giovedì 9 gennaio 2020

La Basilicata moderna. 33a. Fra’ Antonio Maria Pallotta da Genzano e il terremoto del 16 dicembre 1857 (Rosangela Restaino)


Il 16 dicembre del 1857 due violentissime scosse di terremoto, stimato dell’XI grado della scala Mercalli, tra i più forti scatenatisi in Italia, colpirono l’alta Val d’Agri e il Vallo di Diano causando gravi danni in numerose località delle attuali province di Potenza e Salerno e provocando circa 10.000 morti. L’evento tellurico è ben documentato grazie alla relazione scritta dall’ingegnere e studioso irlandese Robert Mallet per la Royal Society di Londra a seguito di un sopralluogo effettuato nel 1858 nelle terre colpite. Molti disegni e più di cento fotografie scattate dal fotografo francese Alphonse Bernoud, associato alla spedizione del Mallet, corredano questa importante testimonianza che pone la ricerca sulla conformazione geologica del suolo, sui materiali di costruzione, sul restauro degli edifici come basi del metodo di indagine sui terremoti. L’area colpita si estendeva nel Regno di Napoli su una superficie di oltre 20.000 kmq di cui 3.150 pertinenti a 30 centri che furono rasi al suolo. Le più ingenti perdite del patrimonio edilizio, delle infrastrutture agricole e degli animali si registrarono nella provincia di Basilicata, in particolare nei distretti di Potenza, Lagonegro e Melfi, e ben 9.732 morti si contarono negli attuali comuni di Montemurro, Grumento Nova (allora Saponara), Viggiano, Tito, Marsico Nuovo. La condizione di isolamento viario e commerciale che caratterizzava la vallata dell’Agri ostacolò i soccorsi e la decadenza politica ed economica del Regno dei Borbone nell’ultimo periodo della sua storia impedì, tranne poche eccezioni, efficaci investimenti pubblici mirati alla ricostruzione alla quale del resto non contribuì nemmeno l’inerzia del nuovo governo italiano che, nel 1861, tre anni dopo gli eventi sismici, aveva annesso l’ex Regno delle Due Sicilie. L’immane numero di morti, molti dei quali sepolti ancora sotto le macerie a distanza di tre mesi dal sisma, la gravità dei danni e il mancato intervento statale furono all’origine di una accesa polemica antiborbonica e anticattolica condotta soprattutto in Inghilterra. Mentre Mallet evocava la rassegnata attesa dei superstiti e polemicamente puntava il dito contro le tecniche costruttive primitive e l’utilizzo di materiali estremamente poveri, e Racioppi evidenziava la fragilità degli edifici costruiti su “mal fermo suolo di creta in balìa de’ torrenti che poco a poco sel portano via”, la Chiesa interpretava la calamità come evidente manifestazione dell’ira divina. 
Il 20 gennaio 1858 papa Pio IX, in risposta alle tragiche notizie sul terremoto, aveva promulgato l’enciclica Cum nuper indirizzata agli arcivescovi, vescovi e ordinari locali del Regno delle Due Sicilie in cui, invitando i suoi presuli a ricordare “i passi della Sacra Scrittura, che chiaramente e palesemente insegnano che tali castighi di Dio sono provocati dalle colpe degli uomini”, sosteneva anzitutto che il “Nostro carissimo figlio in Cristo il re Ferdinando II […] per la sua grande carità cristiana e il suo affetto per le popolazioni a lui soggette, non risparmiandosi negli interventi e nelle spese, non cessò di apportare aiuti e soccorsi alle popolazioni di dette città per sollevare la loro deplorevole condizione”. La corruzione dei costumi e delle idee veicolata dai cattivi esempi di molti ecclesiastici era per il papa una delle cause principali di quel flagello. Pertanto il pontefice invitava i vescovi a vagliare attentamente i candidati al sacerdozio: “E poiché, con Nostro e Vostro grande rammarico si trovano in codesto Regno anche degli ecclesiastici che, dimentichi della loro vocazione, con la loro riprovevole e malvagia condotta eccitano l’indignazione divina e diventano causa di morte spirituale del popolo cristiano, al quale dovrebbero essere guide per la vita, cercate di sradicare gli abusi e le corruzioni che si sono infiltrate nel costume del Clero […] Venerabili Fratelli, non avvenga mai che in una scelta così importante vi sia alcuno di Voi che, indulgendo a interessi d’altri, propensioni, favori e ragioni umane, voglia aggregare al Clero e promuovere alle dignità ecclesiastiche e agli Ordini coloro che, non essendo dotati delle qualità prescritte dai sacri Canoni, sono invece da respingere dal sacro ministero”. In particolare il papa raccomandava vigilanza in campo educativo attraverso l’ispezione delle scuole, sia pubbliche che private, perché in esse fosse impartita “un’istruzione sana e veramente cattolica” in grado di opporsi alle “arti molteplici e nefaste con le quali, in questi tempi scellerati, i nemici di Dio e dell’umanità si sforzano di corrompere e pervertire l’incauta gioventù”. Con energia, Pio IX sollecitava a difendere i fedeli “dal contagio di tanti errori ora serpeggianti […] per non lasciarsi ingannare e trarre in errore dai propagatori di perverse dottrine”.

Non erano ancora trascorsi venti giorni dalle prime tremende scosse quando, il 3 gennaio 1858, festa liturgica del Nome di Gesù, fra’ Antonio Maria da Genzano, al secolo Antonio Maria Pallotta, ministro provinciale dei Francescani Riformati di Basilicata, inviava dal convento di Santa Maria degli Angeli di Avigliano la sua seconda lettera circolare alla circoscrizione religiosa da lui amministrata: questa missiva è una significativa testimonianza degli effetti devastanti del sisma sugli insediamenti e sulla vita dei frati della sua provincia. Insieme alla circolare del ministro provinciale viaggiava quella del ministro generale dell’Ordine, datata 15 dicembre 1857 la quale, a causa degli eventi sismici, non era stata celermente spedita come di consueto. In calce alla lettera figurano le attestazioni di ricevuta, lettura e spedizione sottoscritte dai padri guardiani dei conventi della provincia secondo un itinerario che, incominciando e terminando da Avigliano, toccò Potenza, Cancellara, Grassano, Miglionico, Pomarico, Bernalda, Pisticci, Salandra, Sant’Arcangelo, Montemurro, Laurenzana, Caggiano, Sant’Angelo le Fratte, Oppido, Genzano, Banzi, Venosa, Forenza. 
Le lettere circolari dei ministri provinciale e generale, come si può vedere dall’allegata tabella, impiegarono circa quattro mesi a compiere il loro itinerario registrando dei rallentamenti nei passaggi da Salandra a Sant’Arcangelo e da qui a Montemurro, uno dei paesi più colpiti dal sisma, da Laurenzana a Caggiano e infine tra Banzi, Venosa e Forenza. La via di trasmissione della missiva procedeva in senso orario raggiungendo prima i conventi francescani intorno a Potenza, poi quelli oggi in provincia di Matera, quelli della Val d’Agri e, dopo uno “sconfinamento” nell’attuale provincia di Salerno, gli insediamenti della Basilicata settentrionale. La lettera di fra’ Antonio Maria da Genzano è un piccolo gioiello di sacra erudizione punteggiato da accenti accorati e fervidi richiami alla disciplina religiosa al cui rilassamento gli eventi sismici sembrano aver contribuito non poco. Ma presenta anche circostanziate notizie sulle vittime e i danni registrati in alcuni conventi della provincia.
Il ministro provinciale esordisce dolendosi per gli accenti luttuosi della lettera: “Avremmo voluto nel principio di questo nuovo anno, Padri e Figli dilettissimi, avremmo voluto venirne a voi felice nunzio di prosperità, e di gaudio nel nostro Signore Gesù Cristo. Ma quel / Dio nelle cui mani sono le sorti degli uomini, e che atterra, e suscita, e, come è giusto nei suoi infallibili giudizii (sic), l’affanno alterna colla consolazione su questa terra di esilio; ha disposto invece, che parole di lutto vi recasse questa nostra seconda Lettera Circolare. Incastonata in questo primo periodo è una citazione-parafrasi dei celebri versi finali dell’ode “Il cinque maggio” scritta da Alessandro Manzoni nel 1821: “…il Dio che atterra e suscita, che affanna e che consola…”. Descrivendo lo stato di distruzione dei conventi le cui “rovine […] obbligano i nostri Frati al pericolo dell’intemperie, al disagio di una aperta campagna, allo incomodo di una Baracca” e che ormai giacciono in “un desolante silenzio” e nei quali sono “trascurati gli ufficii divini, non adempiti i religiosi doveri, abbandonati quegli stessi altari”, fra’ Antonio evoca le lacrime del profeta Geremia (9, 18) e l’apocalittico «“Angelo del Signore […] armato del flagello della divina giustizia” inviato a percuotere “terribilmente i molti Paesi della Lucania”. Per rappresentare lo spavento patito e lo stato di scoramento suscitato dalle relazioni dei padri guardiani, egli evoca, attraverso una prosa incalzante, il succedersi di nunzi di sventura peggiori di quelli che recavano a Giobbe notizie sulla infausta sorte del suo bestiame e dei suoi figli (Gb 1, 13-19): “Ed eccoti un messo di Santangelo (sic) Le Fratte, che ti dice che il Convento è un mucchio di rovine. Questo non finisce di parlare, ed eccotene un altro di Laurenzana, che ti dice: il Convento è scrollato tutto quanto, le sole sei piccole stanze del Chiericato sono abitabili, ma non vi ha luogo per salirvi. Questo non termina, ed eccoti l’altro da Montemurro, e ti dice: il paese non si raffigura, ed il nostro Convento ha sofferto assai, e la Chiesa è quasi adequata al suolo. Non finisce questo, ed eccoti da Venosa un altro, che ti dice: la Chiesa… ah! la Chiesa di quel Convento, che per le cure penose di quel degno Molto Reverendo Custode, sorge dalle ruine cagionate in esso dall’altro non meno terribile flagello di Dio, il quale distrusse Melfi, ed i dintorni di quella vaga, famosa, ed antica Città, quella Chiesa ha perduto la volta, che era costata non poco. E già sopraggiungono i giorni di posta, e Salandra ti dice: leggi, che quel Convento il più ampio, il più simmetrico di tutti è rovinato da’ capo a fondo, ed il solo mulino vecchio potrà dare ricetto ai Frati. Leggi, che Grassano non ha stanza, che non faccia orrore, l’arco della Chiesa / è spezzato, l’organo è caduto, e solo la Cappella di S. Pasquale ha un altare per offrirvi il sacrosanto Sacrifizio. Leggi, che Forenza ha un danno di 1200 ducati; leggi che Banzi è tutto lesionato; leggi, che Genzano ha perduto i due Cori, ed ha le stanze lesionate; leggi che Miglionico, che Pomarico, che Pisticci, che Santarcangelo (sic), che Caggiano, tutti, tutti chi più chi meno sono stati danneggiati. Leggi; e poi non affligerti (sic); leggi, e poi, se hai cuore, non piangere...”». Tra le innumerevoli vittime del terremoto il ministro provinciale raccomanda di elevare preghiere in particolare per “Padre Pasquale da Pietrapertosa [che] partì da questa terra di miserie, nel giorno, in cui il Verbo incarnato vi veniva a nascere per l’umana redenzione. Egli per la paura, che risentì nella orrenda notte, più che per naturale malattia fu trascinato al sepolcro. Suffragate senza indugio quell’anima benedetta, come pure quelle del nostro Procuratore di Spinoso, e delle Procuratrici di Montemurro ed Auletta, le quali furono misera preda delle precipitanti pareti delle proprie case. Ed infine della fu Madre dei Padri Luigi e Bernardino da Gallicchio, fratelli germani”.

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