giovedì 26 novembre 2020

Personaggi. 25. Luigi La Vista

Luigi La Vista nacque a Venosa il 31 gennaio 1826 da Nicola, medico, e da Maria Padrone. Primo di tre figli, crebbe in una famiglia modesta ma di buona levatura culturale e salda nella sua fedeltà alla tradizione rivoluzionaria e repubblicana; e quando a cinque anni perse la madre, si legò moltissimo al padre in cui trovò la comprensione di cui aveva bisogno il suo carattere sensibile, introverso e portato al pessimismo.

Nel 1836 entrò nel seminario di Molfetta per compiervi gli studi superiori. Inizialmente il La Vista si adattò bene al clima di un seminario che, tradizionalmente affidato a docenti assai validi, parve soddisfare in pieno il suo desiderio di apprendere; presto però avvertì con crescente fastidio il peso del conformismo gravante sui corsi e il servilismo cui gli pareva fossero costretti gli alunni.
Reagì chiudendosi ancor più in se stesso e rifugiandosi nelle letture più varie, affascinato soprattutto dalla poesia: trovò così in Leopardi "il diario di una buona parte della mia giovinezza" a ciò incoraggiato dal parallelismo che non tardò a scorgere tra l'infelice condizione umana del poeta e la propria sofferta vita interiore. Poi, sull'esempio di un amico molfettese, G. de Judicibus, che nel 1839 aveva recitato le sue rime in un'accademia letteraria tenutasi in seminario, dal 1842 anche il La Vista prese a comporre versi, quasi tutti influenzati dai modelli del romanticismo e dettati da un incontenibile desiderio di mettersi a nudo: temi prediletti erano la ricerca vana della felicità, il dolore come elemento costitutivo della vita umana, il presagio della fine imminente, il tormento dell'amore deluso; il tutto raccontato con qualche eccesso di ingenuità, cui va forse fatta risalire la successiva decisione del La Vista di dare alle fiamme le sue liriche giovanili che si sarebbero conservate solo grazie alle copie che ne avevano fatto gli amici.
Lentamente, in questa estetica della disperazione, si facevano strada intanto il motivo del patriottismo e la vaga aspirazione a un mutamento delle condizioni di vita delle genti meridionali. Avvertiti confusamente come retaggio della tradizione familiare, tali sentimenti si precisarono nel momento in cui, passato a Napoli nel 1844 per seguire i corsi di giurisprudenza all'Università, il La Vista, dopo un anno di studio improduttivo, cominciò a frequentare la scuola privata di Francesco De Sanctis.
Accanto a compagni di studio come Villari,  De Meis, Marvasi e sotto la guida ferma di un De Sanctis ammirato dagli allievi per il suo metodo di insegnamento che ancorava l'ideale alla concreta realtà del fatto e sottolineava il valore civile della letteratura, il La Vista non rinunciò del tutto al bisogno di guardarsi dentro, ma cercò di soddisfarlo anche in relazione a ciò che aveva intorno e che sempre più gli appariva come il frutto di una situazione politica e sociale penalizzata dall'assenza completa di libertà. Le discussioni che avevano luogo nella scuola a completamento della didattica chiarivano poi, nel rifiuto di ogni astrattezza, il senso dello sviluppo storico come un processo affidato alla volontà e all'impegno di ogni individuo.
Perciò nei tre anni che precedettero il 1848 l'attenzione del La Vista si spostò verso i testi di storia, da quelli classici (Tucidide, Sallustio, Tacito: ne ricavava un forte disgusto verso la Roma imperiale) fino ai moderni (Machiavelli, Guicciardini); tra i contemporanei, la simpatia per Rousseau e Voltaire diventava calda ammirazione nei confronti di Thierry e di Simonde de Sismondi in quanto storico delle repubbliche
Il lungo lavoro di preparazione cominciò a concretizzarsi in forma di saggi critici all'inizio del 1848, allorché il La Vista scrisse, nel clima di attesa diffuso dalla lotte per l'indipendenza nazionale, la prefazione per una nuova edizione napoletana delle poesie di Giovanni Berchet, e quindi pubblicò due lavori: uno su Vittoria Colonna e i petrarchisti e uno Studio sui primi secoli della letteratura italiana (entrambi Napoli 1848): quest'ultimo era uno scritto di 40 pagine in cui la letteratura del Trecento, e Dante in particolare, erano posti a fondamento della nazionalità italiana. Più intimista era il contenuto di alcuni racconti (Angelo, quindi Abele) dove tornava l'antica propensione alla ricerca di se stesso e dove il personaggio di Abele "più che persona viva, [era] una statua lacrimante sopra un sepolcro". Ma il vero La Vista era ormai quello che entrava nella guardia nazionale, firmava con altri 208 cittadini un appello al re perché riportasse in vita la costituzione del 1820 e quindi, in un proclama a stampa diffuso all'indomani del 29 genn. 1848, celebrava il ritorno del regime rappresentativo. Perciò lo contrariò molto il processo involutivo in cui, dopo lo scoppio della guerra tra Austria e Piemonte, parve voler entrare la monarchia borbonica con le sue esitazioni sull'invio delle truppe al Nord e con il successivo braccio di ferro sullo svolgimento liberale della costituzione. Quando il 15 maggio 1848 a Napoli si alzarono le barricate, il La Vista non esitò a scendere in piazza insieme con il padre che lo aveva raggiunto da Venosa: la repressione armata affidata ai mercenari svizzeri lo colse a largo della Carità, dove, bloccato mentre tentava di fuggire, fu immediatamente fucilato.
Il 28 maggio i suoi amici della scuola diramarono una "Protesta" per difenderne la memoria: era l'inizio di una sorta di beatificazione che avrebbe fatto di lui uno dei simboli più alti dell'incompatibilità tra il mondo della cultura e il regime borbonico.

FONTE: voce di G. MONSAGRATI in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2005, vol. 64

giovedì 19 novembre 2020

Paesi lucani. 56. Metaponto 1879 (F. Lenormant)

Metaponto è un deserto e vi si arriva attraverso un deserto. Quarantaquattro chilometri separano Taranto dalla stazione di Torremare e in tutto questo percorso lungo la costa non si incontra un'abitazione umana ad eccezione delle case dei cantonieri che sorvegliano la ferrovia., costruite ad intervalli regolari ai margini della strada ferrata. (...). L'assenza di abitanti comporta una assenza di colture. A stento di tanto in tanto si incontra un campo che, a rari intervalli, è scalfito da un aratro identico da sempre a quello del tempo favoloso quando il re Morges insegnava l'agricoltura agli aborigeni. La strada ferrata corre a poca distanza dalla riva, di fronte ai flutti che si rompono sulle dune di sabbia con cupo fragore; a distanze regolari una torre cadente, di forma quadrata, si erge su queste dune. (...). Dall'altro lato della linea ferroviaria, la piana si estende fin tanto che lo sguardo può abbracciarla, monotona e appena ondulata, coperta di lentischi, di kermes e di ontani intristiti dal fogliame grigiastro, mentre la striscia frastagliata delle montagne chiude l'estremo orizzonte. Innumerevoli cinghiali abitano queste foreste, tornati allo stato di ferocia in cui dovettero trovarli i primi immigrati enotrii. Attraverso la pianura mi pareva di ritrovarmi in una delle zone più desolate della Grecia o dell'Asia Minore (...). 


E proprio come in Grecia o in Asia Minore anche qui l'occhio è d'improvviso colpito da oasi di verzura che interrompono l'uniformità della landa deserta e della sua scarsa vegetazione. Lo stesso contrasto con quanto li circonda conferisce a questi scorci di paesaggio intrisi di luce un incanto inesprimibile; e come un sorriso della natura in mezzo alla sua tristezza, un sorriso ancora segnato di dolce melanconia. Dovunque scorre un filo d'acqua il sole sviluppa una vegetazione lussureggiante, che ha il vigore della foresta vergine. I ruscelli che vengono dalla montagna, ostruiti dalla sabbia alla foce, formano piccoli laghi circondati da canneti, coperti di ninfee, su cui pendono grandi alberi piegati dal tempo. Giovani liane dal verde smagliante si arrampicano su questi alberi cercando l'aria e la luce, si allacciano ai loro rami e ricadono in festoni fino a toccare l'acqua. Si avverte, a guardarle, quella seduzione penetrante e morbosa nota a chiunque abbia frequentato i paesi caldi e che si sente nei luoghi dove la malaria e in agguato come per spiare l'imprudente che indugia ai perfidi appelli della sirena.


Torremare, che dà il nome all'attigua stazione ferroviaria, è una antica roccaforte medioevale, rimaneggiata nel secolo XVI, oggi da molto tempo smantellata e trasformata in masseria. Tutta la superficie della pianura circostante, tra il Bradano e il Basento, è coltivata dai contadini che scendono a lavorare dal grosso paese di Bernalda, situato a circa otto chilometri, sulle prime falde della montagna. Il castello, interamente costruito con blocchi sottratti ad antichi edifici, include una piccola chiesa ove questi braccianti trovano messa la domenica e i giorni di festa, quando i lavori dei campi li trattengono nella pianura (...). Qui non esiste un solo sentiero battuto o coperto di ghiaia; si è costretti a camminare attraverso le campagne, il cui suolo grasso e naturalmente irrorato dalle infiltrazioni dei due fiumi, dopo qualche giorno di pioggia si trasforma in un mare di fango. Se in tali condizioni si vogliono visitare le antichità di Metaponto, non c'è altro modo che prendere un carretto altissimo, poggiato su due grandi ruote, e farsi trasportare su questo veicolo non molleggiato (particolare di cui ci si accorge fin troppo presto), da un paio di cavalli tisici, di cui uno, attaccato fuori dalle stanghe, sta li soltanto per forma e non può tirare un bel niente.; senza poi considerare la possibilità di vedere il carretto affondare in una palude [...] Ma non è il moderno confort che si è venuti a cercare nelle rovine di Metaponto, e chi non sa prendere con allegria queste piccole miserie del viaggio ha una sola cosa da fare: restare a Napoli e non azzardarsi mai ad abbandonarla per spingersi più a sud.

giovedì 12 novembre 2020

Paesi lucani. 55. Il Vulture-Melfese nel Settecento

Il Vulture-Melfese si colloca all'interno di un ampio territorio che si estende all'estremo nord della Basilicata, a sud del fiume Ofanto. Si trattava di un'area da sempre considerata “infeudata”, ove tra i gruppi baronali figuravano, a metà del secolo XVIII, i Caracciolo di Torella, principi di Lavello, che possedevano anche Atella, Barile, Rapolla, ed i Marino di Genzano, che estendevano la loro giurisdizione feudale anche su centri quali Oppido e Palazzo. 
L’area comprendeva i centri di Atella, Barile, Ginestra, Melfi, Rapolla, Ripacandida, Rionero, Maschito, Venosa, Ruvo del Monte, Rapone e San Fele, Palazzo, Maschito, Ripacandida, Barile, Pescopagano, S. Andrea, Conza, Teora, Lioni, C. Mosco, Cairano, Rapone, Bucito, Sallozzo, Montecchio, Margarito, Atello, S. Zaccheria, Mandra, Ruvo, S. Felice, L. dell'Abate, Pierno, Iscalonga, S. Maria e S- Croce. 
Un’area, quella del Vulture-Melfese, connotata da prevalente dimensione abitativa di tipo rurale, con una maggioranza di Terre e casali, tra i quali spiccavano i centri di Melfi, Rionero e Venosa.
Melfi era capitale di un feudo, quello dei Doria, di notevole rilevanza, sia per la delicata posizione strategica, che consentiva il controllo di province tradizionalmente turbolente e un facile accesso all’Adriatico, sia per la vocazione cerealicola dei suoi territori. Nello “Stato” di Melfi la continuità di governo era stata assicurata proprio dal solido impianto feudale della famiglia Doria, che sarebbe venuto meno solo sotto gli scossoni prodotti dalla legge eversiva della feudalità, nel 1806.
Lo Stato concesso al Doria nel 1531 da Carlo V originariamente comprendeva la città di Melfi, le terre di Candela e Forenza, il castello di Lagopesole. L’acquisizione di Lacedonia nel 1584 diede avvio alla politica di espansione del feudo: nel 1609 fu acquisita Rocchetta, nel 1612 Avigliano, nel 1613 S. Fele. Questo, dunque, l’assetto definitivo dello Stato, che - come si è detto - rimase in possesso della famiglia Doria fino al 1806. Il Principato, infatti, era arrivato a comprendere 2 città, Melfi e Lacedonia, 5 Terre e il feudo rustico di Lagopesole, sui quali i Doria esercitarono il proprio dominio fino all'abrogazione della feudalità, nonostante contrazioni dovute alla vendita di alcune terre. Tale “Stato”, tuttavia, anche se con San Fele e Avigliano recuperava parte degli antichi possedimenti dei Caracciolo, si sarebbe caratterizzato ormai per la sua dimensione sovra provinciale, comprendendo Lacedonia e Rocchetta.
Ancora per tutto il XVIII secolo, Melfi fu il centro dominante dell’area, in stretto rapporto con altre aree del Regno e, dunque, decisamente più dinamico rispetto alle aree interne della provincia, una realtà solidamente e “politicamente” feudale. Melfi aveva assunto un ruolo privilegiato, ben deducibile dalla carta statutaria e dalle grazie, che vedeva un peso baronale meno diretto, con un minor coinvolgimento del governatore. Il che aveva portato ad una maggior dinamica cetuale, già dal Cinquecento, nell’ambito del governo della città. In tale contesto, lo Stato di Melfi non era stato, dunque, solo un feudo da sfruttare per la vocazione cerealicola o per finanziare l’attività creditizia dei principi Doria: le notevoli, complesse, vicende dello Stato di Melfi, con l’oculato sfruttamento delle risorse agrarie da parte dei principi, comunque, diedero luogo ad una dinamica economica non facilmente riscontrabile in altre aree basilicatesi.
A metà del Settecento la popolazione era essenzialmente composta da contadini, notevolmente esposti alla pressione fiscale, nonostante una situazione economica ancora abbastanza positiva per il commercio del grano e dei cereali con le zone contermini. Inoltre, ampia parte dell’economia melfitana era collegata ai grandi allevamenti: i principi Doria, da Melfi, inviavano annualmente nei pascoli del Tavoliere, attraverso la via dell’Ofanto e della grande transumanza, fino a diecimila capi.
Nello stesso periodo, il centro maggiormente popolato era Rionero che, infatti, contava 8118 abitanti, mentre il centro con minor densità demografica era il casale di Ginestra, con soli 600 abitanti, ancora unito al centro di Ripacandida. Notevole era stata, altresì, la ripresa demografica di  Rapolla, che contava 3400 abitanti. Rionero, ancorché casale di Atella, era un centro cresciuto rapidamente nel corso del Settecento, grazie a processi di immigrazione che vedevano protagoniste anche famiglie “borghesi” da altre province del Regno, in conseguenza della favorevole posizione geografica rispetto agli altri centri circostanti: infatti l’abitato occupava la falda meridionale del Vulture, consentendo una favorevole posizione agricola e strategica, come vera porta della vallata.
Uno dei centri agricoli più fiorenti, ancorché non densamente popolato, era Barile, distante un miglio da Rionero e sette da Melfi, i cui terreni erano quasi tutti coltivati a vigne ed oliveti.
Nella parte sud-occidentale dell'area, sulle rive opposte della “fiumara” di Atella che sfocia nell'Ofanto, situati rispettivamente a 630 e 500 metri, erano Ruvo ed Atella, in posizione piuttosto sfavorevole, come si era evidenziato nel corso dello stesso XVIII secolo con le numerose epidemie di malaria, che avevano causato una notevole spinta migratoria a vantaggio dei centri vicini, in particolar modo Rionero, che avevano indebolito la locale economia, fondamentalmente basata sulla presenza di mercanti ed ecclesiastici non locali. Tra i ricchi enti ecclesiastici erano alcuni di notevole prestigio quali la Badia S. Angelo del Vulture, il santuario di S. Maria di Pierno ed i possedimenti del vescovado di Melfi.
Il piccolo centro montano di San Fele, fondato anch’esso su un’economia contadina di produzione cerealicola, era interessato, alla fine del Settecento, da notevoli pressioni per estendere le aree coltivate, a scapito degli interessi dei grandi allevatori locali, che cercavano di mantenere il controllo sull’economia locale inserendosi nell’amministrazione dell’Università, ricorrendo, altresì, frequentemente alle magistrature regie ed accusando i coltivatori di violare gli editti contro il disboscamento, in ciò spalleggiati dal locale feudatario, intenzionato a mantenere alto il profilo dell’economia pastorale che, come detto per Melfi, rendeva ai Doria ingenti profitti.
Tali centri, connotati da complesse dinamiche socio-economiche, evidenziano la disomogeneità di un’area che pure era connotata da notevole dinamismo economico e da profondi interscambi con le province contermini, con molti nuclei familiari registrati come “forestieri abitanti”: a metà del Settecento oscillavano dal 10% della popolazione (ad esempio a Melfi) al 25% di Palazzo San Gervasio, ed addirittura raggiungevano a Ripacandida il 48%. 
In questa situazione era ancora prevalente, all’interno delle singole comunità rurali, un’organizzazione chiusa e fortemente gerarchizzata, nella quale il sacerdote-amministratore svolgeva un ruolo di primaria importanza. Attorno a questa figura spirituale non ruotavano solo interessi religiosi, ma anche di carattere economico, attraverso censi sulle case e sui terreni, di concessioni e fitti per il pascolo come anche sui piccoli appezzamenti di terra coltivata. Tale tipologia di società a “grappolo” non era esclusiva delle chiese ricettizie, ma propria anche dei nuovi gruppi dirigenti rappresentati da pochissimi proprietari, e dagli amministratori dei beni del feudatario.