giovedì 23 marzo 2023

La Basilicata moderna. 44. Potenza post-napoleonica

La gestione di un capoluogo non fu mai, nella tarda modernità del Mezzogiorno d’Italia, una cosa facile, tanto meno in una provincia così vasta e con problematiche così ampie e complesse come la Basilicata. Fin dall’inizio del Decennio napoleonico, infatti, Potenza si trovò improvvisamente “catapultata” in un ruolo che la cittadina basentana non era preparata a svolgere, per evidenti limiti strutturali e per le spese che una riconfigurazione urbana ed amministrativa avrebbe (come di fatto avvenne) comportato. 

Analizzando Potenza dopo il 1820, emerge chiaramente come questi precondizionamenti influirono pesantemente sullo svolgimento dell’attività politico-istituzionale ed amministrativa, oltre che sui processi di sviluppo economico. Una «modernizzazione difficile» che investì tutte le energie del Decurionato e che, nel contempo, accelerò i processi di formazione della borghesia potentina, con stretti – e non sempre limpidi – intrecci familiari nell’ambito dell’amministrazione. Il decennio 1820-1830, infatti, fu un periodo vissuto all’insegna della difficoltà, tra imprevisti dettati dalle esigenze del potere centrale, lotte di potere all’interno della borghesia cittadina e oggettive difficoltà nell’adeguamento del progetto di città capoluogo. Città di “volontà”, più che pre-strutturata, Potenza visse un decennio di profondi mutamenti, contrassegnati dal cronico deficit del bilancio comunale, per cui ogni “imprevisto” finiva per essere percepito – e per essere, di fatto – come una vera e propria catastrofe per le casse comunali. Si pensi, ad esempio, che ancora il 10 novembre 1833 il sindaco Viggiani faceva riferimento agli eventi che avevano seguito la Rivoluzione del 1820-21 e che per Potenza segnarono una «triste epoca» sia dal punto di vista amministrativo che, soprattutto, economico, affermando: «nell’anno 1822 essendo giunti in questo Capoluogo le Imperiali, e Reali Truppe Austriache, la Comune a sue spese dovè somministrare le forniture, dimodoché erogò circa d. 3000, che deve ancor conseguire dalla Reale Tesoreria»

Queste esigenze centrali, come anche la necessità, oggettiva, di costruire il capoluogo incisero notevolmente sull’attività amministrativa ed economica di Potenza, dove, peraltro, gli intrecci tra le famiglie più in vista si facevano di anno in anno sempre più stretti, con una rete “invisibile” che costituiva un establishment connotato da scarso, quasi nullo, turnover delle cariche istituzionali-amministrative. In effetti, dal percorso risultano, scorrendo i registri delle delibere, nomi ricorrenti di famiglie in vista, dai Viggiani ai Castellucci, dai Maffei ai Giambrocono, dagli Amati agli Addone. Molti di essi, per non dire tutti, gestirono l’amministrazione comunale per decenni, senza soluzioni di continuità, disinvoltamente spostandosi nell’organigramma decurionale e, ove ciò non fosse oggettivamente possibile, partecipando all’attività gestionale attraverso importanti appalti “pilotati”, da quello dell’acquedotto a quello, fondamentale e assai redditizio, delle opere pubbliche. 

Eppure, in questo quadro “gattopardesco”, i problemi furono di fatto insormontabili, dovuti ai costi della gestione quotidiana, con cause e ritardi protrattisi per decenni, come, ad esempio, quelli relativi all’imposta fondiaria. Basti pensare che il 14 novembre del 1831 il Decurionato delegava Luigi Lavanga a rappresentare il Comune nella causa davanti al Consiglio d’Intendenza per la riscossione dell’imposta fondiaria non pagata dal comune stesso al Capitolo della Trinità dal 1813.

Una difficile modernizzazione, dunque, quella di Potenza, messa al banco di prova della gestione dell’attività del Capoluogo, un fattore di grande incidenza non solo rispetto al suo spazio e al suo assetto urbano, ma anche della sua identità in un percorso in cui la portata e l’incidenza delle scelte operate in età napoleonica sarebbero state più concretamente percepibili nel lungo periodo.


giovedì 9 marzo 2023

La Basilicata moderna. 43. Le resistenze antinapoleoniche

La Basilicata napoleonica non fu un'oasi di pace e di integrazione. Il governo napoleonico, specie nel periodo murattiano, dovette affrontare una situazione con risse, con ferimenti o uccisioni di soldati francesi e conflitti tra gendarmi e briganti o affissioni di cartelli sediziosi. Ed ancora, bande armate che infestavano il paese commettendo ogni sorta di violenze contro le persone e la proprietà, uccidendo, incendiando, saccheggiando e distruggendo ovunque. 

Qualche esempio dall'Archivio di Stato di Potenza potrà chiarire quanto affermiamo. Infatti, il fondo Atti e processi di valore storico contiene numerosi riferimenti utili a capire la violenta dialettica tra integrazione e resistenze.

Contro il Governo francese, ad esempio, si ebbe una rivolta a Spinoso già nel 1806 (proc. n. 154) e l'anno dopo, nel 1807, una congiura fu ordita a Rionero in Vulture da Savino Valenzano contro il Governo francese (n. 206), mentre a Sarconi 45 individui venivano processati come rei di brigantaggio e di sollevazione contro il Governo (n. 250), e a Roccanova veniva soffocata una ribellione contro le forze francesi (n. 253). 

E mentre trenta briganti a cavallo, armati di insegne e di em­blemi reazionari, facevano una scorreria ad Avigliano (n. 260), sempre nel 1807, a San Chirico Raparo si reclutavano uomini per combattere le truppe del Murat (n. 257). 

A Bella, nel 1808, venne processato don Gennaro Panari perché aveva diffuso voci atte a spargere il malcontento contro il Governo francese (n. 295).  

In ciò, comunque, un ruolo aggregante fu svolto dalla Carboneria, di cui conosciamo il primo processo contro i carbonari lucani conservato nell'Archivio di Potenza, ossia quello di Tricarico del 1815 (n. 418). Le circoscrizioni carbonare in Basilicata, in Campania e negli Abruzzi erano: Regione Lucana Occidentale, centro Salerno; Regione Lucana Orientale, cen­tro Potenza; Regione Irpina, centro Avellino; Regione Prepuziana, centro Teramo; Regione Amiteana, centro Aquila; Regione Marrucina, centro Chieti; Regione Sannitica Occidentale, centro Isernia. A Napoli risiedeva l'Alta Vendita a cui facevano capo tutte le vendite del regno. Ogni provincia era governata da un Senato, costituito da 12 membri, da una rappresen­tanza dell'intera comunità, carbonara della provincia (Gran Dieta), alla quale spettava il potere legislativo, e da una Magistratura alla quale spettava il potere esecutivo. In ogni Regione gli adepti erano distribuiti in Tribù e Famiglie, ossia Vendite e in Classi, cioè Gradi.

Non tutta la provincia, comunque, dipendeva dalla Vendita di Potenza: il Lagonegrese, il cui centro era in Tramutola, dipendeva dalla Vendita di Salerno, centro della Regione Lucana Occidentale.

Nella Basilicata, regione chiusa tra la Calabria, prevalentemente borbonica, e la Pu­glia, fautrice di re Gioacchino, prevalse nella setta carbonara un indirizzo filoborbonico, sebbene non fosse mancata, specie in Potenza, una corrente simpatizzante per Murat. Accanto alla Società Carbonara, comunque, sue filiazioni sorgevano nei paesi lucani nuove società segrete: l'Aurora Lucana a Moliterno, la Filarete Lucana a Lagonegro, la Neo Sparta Febea a Polla, la Consilina Cosmopolita a Sala Consilina, la Scuola dei Costumi a Marsico Nuovo, i Figli di Bruto ed il Vulture Illuminato a Melfi.

FONTE: T. PEDIO, Processi e documenti storici della sezione di Archivio di Stato di Potenza (PRIMA SERIE ANNO 1783-1864), in "Rassegna Storica del Risorgimento", XXX (1943), pp. 378-380.