giovedì 21 luglio 2022

Potenza. 5a. Le tradizioni relative all'infanzia



Ricordi e note su costumanze, vita e pregiudizio del popolo potentino, di Raffaele Riviello, si presenta come un compromesso tra aspetti della cultura liberale e il conservazionismo sociale. Di grande importanza per i contenuti antropologici raccolti all’interno, l’autore incita il popolo lucano a non lasciar andare le antiche tradizioni, anzi di preservale, per poter meglio condividere l’idea di patria, stretto dall’amore dei figli di un’unica terra. 

Il volume nasce da una serie di raccolte di novelle di tipo descrittivo che l’autore scriveva per alcuni periodici lucani tra gli anni Ottanta e Novanta del XIX secolo. In un secondo momento li raccolse in un unico scritto, di grande interesse antropologico, dove trova spazio anche un’appendice storica sulla città di Potenza. 

Diviso in dieci capitoli, l’opera tratta tutti gli aspetti, con usi, consuetudini, modi di pensare del contadino potentino, a partire dalla sua nascita fino alla morte, senza far mancare al lettore deliziosi regressi storici che raccontano come le abitudini siano mutate nel tempo, in corrispondenza con i cambiamenti politici che decretano talvolta la perdita di taluni usi. 

Nel primo capitolo tratta i tre punti salienti della vita del popolo potentino: la nascita e il battesimo, il matrimonio e la morte. Nel trattare la nascita si parla inevitabilmente della donna incinta, o per meglio dire “prena”, che era socialmente investita da un’aura sacra: a lei l’intera comunità riservava dei riguardi. Si avevano particolari attenzioni nel non farle avvertire desideri collegati al cibo, in quanto il desiderio non appagato avrebbe potuto causare dei danni al nascituro: le cosiddette vulii (voglie), ovvero macchie sulla pelle o nei, che pare fossero da collegarsi ai desideri inesauditi della donna nello stato di gravidanza. 

Se la donna affrontava l’ennesima gravidanza tutte le dolci attenzioni le venivano negate. Molte di loro, infatti dovevano continuare ad aiutare nella gestione della campagna e se si fossero rifiutate avrebbero subito l’ira del marito, con calci nei fianchi e qualche pugno nella schiena.

La nascita era un momento importantissimo, in base al sesso si stabiliva se essere lieti o meno dell’evento; infatti con la femmina nasce il duolo, con il maschio nasce l’augurio, soprattutto per i primi parti. Questo pregiudizio era in parte dovuto alla diceria che sin dalla sua nascita una bambina necessita di maggiori cure, arrecando mille fastidi alla famiglia. 

Nei giorni successivi si pensava al battesimo, alla scelta del compare e della comare e alla pulizia della casa della puerpera. In questo giorno di festa si faceva sfoggio del corredo sposalizio, si preparava anche il neonato, che veniva fasciato nella migliore biancheria, chiamato mbascianna con qualche merlettino decorativo sulle maniche, con una cuffia piena di nastri, dette fettuccine, con qualche spilla e collana d’oro. Il battesimo si celebrava all’interno della chiesa, un posto distinto veniva dato ai compari che spesso si vedevano al fianco dei genitori naturali, in quanto ricoprivano un ruolo analogo, nella parentela spirituale. Finita le cerimonia, il compare donava qualche moneta nel sacchetto dell’acqua santa, per poi tornare a casa del battezzato, dove si ricevano le viste per i dovuti auguri. Qui si offrivano li cumpliment’, ovvero delle leccornie che variavano in base allo stato economico della famiglia: prima si offrivano ceci o fave arrostite o cotte accompagnate da brocche colme di vino, mentre verso l’inizio del XIX si mutò nell’offrire i mustacciuoli (paste secce) accompagnati dell’acquavite, divenuti sinonimo di agiatezza e di manifattura casereccia. Alla mancanza di dolciumi si suppliva con l’utilizzo dell’acquavite, col mosto cotto e con il miele. 

Nell’infanzia il bambino veniva ricoperto di amuleti che doveva proteggerlo da una possibile iettatura o dal maluocchio, e quindi gli si facevano indossare abitini ripieni di immagini raffiguranti figure di santi, cornicielli, zanna di cinghiale incastonata in cerchietto di argento e qualsiasi altro amuleto ritenuto utile nell’intento. Tale superstizione sfociava anche nelle malattie: se al bambino fosse capitato quale malanno, si chiamava prima il prete o qualche donna esperta in arti magiche, che con qualche recitazione, orazione o lettura del vangelo di S. Giovanni avrebbe liberato il giovinetto da tutti i malanni. 

L’educazione era spartana, così com’era sparato l’abbigliamento costituito da una camicia e un abito sano che copriva tutto il corpo, fungendo da giacchetto, da panciotto e da calzone; e le calzature erano pressoché inesistenti. Non c’era cambio di vestiario in base alle stagioni, rimaneva immutato senza badare se ci fosse la neve o se picchiasse il sole. 

L’istruzione era scarsa e ristretta, le scuole pubbliche inesistenti e solo qualche prete fungeva da maestro e teneva scuola in casa, a volte poi veniva retribuito con qualche spicciolo alla mesata, altre con qualche gallina nelle feste sollenn o con quant’altro le povere famiglie riuscivano a donare per sdebitarsi. Come testo veniva utilizzato l’Abicidaria (abbecedario) e lu libr’ di li sett tromb (libro delle Sette Trombe). Saper leggere, riuscire a fare due “sgorbi” che ricordassero delle lettere era un vanto, ma l’esigenza di una adeguata istruzione non era sentita in quella vita che era scandita solo dalla generosità della terra. Si pensi che fino al 1860 la posta da Napoli era consegnata solo una volta a settimana, andandola a prendere il pedone Acierno da Auletta; nell’ufficio postale per tutta la provincia c’era solo un dipendente, il buonfantini che ne era Direttore e impiegato. 

L’educazione altrettanto spartana; nelle scuole si era soliti prendere a schiaffi, pugni, frustate e così via l’alunno per impartire la giusta educazione. La più barbara delle correzioni era la cavadda, ovvero si faceva prendere l’alunno sulle spalle da uno più grande, mentre il maestro scaraventava colpi feroci di frusta sulle spalle e sulle natiche del ragazzo, che incurante delle urla sempre più forti del giovane, talvolta provocate dell’uscita del sangue, continuava fin quado voleva. 

giovedì 7 luglio 2022

Il Mezzogiorno contemporaneo. 2. Studiosi-antropologi nel tardo Ottocento lucano

Gli studi attinenti le tradizioni popolari in Basilicata cominciarono grazie all’impegno dell’abate Francesco Paolo Volpe, storico materano, vissuto a cavaliere tra Settecento e Ottocento, che scrisse un notevole numero di opere con al centro la città di Matera, riguardanti non solo le vicende storiche della cittadina, ma anche studi legati all’aspetto religioso che sfociarono in studi sulle festività patronali. 

Nel 1867 Teodoro Ricciardi dedicò una monografia alla storia del centro di Miglionico con alcune pagine relative alle tradizioni della popolazione. Il canonico Teodoro Ricciardi nella Notizie storiche di Miglionico, infatti, ci fornisce la descrizione del costume festivo della popolana miglionichese che venne usato fino all’inizio del XIX secolo: 

"La maniera di vestire delle donne, sino a’ principii del secolo corrente, era tutta un costume greco, come vedesi tuttavia nella limitrofa Ferrandina: cioè, una gonnella a color rosso, detto perciò camicia rossa, con vestiseno a colore, ed una giacca a maniche corte ornata di galloni. Sulla testa poi un panno bislungo, con voce greca detta spargano, che copriva testa, spalla, e braccia".

Anche Pani Rossi nel suo scritto del 1868, La Basilicata libri tre, studi politico amministrativo e di economia pubblica, ci fornisce una descrizione del costume tradizionale di vari paesi: 

"[la donna lucana] veste tutta o parte di panno, di più colori: perso in Latronico e in Carbone, vario poi ne’ tempi di lutto: qua e là nerognolo e a doppia gonna: rosso a Ferrandina: verde a Ruoti, giallo a Maschito: blue a Lauria ed in Avigliano. Ora ha il capo ricuoperto pur di un panno riquadro, ch’è perso in Moliterno, listato bianco e nero in Viggiano: altrove in un lino bianchissimo e leggiadro in Avigliano […]. Anco il corpetto che si allaccia sul seno ed ha maniche distaccate offre gran vaghezza e varietà di colori: scarlatto in Moliterno, turchino a Lauria, perso in Carbone, Castelsaraceno e Latronico".

Rimpiangendo la scomparsa graduale del costume tradizione, parla anche della perdita delle processioni di lustrazione dei campi e propiziazione del raccolto, abolite perché considerate inefficienti per il fine che si prefiggevano vantandosi di averle abolite lui stesse. In effetti il tono malinconico sulla perdita di usi e costumi lo troviamo solo sulle “vestimenta”, mentre ci viene descritto con tono derisorio il credito popolare che veniva dato a credenze soprannaturali.

Della perdita o riduzione delle usanze legate alle feste campestri primaverili e autunnali parla anche Ricciardi, ma affronta il tema in chiave nostalgica, soffermandosi sul tema della scomparsa, rovina o distruzione di molte cappelle rurali che sorgevano all’esterno del paese e la sensibile riduzione delle feste a loro legate. Questo cambio fu in parte frutto delle ideologie permeate nel periodo francese, con le limitazioni anti-ecclesiastiche ma anche dell’instabile atmosfera che si era venuta a creare con il nascente Stato laico liberale. 

Molto interessanti sono, inoltre, gli studi storiografici di Angelo Bozza riguardanti l’area del Vulture-Melfese dove l’autore si soffermò su alcune minoranze etniche, occupandosi delle tradizioni popolari dei paesi albanesi della zona del Vulture. 


Le perle lucane. 4. Maratea

 «Dal Porto di Sapri, che aperto è fama inghiottisse la celebre Velia, raccordata dal Poeta dopo Palinuro, nel golfo di Policastro, à dodeci...