giovedì 26 marzo 2015

Paesi lucani. 31. Il territorio di Senise in età spagnola

Senise era una terra nella zona meridionale della provincia di Basilicata, ricadente sotto la giurisdizione ecclesiastica della diocesi di Anglona Tursi e distante da Matera quaranta miglia e dallo Ionio venti. Questa Terra confinava con Chiaromonte distante un miglio, con Noia (Noepoli) un miglio e mezzo; era distante due miglia e mezzo da Colobraro; quattro miglia da Sant’Arcangelo e da Roccanova e un miglio e mezzo dal Feudo di Battifarano. La sua circonferenza territoriale era di circa venticinque miglia.
Si trattava, dunque, di un territorio molto esteso che, nella sua parte centrale, ospitava l’abitato, situato alle falde di un piccolo monte, in una zona non particolarmente salubre, probabilmente per il fatto che la Terra era attraversata per lungo tratto dal torrente Serrapotamo, un affluente del fiume Sinni, che del resto circondava tutto il territorio. Probabilmente proprio dal Sinni derivava il nome del centro, registrato variamente, nelle “descrizioni” del Regno, come «Sinisi» o «Senisi» o «Senesi».
La Terra senisese sarebbe stata popolata alla fine del XIV secolo, quando, scomparsi i centri viciniori di Battifarano e Pulsandra, «si ritiravano sui monti circostanti molti abitatori delle valli ormai insicure, che davano così vita a nuovi insediamenti, tra cui è da notare almeno quello cospicuo (appunto) di Senise», ben popolato non solo per la confluenza di più abitati, ma anche, e soprattutto, dalla produttività, con un gran numero di coltivazioni cerealicole, vendute anche nelle altre parti della provincia e prodotte soprattutto dai territori pianeggianti bagnati dal fiume Serrapotamo, dove c’erano anche ampie zone che servivano per il pascolo, mentre, nel territorio, inoltre, si trovava un luogo chiamato la Salsa, un colle argilloso che produceva una sorgente salata. Senise, comunque, non era facile da raggiungere dai luoghi centrali del potere, poiché distava dalla città di Napoli più di cento miglia, e si giungeva ad essa solo tramite la strada che passava per Salerno e poi per Polla, una strada regia che, comunque, presentava molti pendii e d’inverno era fangosa. Eppure, proprio questa strada era sede di transito del cosiddetto «Procaccio di Calabria», che vi passava due volte a settimana.
L’abitato era situato sulla cima di una collina, in una posizione isolata e circondata da due valloni, ai piedi dei quali erano molti terreni pianeggianti, oltre ad essere esposto ad una notevole ventilazione da sud e da un’ottima soleggiatura. Una pratica consequenziale a quella dell’agricoltura era, appunto, il commercio, favorito anche dalla sua posizione, in un punto di passaggio verso Tursi ed esplicantesi in una fiera agricolo-pastorale tenuta a maggio in un luogo distante poco più di due miglia dal paese, in un luogo apposito detto «Mercato», ubicato tra l’abitato e la sponda sinistra del Sinni. Si trattava di un luogo murato di forma quadrata e molto lungo, al di fuori del quale c’era un luogo che serviva da grande centro commerciale, intorno al quale vi erano dei raggruppamenti di case con magazzini, per conservare i prodotti.
Uno dei prodotti più abbondanti e di grande qualità era il vino, anche perché si trattava di un luogo particolarmente caldo e soleggiato. Uno dei prodotti di buona qualità era l’olio, con una produzione annua era molto alta, tanto che ne bastava già solo la metà ottenuta per l’uso cittadino.
Il territorio veniva per la maggior parte seminato, il restante era boscoso o in zone impervie, altri appezzamenti ospitavano distese di vigne, altri piccolissimi appezzamenti invece erano dedicati alla coltivazione degli ortaggi e, in prossimità del fiume Serrapotamo, lungo le sue sponde, abbondavano lini, «bambace», canneti, ossia una vegetazione favorita dal clima umido. I boschi offrivano grande abbondanza di cacciagione sia di uccellagione sia di animali selvatici, tra i quali spiccavano lepri, caprioli, cinghiali. Erano macellati vari esemplari, e la carne era venduta a grana quattro al rotolo nel caso di castrati, gli altri a grana tre, le galline costavano cinque cinquine l’una, mentre un uovo grana cinque.

giovedì 19 marzo 2015

La Basilicata moderna. 19. I Benedettini in Basilicata

Nel corso dell’Età moderna, anche in Basilicata notevole, se non quasi “monocratica”, fu la rilevanza assunta dalla Chiesa, che assunse una posizione tutt’altro che statica nei confronti della società, adoperandosi per stabilire rapporti solidi con il mondo laico, conformando la propria azione in vita di un reale, incisivo, inserimento all’interno dei quadri dirigenti locali.
In effetti, la Chiesa seppe garantirsi una rilevante base patrimoniale, tanto più in coincidenza con il difficile periodo attraversato negli anni della Controriforma, soprattutto perché essa gestiva gran parte dell’agro lucano. Se, in effetti, l’«azienda clerale» ricettizia fu il perno socio-economico della provincia, anche in Basilicata gli ordini religiosi ebbero notevole rilevanza nella “riconquista” delle anime e, in realtà, la tenuta del clero sul territorio lucano fu garantita proprio da monasteri e grancie, tra le quali spiccano quelle dei Benedettini, che vi lasciarono una traccia profonda. Notevoli sono, infatti, le testimonianze e i dati. 
La presenza di monasteri, italogreci e benedettini, è attestata in Basilicata a partire dall'VIII secolo con la diffusione di monasteri, chiese, grancie, prova evidente del contributo della regione ad una forte identità culturale del Mezzogiorno. L'insediamento e la diffusione capillare di quelle comunità monastiche, inoltre, testimonia non solo la forte religiosità delle popolazioni lucane, ma anche la capacità di quegli ordini di organizzare il territorio, determinarne l'assetto degli abitati e dare un apporto significativo allo sviluppo dell'agricoltura, del commercio e dell'industria del territorio. Gran parte degli edifici e delle fabbriche monastiche sono ormai ridotti a ruderi, e di alcuni non vi è più traccia, distrutti da eventi naturali o dall'azione dell'uomo, anche se le fabbriche più importanti, come la Santissima Trinità di Venosa e Monticchio, hanno conservato parti significative degli edifici. 
Ormai distrutta è, inoltre, l'abbazia di Santa Maria dello Juso a Irsina, fondata nel secolo XI e annessa all'abbazia di Chaise de Dieu di Clermont Ferrand, in Francia, al quale facevano capo la cattedra vescovile della città e l'officiatura della cattedrale, di cui si conserva un campanile gotico, opera degli stessi monaci. Appartenne, invece, all'ordine benedettino pulsanense il monastero di San Pietro in Cellaria, a Calvello, sorto nella seconda metà del XII secolo, soppresso nel XVI secolo e poi concesso alla basilica di Santa Maria Maggiore a Roma, così come sono rimasti ormai solo i ruderi, in agro di Chiaromonte, del monastero e del campanile appartenuti all'abbazia di Santa Maria del Sagittario dove si insediarono, intorno al 1202, i monaci provenienti dall'abbazia di Casamari.

FONTI: L. BUBBICO, Irsina, il priorato di S Maria dello Juso, in L. BUBBICO-F. CAPUTOA. MAURANO (a cura di), Monasteri italogreci e benedettini in Basilicata, Matera, La Tipografica, 1997, vol. II, pp. 95-98; N. MASINI, Il cenobio pulsanese di S. Pietro a Calvello, in «Basilicata Regione Notizie», n. 5 (1993), pp. 41-50; D. LEUCCI, Santa Maria del Sagittario: inventario dei beni nell'atto di soppressione in data 26 febbraio 1807, in «Rivista Cistercense», X (1993), n. 3, pp. 252- 283.

giovedì 12 marzo 2015

Risorgimento lucano. 19. I Dipartimenti della Repubblica Napoletana del 1799

La legge sui Dipartimenti, elaborata da Bassal, non teneva conto delle precedenti sedi di Udienze (tranne che per i casi di Cosenza, Catanzaro, L’Aquila, Salerno, Lecce) e delle naturali divisioni provinciali. Il risultato, sulla carta, sarebbe però stato quello di legare, in una fitta rete di corrispondenze, il “corpo” del regno alla Capitale, superando l’ormai secolare divisione tra centro e periferia che, nel corso dei due secoli precedenti, era andata acuendosi e che, per la brevità dell’esperimento repubblicano e le difficoltà di comunicazione, non sarebbe stata risolta.
Che la legge fosse soggetta a continui aggiustamenti, provvisoria e di fatto inattuata fin dall’inizio, lo prova l’editto di nomina dei Commissari Organizzatori che integrava l’articolo 3, che sarebbe stato ulteriormente modificato. Vennero, infatti, inizialmente, nominati i seguenti Commissari: Leone Micheletti (Garigliano); Gian Vincenzo Battiloro (Volturno); Gerardo Sabini (Vesuvio); Ferdinando Ruggi (Sele); Giuseppe Liberatore di Castel di Sangro (Sangro); Vincenzo Bianco (Ofanto); Angelo Tirone (Idro); Nicola Palomba (Bradano); Pietro Malena (Crati); Giuseppe Poerio (Sagra).

FONTE: A. M. Rao, La Repubblica Napoletana del 1799, in Storia del Mezzogiorno, dir. da G. Galasso e R. Romeo, IV/2, Il Regno dagli Angioini ai Borboni, Roma 1986, pp. 496 ss.

giovedì 5 marzo 2015

Francesco Mario Pagano. 4. Pagano, Fiorentino e la giustizia

Partendo dall'analisi delle leggi delle XII tavole dell'Antica Roma, Pagano esprime, già nella sua tesi di laurea, una critica feroce del sistema giuridico e legislativo del Regno di Napoli: per il futuro giurista, grazie alla chiarezza sintetica delle proprie norme la legislazione romana aveva garantito una reale uguaglianza degli uomini, resa al contrario impossibile nella sua epoca dalla confusa e farraginosa legislazione napoletana. 
Le Considerazioni sul processo criminale, invece, erano un'opera nata dall'esperienza personale maturata da Pagano come docente di Diritto penale e come avvocato. Pubblicate nel 1787, le Considerazioni proponevano una radicale riforma del sistema giudiziario napoletano. La tesi centrale dell'opera è che il livello di civiltà di uno stato sia strettamente correlato alla qualità del suo sistema giudiziario: una legislazione confusa e contraddittoria, che non tutela adeguatamente i cittadini dai soprusi e dalle prepotenze, è infatti in stretta connessione con un sistema sociale e politico barbarico, in cui la libertà dell'individuo è costantemente messa in pericolo in ogni ambito della vita pubblica. Il sistema penale napoletano era pertanto da riformare, perché ledeva la libertà dei cittadini e perché, rendendo fragile la loro tutela, ne comprometteva al tempo stesso l'impegno quotidiano per il bene collettivo: la paura stessa di essere potenzialmente soggetti ai soprusi degli altri, senza alcuna forma di garanzia da parte delle leggi, secondo il giurista lucano portava alla negazione della libertà civile. In particolare, Pagano criticava in modo esplicito lo strumento della tortura, tipico del processo inquisitorio allora in uso nel Regno, giudicandolo un dispositivo violento usato ai fini di estorcere con la forza le confessioni agli imputati, negando loro i diritti individuali. Un altro difetto del sistema giudiziario napoletano, secondo Pagano, era la legislazione confusa che lo contraddistingueva e che, a suo dire, favoriva l'arbitrarietà dell'azione dei giudici, rendendo ancora più incerto il rispetto dei diritti degli imputati. Riprendendo il pensiero di Voltaire sulla giustizia, il giurista lucano criticava la pluralità dei codici esistenti nel Regno, spesso in contraddizione tra loro, perché a suo avviso una legislazione confusa spingeva i giudici ad interpretare le leggi vigenti, anziché a limitarsi ad applicarle. Il risultato inevitabile era quindi l'emanazione di sentenze arbitrarie che minavano i diritti degli imputati. Era pertanto necessario, osservava il filosofo, emanare leggi chiare e semplici, valide in tutto il Regno, in modo tale che i giudici potessero limitarsi alla loro applicazione, senza ricorrere ad interpretazioni illegittime.
Altri elementi del sistema giudiziario napoletano criticati da Pagano erano i privilegi giurisdizionali di cui godevano l'aristocrazia baronale e il clero; la venalità delle cariche giudiziarie, che era la causa principale della vendita delle sentenze da parte dei giudici e infine le segrete istruttorie.
La giustizia era vista, dunque, come un valore etico-sociale, diritto irrinunciabile di tutti e dovere di uno Stato e, affinché non risultasse un’idea vaga, contraddittoria, falsa ed incerta, doveva uniformarsi all’unico assioma della Salus hominum e, anzi, il giurista Nicola Fiorentino ribadiva, in contemporanea con Pagano, che la perfezione del Governo consisteva nella precisione delle leggi, che hanno per oggetto il pubblico vantaggio, nella loro esatta osservanza, nell’incoraggiamento di ogni genere di talento e di industria e nella «giusta protezione de’ cittadini».
In ciò Fiorentino rientrava nel dibattito riformatore napoletano di matrice filangieriana, seguito, in quel tornio di tempo, anche dal Francesco Mario Pagano dei Saggi Politici. Come per l’istruzione, perno della costituzione dello Stato, anche dal quadro delineato relativamente alla giustizia emergevano numerose falle e disfunzioni del sistema in seno al Regno, portando, anche in questo caso, il pensatore lucano ad avanzare precise proposte finalizzate a migliorare la situazione della giustizia.
La mancanza di tribunali e magistrati nelle province era, in primo luogo, causa/effetto del sovraffollamento della Capitale, poiché, per portare avanti le cause, i provinciali si riversavano in Napoli nei tribunali di seconda istanza, provocando una sorta di loro “discesa” nell’ozio offerto dalla Capitale, «veleno della vita» e sperpero di denaro; cosicché, invece, di investire il denaro nel terreno, lo si spendeva per uno stile di vita in cui il lusso faceva da padrone e, dunque, per vestiti, sete, manifatture, forestiere, per parrucchieri, sarti, meretrici, lenoni, persone «che dovrebbero andare a zappare» ma che, invece, di giovare realmente alla società, la danneggiavano quali “parassiti sociali”. Per quanto riguarda il lusso, se Fiorentino sarebbe stato un pervicace detrattore e oppositore di tale “veleno”, Genovesi, invece, dopo un’iniziale necessità di distinguere e contrapporre la dimensione etica e quella politica, pur considerando moralmente negativi alcuni aspetti del lusso che era necessario approvare dal punto di vista economico, sarebbe approdato ad identificare il lusso con il progresso economico, in certo qual modo “benefico” nei suoi effetti di “ingentilimento” e di civiltà e, perciò, giovevole. Il Fiorentino, assai più radicale, proponeva l’istituzione, nelle province, oltre che di solide Università degli Studi e di Accademie, anche di Tribunali, a tal proposito avanzando un progetto di «stabilimento» nelle Calabrie, nella Puglia, e negli Abruzzi di tre tribunali inappellabili, il cui operato sarebbe stato controllato da un Supremo Ministro. Fiorentino, inoltre, affermava la necessità di creare, oltre all’istituzione di tribunali a livello provinciale, altre quattro o cinque Ruote del Sacro Consiglio, di competenza più specifica, che avrebbero rimpiazzato la Vicaria e la Regia Camera. 
In ciò il pensatore lucano, comunque, non era il solo: Giuseppe Maria Galanti, ad esempio, proponeva, come eventuali sedi di tribunali inappellabili, oltre a quello di Napoli, le città di Chieti, Monteleone e Taranto, perché l’inevitabile decentramento avrebbe finito per ravvivare, anziché inibire, le province e ridurre le spese.
Grande detrimento del “sistema giustizia” era, inoltre, costituito dai subalterni, ovvio effetto della tendenza a conferire incombenze e tante responsabilità ad una stessa persona, a maggior ragione se essa fosse avanti con l’età: ne derivava la proposta, da un lato, di ridurre i carichi per evitare di affidare incombenze con responsabilità e conseguenze notevoli a chi non fosse in grado assolvere in modo efficiente al proprio ufficio, dall’altro, di garantire loro altri onori e confermarne i passati, perché privarli di tali riconoscimenti, in un periodo della vita in cui l’ambizione era pari all’età, avrebbe significato mortificare coloro che, dopotutto, erano professionisti di consumata esperienza. 
A questo punto, Fiorentino sottolineava che sia il marchese Spiriti sia Genovesi - sebbene il primo nelle sue Riflessioni sulle Calabrie, avesse denunciato la rapacità dei birri, dei subalterni e la corruzione dei magistrati provinciali, e il secondo nelle Lezioni sembrasse divagare -, non avessero assolutamente trattato degli abusi d’ufficio: Fiorentino, nelle sue Riflessioni, avrebbe affermato che il «Giudice onesto si eccita lo sdegno del prepotente che, non solo vuol restare impunito nei suoi delitti, ma vuol con quel profittare e far servire di mezzo all’impunità». 
Un’altra piaga che non permetteva che la giustizia venisse convenientemente amministrata era la calunnia e, dunque, il proliferare di denunce anonime, spesso strumento di epurazione di magistrati che avessero scavalcato le consolidate pratiche degli abusi feudali in nome di un’equa applicazione di pene rispondenti ai reati. Nei tribunali e nella vita politica, infatti, lettere e denunce anonime erano più volte ammesse, fin dall’emanazione di una prammatica – mai abrogata - di Filippo II del 17 marzo-28 aprile 156926. Si ribaltava, in tal modo, con tale malcostume, la situazione, per cui un onesto magistrato, a causa di false testimonianze, vedeva la sua reputazione infangata e macchiato il suo onore, “molla” del suo operare, a tal punto da essere considerato egli stesso il reo e il colpevole «e non volendosi aderire dal magistrato, è pronto un diluvio di ricorsi ciechi, con nome immaginato, e firmati; si commette l’informo che di quelli non firmati molte volte, nonostante i tanti salutari ordini del re […] sono prontissimi gli sciami dei falsi testimoni». Spesso erano gli stessi «officiali» di grado inferiore ad ostacolare i magistrati provinciali nell’amministrare la giustizia, muovendo “cielo e terra” per bloccare l’onesto magistrato. E, al fine di motivare i magistrati nel loro ufficio, anche se partiva dal presupposto che la magistratura non dovesse essere «venale», Fiorentino proponeva di assegnare premi per consentire di operare con maggiore diligenza determinando la riduzione dei tempi delle cause: i soldi di tale premio sarebbero stati detratti dalle spese processuali. Un esempio addotto dal pensatore era tratto da due realtà “esemplari” quali l’Inghilterra e l’Olanda, ove il governo era, grazie ad una efficiente amministrazione della giustizia, “amato” dai cittadini, che erano, di conseguenza, più attivi, più onesti e soprattutto nella condizione di badare alla terra. 

lunedì 2 marzo 2015

La Basilicata moderna. 14. Venosa e i suoi feudatari

Venosa  toccava, nel ventennio del mandato del vescovo Andrea Perbenedetti, il suo periodo di massimo splendore, con un’incidenza notevolissima del potere feudale dei Gesualdo, che attuavano una politica di laicizzazione culturale in aperto contrasto con la rigida applicazione dei decreti tridentini promossa dalla Chiesa. 
Del resto, notevole era stato il potere feudale nella città oraziana, fin da quando Pirro del Balzo, duca d’Andria, aveva ricevuto dalla moglie, Maria Donata Orsini, figlia di Gabriele, contessa di Montescaglioso, uno Stato ricchissimo, costituito da città e terre, fra cui Acerra, Guardialombarda, Lacedonia, Lavello e appunto Venosa, con il titolo di duca. Qui il del Balzo fece costruire il Castello (dal 1460 al 1470), distruggendo la preesistente cattedrale cittadina, che fece erigere nuovamente - in posizione significativamente decentrata rispetto all’abitato - con lavori terminati solo nel 1502.
Incarcerato il del Balzo, coinvolto nella congiura dei baroni del 1485, Venosa era passata al regio demanio, rimanendo città regia fino a quando Ferdinando il Cattolico la concesse a Consalvo de Cordova come premio della conquista del Regno di Napoli contro i francesi del duca di Nemours (1503), finché Luigi IV Gesualdo al titolo di conte di Conza aggiunse, nel 1561, il titolo di principe di Venosa, che trasmise al figlio Fabrizio.
Carlo, figlio di Fabrizio, si era posto sulla linea di una decisa politica lai-ca, promuovendo studi letterari e musicali. Dopo una battuta d'arresto degli studi promossi dalla famiglia dei Gesualdo a causa dell'uxoricidio compiuto dal principe nel 1590, la politica di mecenatismo gesualdiano continuò con la rifondazione, ad opera del figlio di Carlo, Emanuele, dell'Accademia letteraria dei Piacevoli - fondata da Carlo nel 1582.