), Tivigno (Anzi, Brindisi, Vaglio), Calvello (Abriola), Corleto (Laurenzana, Guardia), Viggiano (Marsicovetere, Tramutola, Montemurro, Armento).
MATERA (Sottointendenza), Montescaglioso (Pomarico), Montepeloso (Genzano, Oppido), Santarcangelo (Roccanova, Aliano, Missanello Gallicchio), S. Mauro (Gorgoglione, Cirigliano, Stigliano), Accettura (Pietrapertosa, Oliveto, Garaguso, Castelmezzano), Ferrandina (Salandra, Miglionico), Pisticci (Bernalda), Tricarico (Grassano, Grottole), Spinazzola (Palazzo, Montemilone), Acerenza (Forenza, Pietragalla). 
LAGONEGRO (Sottointendenza) (Lauria), Moliterno (Sarconi, Castelgrande), Maratea (Rivello, Trecchina), La Rotonda (Castelluccio), Viggianello, Papasidero), Carbone (Latronico, Calvera, Episcopia), S. Chirico (S. Martino, Spinoso), Chiaromonte (Senise, S. Severino, Fardella, Francavilla, Castronuovo, Teana), Noja (Cersosimo, Casalnuovo, S. Giorgio, S. Costantino, Terranova), Rotondella (Colobraro, Favale, Rocca Imperiale), Montalbano (Tursi, Craco). 

Nel 1811, con apposita legge fu istituito il quarto distretto lucano con capoluogo Melfi: un giusto riconoscimento a favore di un territorio omogeneo e dotato di una ben precisa identità socio-economica e per favorire un piano territoriale più razionale. Vi confluirono buona parte dei comuni dell’area nord del Distretto di Potenza e da quello di Matera furono trasferiti i comuni di Palazzo S. Gervasio, Forenza e Montemilone.