giovedì 30 gennaio 2020

La Basilicata contemporanea. 34. Esempi della nuova condizione femminile dal 1946

Nell’immediato dopoguerra, la condizione femminile in Italia, ma soprattutto nei centri interni del Mezzo-giorno, era molto precaria, non essendo le donne titolari di alcun diritto per la partecipazione alla vita democratica del Paese. Le donne non avevano ricoperto durante il fascismo un ruolo preminente e poche avevano raggiunto una visibilità adeguata nell’ambito della società, in quanto la donna era vista solo come addetta ai ruoli di casa ed alla prole . 
La condizione femminile iniziò a cambiare dopo la seconda guerra mondiale, anche grazie al ruolo che la donna aveva assunto nel periodo della resistenza al nazifascismo, quando la figura femminile era stata rilevante ed importante nella vittoriosa sfida dei partigiani. Dopo la fine della guerra, in primo luogo alle donne furono riconosciuti i diritti di elettorato attivo e passivo: anche in Basilicata le donne incominciarono a partecipare alle varie assemblee politiche che si tenevano nei vari centri della regione in vista delle importanti scadenze elettorali successive al conflitto. 
I due grandi partiti di massa della DC e del PCI cominciarono a costituire i movimenti femminili anche in molti paesi lucani, come, tra l’altro, per due donne facenti parte del movimento femminile della DC di Marsiconuovo. Ma altre esperienze di donne in politica si ebbero, oltre che a Potenza e Matera, anche a Lavello, Rionero, Atella, Lauria, Lagonegro . 
Nelle elezioni amministrative del 1946 le donne elette nei vari Consigli Comunali in Basilicata furono, comunque, pochissime. Marsicovetere, ad esempio, rappresentò una notevole eccezione, in quanto, in seno al suo COnsiglio Comunale, furono elette Maria Rosa Carolina Lacorcia e Maria Celeste Lauria , che rimasero in carica fino al 1952, per due legislature, dal 1946 a 1948 e dal 1948 al 1952. Parteciparono attivamente agli atti ed alle riunioni del consiglio comunale e seppero vivere attivamente l’esperienza amministrativa. Da sottolineare, anche, l’apertura mentale degli amministratori maschili di quel periodo, che, sia pur nella maggior parte notabili del vecchio regime, seppero accogliere con grande disponibilità la presenza di due donne in Consiglio Comunale. 
Le due signore, una commerciante (la Lauria) e l’altra imprenditrice agricola (la Lacorcia), oltre a rappresentare due eccezioni circa la presenza femminile in politica nell’immediato dopoguerra, restarono anche, di fatto, le uniche rappresentanti femminili nei Consigli Comunali di Marsicovetere per circa trent’anni. Infatti solo nel 1981 si sarebbe avuta nuovamente la presenza di donne nel Consiglio Comunale. 

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE:
M. Strazza, Le donne nella storia della Basilicata, Potenza, Consiglio Regionale, 2010, pp. 52-81.
ID., Amiche e compagne. Donne e politica in Basilicata nel dopoguerra (1943-1950), Potenza, Consiglio Regionale, 2008.


giovedì 23 gennaio 2020

31 GENNAIO 2020 Presentazione del volume del prof. Carmine Pinto


Il 31 gennaio 2020, a Palazzo Fortunato a Rionero in Vulture, un evento straordinario per presentare  La Guerra per il Mezzogiorno del prof. Carmine Pinto. Una cornice significativa in una città fortemente interessata dagli eventi di quegli anni. 
Una serata fortemente voluta dal nostro blog e dall’UniLabor di Rionero in collaborazione con l’Amministrazione Comunale, Editori Laterza, Mondadori Potenza e Libreria Ermes. 
VI ATTENDIAMO


La Basilicata contemporanea. 33. Eugenio Azimonti in Val d'Agri

In agro di Marsicovetere, all'inizio del XX secolo, operava Eugenio Azimonti, lombardo di nascita e lucano di adozione, nato a Cerro Maggiore, in provincia di Milano, il 31 dicembre 1878. In questo periodo, infatti, l’attuazione della legge speciale sul Mezzogiorno voluta da Zanardelli dopo la ricognizio-ne sul campo in Basilicata comportò anche per Marsicovetere una svolta decisa e netta per la modernizzazione soprattutto nella predisposizione di programmi organici di sviluppo per la difesa del territorio e la bonifica, nonché l’utilizzazione di risorse come boschi e acque. Uomini come Pasquale Indrio, Eugenio Azimonti, Nicola Miraglia si impegnarono in questi settori. 
Azimonti si inserì, infatti, in quella schiera di tecnici che operarono nel Mezzogiorno e per esso, contribuendo allo sviluppo dell'agricoltura . Proprio Azimonti introdusse l'allievo Manlio Rossi-Doria in casa di Giustino Fortunato, da cui sarebbe partito per approdare ad una radicale revisione dei metodi di analisi della nostra agricoltura e, più in generale, dei problemi del Mezzogiorno concretizzatasi in seguito con la costituzione, a Portici, del Centro di specializzazione e ricerche economi-co-agrarie per il Mezzogiorno. 
Del resto molti anni dopo, Rossi-Doria avrebbe commentato la sua amicizia con Azimonti: «So di avere avuto in lui più che un maestro e di aver maturato in Val d'Agri l'apertura necessaria a comprendere anche gente diversa da me» . 
Azimonti rimase molto colpito dal viaggio del bresciano Giuseppe Zanardelli in Basilicata nel 1902 e, nel 1905, accettò l'incarico di Direttore della Cattedra di Potenza e operò negli ambienti meridionali, dove prestò la sua opera di tecnico, agricoltore, politico e meridionalista per circa un quarto di se-colo. Si stabilì nella frazione di Pedali, l’odierna Villa d'Agri. Qui costituì una propria azienda agraria e iniziò le collaborazioni con «L'Unità» di Salvemini e il quindicinale napoletano «L'Agricoltore del Mezzogiorno». 
Con l’azienda agraria sperimentò ed accrebbe le conoscenze tecnico-pratiche: «prese in fitto e diresse la grande azienda agraria dei baroni Piccininni e alloggiò nel palazzo che era già stato dei Filangieri, dei Caracciolo e, poi, dei De Palma» . Egli stesso, nel 1909, si sarebbe occupato di indagare le condizioni seguenti all’emigrazione in specifica in-chiesta, pubblicata nel 1909 in qualità di delegato tecnico, in cui agli analizzava le condizioni del territorio e dell’economia agricola in base alla ricerca sul campo . 
La relazione Azimonti sulla Basilicata è stata tenuta presente nelle successive inchieste pubbliche e private di carattere agrario, sociologico e demologico, sia per la suddivisione zonale della regione, sia per la descrizione particolareggiata delle condizioni di vita e di lavoro dei contadini .
Tale ricerca sfociò, come detto, nella collaborazione a riviste, tramite la quale Azimonti diede maggiore incisività a quella che considerò sempre una missione, ossia liberare, di fatto, l'agricoltura del Mezzogiorno dall’immobilità ed inefficienza che gli venivano attribuite, dimostrando, con i fatti, che dietro la sua arretratezza si celavano fattori ben più seri .
A Marsicovetere, nel 1924, su insistenza del prefetto Spadavecchia, Eugenio Azimonti accettò dapprima di ricoprire la carica di commissario prefettizio e, due anni dopo, accettò di divenire podestà di Marsicovetere , carica che mantenne fino al 1930. In quell’anno, infatti, Azimonti si dimise per evitare ulteriori inasprimenti nella già calda lotta tra fazioni e notabili del paese. Tuttavia, in quello stesso 1930, la casa di Azimonti a Pedali e l’abitazione del nuovo podestà furono sottoposte a perquisizione per rinvenire carte e lettere riguardanti Rossi Doria, appena condannato a quindici anni di carcere per propaganda comunista: Rossi Doria, infatti, era stato ospite di Azimonti nelle estati dal 1926 al 1929 . La perquisizione non diede esito e, anzi, Azimonti ne uscì come un personaggio «di ordine e molto equilibrato», esponente, come detto, di quei «cultori di agraria e tecnici agricoli» che aveva dato vita ad un «fondo modello» .

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE:
Inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini nelle province meridionali e nella Sicilia, V. Basilicata e Calabria, t. 1, Basilicata, Relazione del delegato tecnico Eugenio Azimonti, Roma, Ber-tero, 1909.
M. Rossi-Doria, La gioia tranquilla del ricordo. Memorie, 1905-1934, Bologna, Il Mulino, 1991.
R. Giura Longo, Dall’Unità al fascismo, in G. DE ROSA-A. CESTARO (a cura di), Storia della Basilicata, 4. L’Età contemporanea, a cura di G. De Rosa, Roma-Bari, Laterza, 2002.

giovedì 16 gennaio 2020

La Basilicata moderna. 33a. Fra’ Antonio Maria Pallotta da Genzano e il terremoto del 16 dicembre 1857 (Rosangela Restaino)

Del sopralluogo nei conventi colpiti che, con paterna sollecitudine e “non curando né freddo, né fiumi, né monti, né tutti i pericoli immaginabili”, fra’ Antonio aveva pensato di compiere, considerando poi che “la nostra venuta non avrebbe potuto far altro, che aggiungere inu/tili lagrime al vostro pianto, inutile duolo alla vostra afflizione…” e assicurando “che al più presto possibile saremo tra voi, se il Signore ci conserverà in vita; come ci ha conservato per pura sua divina misericordia”, egli compì in realtà la sola visita a Santa Maria del Sepolcro a Potenza: “E già ci recammo a Potenza; ma quando (triste rimembranza!) vedemmo in quel Convento, che il quarto, il quale meno ispirava orrore era un corridoio caduto; quando vedemmo quei Frati afflitti, avviliti, sparuti, gittati a terra, come chi da immenso duolo è accorato; ah, sì! ci avvilimmo noi pure, e (lo confessiamo) ci scoraggimmo (sic). Poterono pure quei Frati darci animo, poterono dirci: oh! fac/cia Iddio, abbiamo la Chiesa quasi salva; il Sangue preziosissimo di Gesù Cristo qui ci vuole; Egli farà in modo, che col tempo, con la pietà dei Potentini, e più colla munificenza del nostro Gran Re Ferdinando II° (Deo Gratias) si giungerà a ristorare, ed a riergere due corridoi almanco”.

Nel 1847, esattamente dieci anni prima del terremoto, Cesare Malpica, giunto a Potenza durante il suo itinerario in Italia meridionale, aveva visitato il convento e la chiesa di Santa Maria così descrivendoli: “Il cenobio è tutto nitidezza come il cuore del Santo fondatore dell’ordine. La chiesa è decente, come tutte quelle dell’ordine. Noi saliamo a inchinare il P. Lettore e Provinciale Luigi da Laurenzana. Le sue stanze contengono una biblioteca mirabile per la scelta e per il numero delle opere e per la qualità delle edizioni; più un gabinetto di macchine pregevolissime. Vi convengono magistrati e letterati a ingannar le ore con piacevoli colloqui. E il buon romito accoglie tutti con franca cordialità”.
Si noti il rilievo dato da fra’ Antonio alla presenza nel convento potentino dell’altare che tutt’ora ospita la reliquia del Preziosissimo Sangue di Gesù Cristo. Reperita nel 1278 a Gerusalemme da Ruggero II Sanseverino, vicerè di Carlo I d’Angiò re di Napoli, la reliquia di Terra mixta cum sanguine Christi fu donata alla chiesa collegiata di Sant’Antonino di Saponara (oggi Grumento Nova, PZ) con atto del 24 settembre 1284, a noi noto nella trascrizione che ne fece Giovanni Battista Pacichelli. A seguito di un’aspra e plurisecolare contesa tra il clero saponarese e i vescovi di Marsico, nel 1647 il vescovo di Potenza Bonaventura Claverio si recò, come inviato del papa Innocenzo X, a Saponara e qui chiese ed ottenne una parte dell’insigne reliquia. Passati i moti di Masaniello, la reliquia, custodita privatamente dal Claverio, fu destinata alla chiesa dei Riformati di Santa Maria del Sepolcro, restaurata e abbellita con il soffitto ligneo della navata principale commissionato dallo stesso Claverio. Nel 1656 venne ultimato il sontuoso altare destinato ad accogliere la reliquia che, la mattina del 4 giugno, fu solennemente portata in processione dalla Cattedrale di San Gerardo. Nell’atto rogato per l’occasione dal notaio Gerardo Caporella, il vescovo predispose un triplice sistema di chiusura della custodia le cui chiavi consegnò alla Cattedrale, ai Riformati e alla famiglia Loffredo, feudataria della città di Potenza. La reliquia poteva essere esposta ai fedeli soltanto il Venerdì Santo. Il 16 novembre del 1886, su iniziativa di Giovanni Maria Sanna Solaro, il vescovo Tiberio Durante permise una ricognizione della reliquia costituendo una commissione che raccogliesse le testimonianze e i documenti che la corredavano. Nel frattempo, il 25 novembre 1717, la reliquia rimasta a Saponara era stata trafugata e si era persa per sempre: Ippolita Spinelli, moglie del conte di Saponara Luigi Sanseverino, la sostituì con una seconda, ugualmente portata da Ruggero nel 1284, che l’8 ottobre 1730 fu trasferita nella chiesa madre di Saponara. Alla protezione del Preziosissimo Sangue i Potentini ricorsero in occasione di varie calamità: la peste del 1656, i nubifragi agostani del 1773, i fatti del 1799. La presenza di questa reliquia scongiurò la sconsacrazione della chiesa e il suo passaggio completo al demanio dello Stato. Nel 1886 essa fu affidata dal Demanio al Municipio e quindi all’Arciconfraternita di San Nicola proprio perché in Santa Maria sorgeva l’altare ospitante la sacra reliquia. Per la ricostruzione del convento di Santa Maria del Sepolcro a Potenza il ministro provinciale, come leggiamo, fa affidamento alla pietà dei cittadini e alla munificenza dell’autorità regia poiché non ritiene sufficienti le entrate dei propri possedimenti. Scrive infatti: “Forseché (sic) avremmo potuto disporre di somme piccole, o grandi, che le si tolsero? avremmo potuto invertire le rendite annuali dei nostri feudi a beneficio delle nostre Case rovinate?... Dio buono!... Deh, potessero le forze quanto il cuore desidera!”
Oltre agli interessanti riferimenti allo stato di distruzione materiale in cui versavano i conventi della sua provincia, la lettera di fra’ Antonio contiene un’ampia sezione dedicata alla denuncia della noncuranza e rilassatezza morale che il sisma, quale manifestazione della giusta ira divina, aveva fatto emergere in alcuni frati. Qui il tono della missiva si allinea, anticipandole, alle espressioni usate da Pio IX nella Cum nuper sopra citata. Dopo aver richiamato i suoi frati a un severo esame di coscienza sostenuto, più che dalla paura, dal salutare timor di Dio, il ministro provinciale aggiunge: “È questa, è questa per noi, forte chiamata del Signore; è questa chiamata a penitenza; è questa chiamata all’adempimento dei nostri doveri; è questa chiamata all’observanza della S. Regola, che professiamo; è questa chiamata, che deve farci tremare, perché minaccia di presentarci in un subito, ed impreparati innanzi al trono di Dio, che vede tutto, conosce tutto, penetra nei nostri pensieri, si addentra fin nei più profondi segreti del nostro cuore, e tutto esamina, e tutto giudica, e tutto piacevolmente premia, ed inesorabilmente punisce”. Si domanda poi, inizialmente escludendo questa ipotesi, se possa esservi qualcuno tra i frati che sia disinteressato alla propria salvezza eterna: “Ma se pure (per una lontanissima ipotesi) taluno ci fosse […] noi saremmo costretti a riconoscere in lui non un figlio di Francesco di Assisi, ma un anatema, un riprovato, un membro reciso della casta Sposa di G. Cristo, la nostra Cattolica Chiesa”. Si tratta “di alcuni, i quali […] ci han dato a dividere la loro dispiacenza di rimanersi nel luogo della disgrazia, la loro poca curanza della rovinata casa, e la loro poca carità verso i disgraziati, chiedendo disposizioni, ed Ubbidienze per altri Conventi, ed anche per la propria famiglia!” A questi pusillanimi senza cuore, fra’ Antonio oppone “quei buoni P. Guardiani, e […] tutti quei buoni religiosi, che dopo la disgrazia, si rassegnarono ai voleri di Dio, e si diedero di premura ad osservare i danni ricevuti, ed a mettervi quel riparo, che la stagione permette, onde le fabbriche scosse non vadano a deperire, ed i Frati non manchino dell’abitazione necessaria”. Il ministro provinciale implora su “questi Padri […] questi Frati buoni, che neppure una parola di dispiacere han proferito, e che han cercato non di fuggire la casa del lutto, ma di dar coraggio ai deboli, di assistere gl’infelici, che tra le ruine chiedevano il sollievo della Religione, e di non rendere deserta la casa della loro Ubbidienza, anzi di racconciarla, di preservarla alla meglio da ulteriori danni […] con tutta l’effusione del nostro cuore […] dal Cielo tutti i beni di che il Signore suol esser largo ai veri figli del nostro S. Patriarca”. Quanto ai primi, prega il Signore “che ulteriori pene non mandi alla loro colpa, e che eccitatili a pentimento, li renda degni della sua misericordia!”
Sul finire della sua circolare, come già si è detto, fra’ Antonio Maria da Genzano notifica ai conventi della sua provincia la lettera del ministro generale che richiama tutti i religiosi ad una più stretta sequela della regolare osservanza e al rispetto delle costituzioni generali dell’Ordine e dei Regolamenti. “Vogliamo che dei 7 (sic) articoli ivi notati, ciascun Guardiano ne trascriva i primi cinque, che immediatamente riguardano l’andamento religioso della Comunità, ed insieme ai Regolamenti in ogni mese li faccia leggere in pubblica mensa. Vogliamo pure, che esattamente, ed alla lettera siano osservati; e noi ne prenderemo conto speciale nella Santa Visita, e saremo scrupolosi nel punirne i / trasgressori, e mandarne relazione speciale al P. Ministro Generale in Roma”. Di quali mancanze si tratti, il ministro provinciale di Basilicata fa cenno già nella sua prima lettera circolare laddove scrive: “Eppure (non conviene tacerlo) forse qualcuno di voi potrà dirci: e dov’è, Padre mio, così esatta, così pura, così splendida, ed in fiore la regolare osservanza? Ed è poi come / ci dite, così bene osservata e praticata in questa Provincia la Santa Regola professata? […] Non vedete, voi forse, che molti, per non dire tutti i Frati non amano più l’altissima povertà? Che vogliono dormire non dico sopra una nuda tavola, o su di un pagliariccio, usando a capezzale un sasso aspro, e duro, ma vogliono servirsi di materassi di lana, e di morbidi origlieri? E non vedete che tutti vanno calzati a genio loro? Che non danno un passo senza prima avere pronti i mezzi di trasporto convenienti più ai bisogni del secolo, che ad un povero Frate Minore? Dov’è più osservato quell’aureo precetto della nostra santa Regola, precetto che la riassume nella sua massima parte = Fratres nihil sibi approprient, nec domum, nec locum, nec aliquam rem? Dov’è più quell’obbedienza pronta, ilare, e disappassionata, la quale dev’essere il distintivo, la caratteristica di un buono, e, se si vuole, bene educato Religioso? Dov’è più quel riserbo, che un Frate debbe (sic) professare per fatti, che nel Chiostro si succedono, pei detti, che tra loro si scambiano? Dov’è quella prudenza, quella evangelica carità nel coprire, e nello scusare i difetti, ed i mancamenti del proprio fratello?” Prima delle richieste di suffragi per i frati e i loro parenti morti a causa del terremoto, leggiamo un appello che, stante la tragica situazione descritta, può sembrarci paradossale. Il ministro provinciale scrive: “Raccomandiamo poi caldamente ai Padri Guardiani per le loro Comunità, ed a ciascun frate in particolare, la compra delle opere, notificate dal medesimo Padre Ministro Generale. Chi volesse farne acquisto, ce ne scriva al più presto, affinché potessimo in uno commetterle ai Padri, che nella Circolare sono indicati. Valga lo stesso pel piccolo Breviario, che sta per uscire alla luce”. L’invito ai conventi e ai singoli religiosi a provvedere all’aggiornamento delle proprie collezioni librarie, significativo in quanto proveniente da un ministro provinciale lettore emerito di sacra teologia e di sacra eloquenza, può essere collocato nello sforzo di mantenere un elevato livello negli studi e nella preparazione delle nuove leve, nonché inquadrato nella preoccupazione, che lo stesso Pio IX manifestò di lì a poco, di contrastare i “propagatori di perverse dottrine”. “E poiché si pubblicano ovunque, emersi dalle tenebre, perniciosissimi libri per mezzo dei quali abilissimi fabbricatori di menzogne si sforzano di portare alla depravazione, con malvage opinioni di ogni genere, le menti e i cuori, confondendo ogni realtà umana e divina, onde far crollare le fondamenta stesse della cristiana e civile società, allora, Venerabili Fratelli, combattete con tutto il Vostro zelo per tener lontana il più possibile dal vostro gregge questa esiziale peste di libri. E affinché possiate più facilmente e con maggior sicurezza difendere la sana dottrina e i buoni costumi e chiudere l’adito ad ogni errore e alla corruzione, non trascurate di esaminare accuratamente tutti i libri, specialmente quelli che trattano di materie teologiche e filosofiche e di cose sacre, oltre che di diritto canonico e civile”.L’invito del ministro provinciale riveste inoltre una capitale importanza in relazione all’opera di dispersione patrimoniale, anche in campo librario, avvenuta nel decennio francese che fu alimentata da motivi non solo di natura fiscale ma anche d’ordine politico ed ideologico e fu stabilita attraverso le leggi di soppressione degli ordini religiosi. In particolare, nella circolare del 9 luglio 1808, il Ministro del Culto prescriveva la compilazione di inventari per i libri, gli arredi sacri e gli oggetti d’arte, ordine eseguito soprattutto nei conventi delle famiglie francescane degli Osservanti, Riformati e Cappuccini già nell’agosto di quell’anno. 
Il 17 agosto 1808, infatti, fra Carlo da Vaglio, vicario del convento di Santa Maria del Sepolcro a Potenza, per conto del padre guardiano Raffaele da Trivigno, consegnò a Giuseppe Viggiano, funzionario del sig. Cavaliere Vito Lauria Intendente di Basilicata, l’”Inventario di tutti i semoventi, industrie, sacri arredi, mobili, utensili, Biblioteca e Quadri” al cui interno si trova l’”Inventarium indicans libros omnes iuxta alphabeticam distributionem, et numeri dispositionem huius Bibliothecae Patres Reformatorum Sanctae Mariae Sepulchri Civitatis Potentinae Anno Domini 1753”. Dopo la bufera napoleonica, il Concordato tra la Santa Sede e il Regno di Napoli del 1818 permise la ricostruzione di molte biblioteche monastiche e conventuali mediante la restituzione di materiale ai legittimi proprietari o con l’accoglimento di una produzione più recente e di fondi provenienti da insediamenti soppressi. Da qui la già ricordata annotazione del Malpica, nelle sue Impressioni di viaggio in Basilicata edite nel 1847, sulla “biblioteca mirabile per la scelta e per il numero delle opere e per la qualità delle edizioni” contenuta nelle stanze del convento di Santa Maria del Sepolcro a Potenza. Di qui alcuni incunaboli e cinquecentine, già salvatisi dal saccheggio del 1799, andarono a costituire il nucleo antico della Biblioteca Provinciale di Potenza. L’inventario potentino suddivide i libri secondo un criterio topografico-alfabetico in “Scripturalia, Praedicabiles, Scholastici, Polemici, Sancti Patres, Morales, Historia Ordinis et Canonisti, Spiritualia, Miscellanea, Prohibiti”. Quello del convento dei Riformati di Avigliano elenca i testi in “eruditi, miscellanei, istoriali, scritturali, predicabili, legali, filosofici, panegirici, Santi Padri, Scolastici e dommatici, morali, spirituali”.
Prima di impartire la sua serafica benedizione fra’ Antonio Maria da Genzano scrive: vi preghiamo, e col merito di S. Ubbidienza v’im/ponghiamo (sic) di pregare il Signore, e la nostra Regina, e / patrona Maria Santissima Immacolata pel nostro piissimo, e munificentissimo Sovrano Ferdinando II, e per tutta la sua / Real Famiglia”. E se vi piace, non dimenticate nelle vostre orazioni, / che ora crediamo più frequenti, e più calde, non dimenticate Noi, / povero, ed afflitto vostro Superiore”.
La lettera di fra’ Antonio Maria Pallotta, ministro provinciale dei Francescani Riformati di Basilicata, come la successiva enciclica Cum nuper di Pio IX, leggono il terremoto del 16 dicembre 1857 quale giusta punizione divina per la decadenza dei costumi del clero e dei religiosi. Queste voci accorate, dagli accenti talvolta apocalittici, danno il tono di un’epoca peraltro impegnata nella ricerca di nuovi metodi di indagine sugli eventi sismici che il geologo irlandese Mallet poté perfezionare proprio in occasione della calamità che colpì la Val d’Agri.

giovedì 9 gennaio 2020

La Basilicata moderna. 33a. Fra’ Antonio Maria Pallotta da Genzano e il terremoto del 16 dicembre 1857 (Rosangela Restaino)


Il 16 dicembre del 1857 due violentissime scosse di terremoto, stimato dell’XI grado della scala Mercalli, tra i più forti scatenatisi in Italia, colpirono l’alta Val d’Agri e il Vallo di Diano causando gravi danni in numerose località delle attuali province di Potenza e Salerno e provocando circa 10.000 morti. L’evento tellurico è ben documentato grazie alla relazione scritta dall’ingegnere e studioso irlandese Robert Mallet per la Royal Society di Londra a seguito di un sopralluogo effettuato nel 1858 nelle terre colpite. Molti disegni e più di cento fotografie scattate dal fotografo francese Alphonse Bernoud, associato alla spedizione del Mallet, corredano questa importante testimonianza che pone la ricerca sulla conformazione geologica del suolo, sui materiali di costruzione, sul restauro degli edifici come basi del metodo di indagine sui terremoti. L’area colpita si estendeva nel Regno di Napoli su una superficie di oltre 20.000 kmq di cui 3.150 pertinenti a 30 centri che furono rasi al suolo. Le più ingenti perdite del patrimonio edilizio, delle infrastrutture agricole e degli animali si registrarono nella provincia di Basilicata, in particolare nei distretti di Potenza, Lagonegro e Melfi, e ben 9.732 morti si contarono negli attuali comuni di Montemurro, Grumento Nova (allora Saponara), Viggiano, Tito, Marsico Nuovo. La condizione di isolamento viario e commerciale che caratterizzava la vallata dell’Agri ostacolò i soccorsi e la decadenza politica ed economica del Regno dei Borbone nell’ultimo periodo della sua storia impedì, tranne poche eccezioni, efficaci investimenti pubblici mirati alla ricostruzione alla quale del resto non contribuì nemmeno l’inerzia del nuovo governo italiano che, nel 1861, tre anni dopo gli eventi sismici, aveva annesso l’ex Regno delle Due Sicilie. L’immane numero di morti, molti dei quali sepolti ancora sotto le macerie a distanza di tre mesi dal sisma, la gravità dei danni e il mancato intervento statale furono all’origine di una accesa polemica antiborbonica e anticattolica condotta soprattutto in Inghilterra. Mentre Mallet evocava la rassegnata attesa dei superstiti e polemicamente puntava il dito contro le tecniche costruttive primitive e l’utilizzo di materiali estremamente poveri, e Racioppi evidenziava la fragilità degli edifici costruiti su “mal fermo suolo di creta in balìa de’ torrenti che poco a poco sel portano via”, la Chiesa interpretava la calamità come evidente manifestazione dell’ira divina. 
Il 20 gennaio 1858 papa Pio IX, in risposta alle tragiche notizie sul terremoto, aveva promulgato l’enciclica Cum nuper indirizzata agli arcivescovi, vescovi e ordinari locali del Regno delle Due Sicilie in cui, invitando i suoi presuli a ricordare “i passi della Sacra Scrittura, che chiaramente e palesemente insegnano che tali castighi di Dio sono provocati dalle colpe degli uomini”, sosteneva anzitutto che il “Nostro carissimo figlio in Cristo il re Ferdinando II […] per la sua grande carità cristiana e il suo affetto per le popolazioni a lui soggette, non risparmiandosi negli interventi e nelle spese, non cessò di apportare aiuti e soccorsi alle popolazioni di dette città per sollevare la loro deplorevole condizione”. La corruzione dei costumi e delle idee veicolata dai cattivi esempi di molti ecclesiastici era per il papa una delle cause principali di quel flagello. Pertanto il pontefice invitava i vescovi a vagliare attentamente i candidati al sacerdozio: “E poiché, con Nostro e Vostro grande rammarico si trovano in codesto Regno anche degli ecclesiastici che, dimentichi della loro vocazione, con la loro riprovevole e malvagia condotta eccitano l’indignazione divina e diventano causa di morte spirituale del popolo cristiano, al quale dovrebbero essere guide per la vita, cercate di sradicare gli abusi e le corruzioni che si sono infiltrate nel costume del Clero […] Venerabili Fratelli, non avvenga mai che in una scelta così importante vi sia alcuno di Voi che, indulgendo a interessi d’altri, propensioni, favori e ragioni umane, voglia aggregare al Clero e promuovere alle dignità ecclesiastiche e agli Ordini coloro che, non essendo dotati delle qualità prescritte dai sacri Canoni, sono invece da respingere dal sacro ministero”. In particolare il papa raccomandava vigilanza in campo educativo attraverso l’ispezione delle scuole, sia pubbliche che private, perché in esse fosse impartita “un’istruzione sana e veramente cattolica” in grado di opporsi alle “arti molteplici e nefaste con le quali, in questi tempi scellerati, i nemici di Dio e dell’umanità si sforzano di corrompere e pervertire l’incauta gioventù”. Con energia, Pio IX sollecitava a difendere i fedeli “dal contagio di tanti errori ora serpeggianti […] per non lasciarsi ingannare e trarre in errore dai propagatori di perverse dottrine”.

Non erano ancora trascorsi venti giorni dalle prime tremende scosse quando, il 3 gennaio 1858, festa liturgica del Nome di Gesù, fra’ Antonio Maria da Genzano, al secolo Antonio Maria Pallotta, ministro provinciale dei Francescani Riformati di Basilicata, inviava dal convento di Santa Maria degli Angeli di Avigliano la sua seconda lettera circolare alla circoscrizione religiosa da lui amministrata: questa missiva è una significativa testimonianza degli effetti devastanti del sisma sugli insediamenti e sulla vita dei frati della sua provincia. Insieme alla circolare del ministro provinciale viaggiava quella del ministro generale dell’Ordine, datata 15 dicembre 1857 la quale, a causa degli eventi sismici, non era stata celermente spedita come di consueto. In calce alla lettera figurano le attestazioni di ricevuta, lettura e spedizione sottoscritte dai padri guardiani dei conventi della provincia secondo un itinerario che, incominciando e terminando da Avigliano, toccò Potenza, Cancellara, Grassano, Miglionico, Pomarico, Bernalda, Pisticci, Salandra, Sant’Arcangelo, Montemurro, Laurenzana, Caggiano, Sant’Angelo le Fratte, Oppido, Genzano, Banzi, Venosa, Forenza. 
Le lettere circolari dei ministri provinciale e generale, come si può vedere dall’allegata tabella, impiegarono circa quattro mesi a compiere il loro itinerario registrando dei rallentamenti nei passaggi da Salandra a Sant’Arcangelo e da qui a Montemurro, uno dei paesi più colpiti dal sisma, da Laurenzana a Caggiano e infine tra Banzi, Venosa e Forenza. La via di trasmissione della missiva procedeva in senso orario raggiungendo prima i conventi francescani intorno a Potenza, poi quelli oggi in provincia di Matera, quelli della Val d’Agri e, dopo uno “sconfinamento” nell’attuale provincia di Salerno, gli insediamenti della Basilicata settentrionale. La lettera di fra’ Antonio Maria da Genzano è un piccolo gioiello di sacra erudizione punteggiato da accenti accorati e fervidi richiami alla disciplina religiosa al cui rilassamento gli eventi sismici sembrano aver contribuito non poco. Ma presenta anche circostanziate notizie sulle vittime e i danni registrati in alcuni conventi della provincia.
Il ministro provinciale esordisce dolendosi per gli accenti luttuosi della lettera: “Avremmo voluto nel principio di questo nuovo anno, Padri e Figli dilettissimi, avremmo voluto venirne a voi felice nunzio di prosperità, e di gaudio nel nostro Signore Gesù Cristo. Ma quel / Dio nelle cui mani sono le sorti degli uomini, e che atterra, e suscita, e, come è giusto nei suoi infallibili giudizii (sic), l’affanno alterna colla consolazione su questa terra di esilio; ha disposto invece, che parole di lutto vi recasse questa nostra seconda Lettera Circolare. Incastonata in questo primo periodo è una citazione-parafrasi dei celebri versi finali dell’ode “Il cinque maggio” scritta da Alessandro Manzoni nel 1821: “…il Dio che atterra e suscita, che affanna e che consola…”. Descrivendo lo stato di distruzione dei conventi le cui “rovine […] obbligano i nostri Frati al pericolo dell’intemperie, al disagio di una aperta campagna, allo incomodo di una Baracca” e che ormai giacciono in “un desolante silenzio” e nei quali sono “trascurati gli ufficii divini, non adempiti i religiosi doveri, abbandonati quegli stessi altari”, fra’ Antonio evoca le lacrime del profeta Geremia (9, 18) e l’apocalittico «“Angelo del Signore […] armato del flagello della divina giustizia” inviato a percuotere “terribilmente i molti Paesi della Lucania”. Per rappresentare lo spavento patito e lo stato di scoramento suscitato dalle relazioni dei padri guardiani, egli evoca, attraverso una prosa incalzante, il succedersi di nunzi di sventura peggiori di quelli che recavano a Giobbe notizie sulla infausta sorte del suo bestiame e dei suoi figli (Gb 1, 13-19): “Ed eccoti un messo di Santangelo (sic) Le Fratte, che ti dice che il Convento è un mucchio di rovine. Questo non finisce di parlare, ed eccotene un altro di Laurenzana, che ti dice: il Convento è scrollato tutto quanto, le sole sei piccole stanze del Chiericato sono abitabili, ma non vi ha luogo per salirvi. Questo non termina, ed eccoti l’altro da Montemurro, e ti dice: il paese non si raffigura, ed il nostro Convento ha sofferto assai, e la Chiesa è quasi adequata al suolo. Non finisce questo, ed eccoti da Venosa un altro, che ti dice: la Chiesa… ah! la Chiesa di quel Convento, che per le cure penose di quel degno Molto Reverendo Custode, sorge dalle ruine cagionate in esso dall’altro non meno terribile flagello di Dio, il quale distrusse Melfi, ed i dintorni di quella vaga, famosa, ed antica Città, quella Chiesa ha perduto la volta, che era costata non poco. E già sopraggiungono i giorni di posta, e Salandra ti dice: leggi, che quel Convento il più ampio, il più simmetrico di tutti è rovinato da’ capo a fondo, ed il solo mulino vecchio potrà dare ricetto ai Frati. Leggi, che Grassano non ha stanza, che non faccia orrore, l’arco della Chiesa / è spezzato, l’organo è caduto, e solo la Cappella di S. Pasquale ha un altare per offrirvi il sacrosanto Sacrifizio. Leggi, che Forenza ha un danno di 1200 ducati; leggi che Banzi è tutto lesionato; leggi, che Genzano ha perduto i due Cori, ed ha le stanze lesionate; leggi che Miglionico, che Pomarico, che Pisticci, che Santarcangelo (sic), che Caggiano, tutti, tutti chi più chi meno sono stati danneggiati. Leggi; e poi non affligerti (sic); leggi, e poi, se hai cuore, non piangere...”». Tra le innumerevoli vittime del terremoto il ministro provinciale raccomanda di elevare preghiere in particolare per “Padre Pasquale da Pietrapertosa [che] partì da questa terra di miserie, nel giorno, in cui il Verbo incarnato vi veniva a nascere per l’umana redenzione. Egli per la paura, che risentì nella orrenda notte, più che per naturale malattia fu trascinato al sepolcro. Suffragate senza indugio quell’anima benedetta, come pure quelle del nostro Procuratore di Spinoso, e delle Procuratrici di Montemurro ed Auletta, le quali furono misera preda delle precipitanti pareti delle proprie case. Ed infine della fu Madre dei Padri Luigi e Bernardino da Gallicchio, fratelli germani”.