giovedì 29 dicembre 2022

La Basilicata contemporanea. 45. Emilio Colombo (Donato Verrastro)

Emilio Colombo nacque a Potenza l’11 aprile 1920, da Angelo, un impiegato della Camera di Commercio della città, originario di Reggio Calabria, e da Rosa Silvia Elvira (Rosina) Tordela.


Quarto di sette figli, si formò negli ambienti cattolici del capoluogo lucano, fondando, a quindici anni, la prima associazione studentesca di Azione cattolica. La frequentazione di quel mondo, negli anni del fascismo, oltre a consolidare in lui una chiara impronta culturale e ideologica, gli consentì di maturare una ferma opposizione al regime. Crebbe nel clima culturale e politico della parrocchia Ss. Trinità (nel centro storico di Potenza), alla scuola di monsignor Vincenzo D’Elia, compagno di studi di Eugenio Pacelli e referente lucano di Luigi Sturzo. D’Elia, d’altronde, era lo zio di don Giuseppe De Luca, lucano anch’egli, autore della Storia della pietà e fondatore delle Edizioni di storia e letteratura: raffinato intellettuale molto vicino alle gerarchie vaticane, sarebbe stato in seguito il confessore di Giovanni XXIII. A partire dal 1930 Colombo fu tra i giovani formatisi alla scuola del vescovo della Diocesi di Potenza e Marsico Nuovo, il mantovano Augusto Bertazzoni, che avrebbe retto a lungo la Diocesi lucana fino al 1966: con lui, suo mentore politico, Colombo avrebbe mantenuto sempre uno strettissimo rapporto.

Nel 1937, al termine della seconda liceale, Colombo conseguì con un anno di anticipo la maturità classica presso il liceo Quinto Orazio Flacco di Potenza, avendo come presidente di commissione Raffaele Ciasca, storico meridionalista, amico di Giustino Fortunato e Gaetano Salvemini e senatore democristiano nelle prime due legislature repubblicane. Studiò giurisprudenza all’Università di Roma, laureandosi nel 1941 con una tesi in diritto ecclesiastico sulle chiese ricettizie e sulle collegiate (relatore Arturo Carlo Jemolo). Fu proprio studiando nella capitale che ebbe modo di frequentare il cenacolo culturale di De Luca, incontrando intellettuali di primissimo piano come Giuseppe Prezzolini, Giovanni Gentile, Giovanni Papini, Giuseppe Ungaretti, Carlo Bo, Vincenzo Cardarelli e Aldo Palazzeschi. Intenzionato a proseguire gli studi e puntando all’insegnamento universitario, intraprese il percorso di specializzazione in diritto canonico iscrivendosi, nel 1941, al Pontificium Institutum Utriusque Iuris, interrompendo gli studi al secondo anno poiché chiamato alle armi: fu di stanza prima presso il 39° Fanteria e in seguito al 32° Battaglione d’istruzione in Nocera inferiore (Salerno) per il 4° corso preparatorio di addestramento. Frequentò il corso per allievi ufficiali di complemento a Ravenna, congedandosi nel 1943 come sottotenente.

La caduta del fascismo, nel 1943, accelerò il suo rientro a Potenza e contribuì, nei fatti, alla modifica dei progetti iniziali, determinando un rapido ripiegamento sulla carriera politica; in quella fase, infatti, Colombo fu tra le giovani leve impegnate nell’azione di coagulo delle forze antifasciste maturate intorno al mondo cattolico potentino e all’azione del vescovo Augusto Bertazzoni, il cui ruolo fu centrale nell’avvio di quella che si preannunciava già come una lunga e impegnativa carriera politica nelle file democristiane. Bertazzoni, d’altro canto, aveva guidato la Diocesi potentina per gran parte del ventennio fascista e negli anni della guerra, spendendosi, nella ricostruzione repubblicana, per la longeva saldatura tra candidati democristiani, Chiesa locale ed elettorato lucano.

Nel 1944 Colombo fu nominato segretario generale della Gioventù italiana di Azione cattolica, tenendo l’incarico fino al 1947, quando fu eletto vice presidente del Bureau internazionale des enfants (Organizzazione internazionale di movimenti educativi). Colombo, già segretario generale della Gioventù italiana di Azione cattolica, con 21.000 preferenze fu il candidato che trascinò alla vittoria la DC nello scontro diretto con Nitti.

Alla Costituente Colombo fu componente e segretario della Quarta commissione, presieduta da Luigi Longo, che si occupò dell’esame dei disegni di legge. Quanto all’attività più propriamente politica, in quei mesi fu promotore di alcuni interventi di sistemazione degli acquedotti lucani.

Fu eletto vicepresidente generale della Gioventù italiana di Azione cattolica (GIAC) nel marzo del 1947, risultando particolarmente attivo nell’organizzazione di incontri e convegni finalizzati al consolidamento del consenso tra i giovani cattolici in vista della tornata elettorale del 1948. In occasione del Convegno di Bologna del settembre 1947 intervenne come relatore al fianco di Carlo Carretto, Gedda e padre Riccardo Lombardi. Negli stessi mesi fu rappresentante della Lucania nel Comitato per il Mezzogiorno, organismo istituito dopo il Congresso di Napoli del 1947 e affidato alla presidenza di Sturzo.

Divenuto l’uomo di punta della DC lucana, alle elezioni per la prima legislatura repubblicana del 1948 Colombo risultò il deputato più eletto nella circoscrizione Potenza-Matera, all’interno di un quadro di graduale assestamento degli schieramenti politici, prevalentemente caratterizzato dal dissolvimento del fronte nittiano e dal ridimensionamento delle sinistre.

A soli ventotto anni fu nominato sottosegretario all’Agricoltura e foreste nel V e nel VI Governo De Gasperi, tra il maggio del 1948 e il luglio del 1951.

Nel luglio del 1950, sempre nella veste di sottosegretario all’Agricoltura e foreste, oltre che maggiorente politico locale, Colombo accompagnò Alcide De Gasperi nello storico primo suo viaggio in Basilicata, durante il quale fece tappa a Potenza, in Val d’Agri e, in ultimo, a Matera, dove ebbe modo di visitare i rioni Sassi, in un giro non programmato e fatto inserire da Colombo solo all’ultimo momento nel programma della giornata: le pessime condizioni igienico-sanitarie in cui molte famiglie materane erano costrette a vivere in quelle antiche grotte, oltre che l’insalubrità di quegli agglomerati scavati nella roccia, convinsero De Gasperi a nominare proprio Colombo a capo di una commissione incaricata di studiare provvedimenti specifici per affrontare quella che, nel discorso seguito in piazza, il presidente del Consiglio avrebbe definito un’«infamia nazionale» (in risposta a Togliatti che, in visita a Matera durante la campagna elettorale per le elezioni del 1948, aveva parlato di «vergogna d’Italia» (Colombo, 2016, p. 18). Rientrato a Roma, Colombo lavorò all’elaborazione di quella che sarebbe stata la legge 17 maggio 1952, n. 619, Legge speciale per il risanamento dei Sassi.

Nel luglio del 1951, nel passaggio dal VI esecutivo De Gasperi (entrato in crisi per le dimissioni del ministro del Bilancio Giuseppe Pella) e il VII, a Colombo non furono conferiti incarichi nel nuovo governo. Gli fu chiesto, invece, di candidarsi per le elezioni amministrative della città di Potenza che si sarebbero tenute, anticipatamente rispetto alla scadenza naturale, nel giugno del 1952, quale soluzione alla crisi politica determinata dalle dimissioni del sindaco Pietro Scognamiglio e alla lunga reggenza commissariale di Domenico Zotta.

Fu rieletto alla Camera per la II legislatura nella circoscrizione Potenza-Matera, risultando il più votato con oltre 54.000 preferenze. Fu designato al sottosegretariato ai Lavori pubblici col ministro Giuseppe Spataro, ruolo che avrebbe ricoperto anche accanto al ministro Umberto Merlin nei successivi, nonché brevi, governi Pella (agosto 1953 - gennaio 1954) e Fanfani I (gennaio - febbraio 1954). Proseguì nel medesimo incarico anche nel Governo Scelba (febbraio 1954 - luglio 1955), quando ministro dei Lavori pubblici fu il socialdemocratico Giuseppe Romita: proprio in quest’ultimo governo, Colombo si adoperò per l’approvazione delle norme per l’incentivazione, attraverso specifici capitoli di bilancio dello Stato, dell’edilizia popolare.

Colombo rivestì quindi il ruolo di ministro dell’Agricoltura e foreste nel I governo Segni (in carica dal 1955 al 1957), unitamente a quello di Alto commissario per l’alimentazione, adoperandosi particolarmente nell’opera di rafforzamento delle relazioni interne alla maggioranza di governo e mediando, nelle trattative politiche, soprattutto con Giovanni Malagodi, leader del Partito liberale. Mantenne gli stessi incarichi anche durante il successivo esecutivo Zoli (1957-1958), seguendo l’applicazione delle leggi di riforma agraria oltre che i passaggi propedeutici alla firma dei trattati di Roma e alla nascita della Comunità economica europea.

Nel nuovo governo Segni II (1959-1960) gli fu affidata la guida del dicastero dell’Industria e commercio, incarico che avrebbe esercitato, fino al 1963, anche nei tre governi successivi (Tambroni, Fanfani III e IV).

A partire dagli anni Sessanta ebbe inizio la lunga attività di Colombo nei dicasteri economici e finanziari: fu alla guida del ministero del Tesoro, nel primo e breve esecutivo Leone, tra il giugno e il dicembre del 1963; mantenne il medesimo ruolo anche nei successivi tre governi Moro, tra il 1963 e il 1968. Durante il secondo governo Leone, un monocolore DC in carica tra giugno e dicembre 1968, oltre alla guida del Tesoro assunse eccezionalmente anche l’interim al Bilancio e programmazione economica. Fu ministro del Tesoro anche nei tre governi Rumor, tra il 1968 e il 1970.

Sostenitore della linea atlantica ed europeista, durante la presidenza di turno della Comunità europea del 1962, Colombo fu tra i negoziatori delle convenzioni di Youndé, trattati economico-finanziari e assistenziali tra alcuni paesi africani, ex colonie di Stati europei, e la Comunità europea; durante la presidenza italiana del Fondo monetario internazionale nel 1963, si spese per la promozione della relazione paritaria tra Europa e Stati Uniti, secondo la linea di collaborazione proposta da John Kennedy.

Nel 1970, in seguito alla crisi del governo Rumor, il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, dopo un primo fallimentare tentativo compiuto con Andreotti, affidò a Colombo l’incarico di formare il nuovo governo. Si trattò di un esecutivo di centro-sinistra, sostenuto da DC, PSI, Partito socialista democratico italiano (PSDI), Partito repubblicano italiano (PRI), il quale offriva garanzie di chiusura riguardo a qualsiasi ipotesi di avvicinamento ai comunisti. Entrato in carica il 6 agosto 1970, il Governo fu impegnato nel piano di riforma del fisco (basato sulla progressività delle imposte, sull’assestamento dell’Iva e sull’approvazione di leggi sulla casa e sull’esproprio dei suoli), i cui decreti applicativi sarebbero stati approvati quando, fra il 1973 e il 1974, Colombo avrebbe assunto la guida del ministero delle Finanze nel IV governo Rumor. Una delle prime e più spinose questioni che Colombo dovette affrontare nell’autunno-inverno del 1970 fu quella della rivolta di Reggio Calabria, la cui gestione avrebbe richiesto finanche l’impiego di contingenti militari; si era nel vivo dei processi istitutivi delle Regioni, segnati in Calabria da azioni intimidatorie e scontri innescati dalla decisione di individuare in Catanzaro la città capoluogo. Nella rivolta, tra l’altro, alla composita compagine dei rivoltosi si erano aggiunte frange malavitose locali e forze di destra capeggiate da Junio Valerio Borghese. Dopo dieci mesi di scontri, durante i quali si registrarono vittime e attentati dinamitardi alle linee ferroviarie, la questione fu affrontata, sul piano politico, col varo del cosiddetto 'pacchetto' o 'piano Colombo', in virtù del quale fu deciso che Catanzaro sarebbe stata città capoluogo e sede della Giunta regionale, Reggio Calabria sede del Consiglio regionale e Cosenza, più marginale rispetto alle contese, avrebbe avuto l’Università. Il piano fu ampliato anche a iniziative di carattere infrastrutturale, con la costruzione del porto di Gioia Tauro, in provincia di Reggio Calabria (oggi uno dei più importanti del Mediterraneo), destinato all’implementazione e al rafforzamento dell’economia di tutta la piana; nessun seguito, invece, avrebbe avuto il progetto di realizzazione di un polo industriale a Sant’Eufemia d’Aspromonte.

La fine dell’esecutivo a guida Colombo, datata 17 febbraio 1972, avvenne in concomitanza con l’elezione di Giovanni Leone alla Presidenza della Repubblica: rassegnate, come di prassi, le dimissioni 'di cortesia' al nuovo capo dello Stato, Leone conferì nuovamente l’incarico a Colombo. Le consultazioni, tuttavia, resero subito evidenti l’indisponibilità delle forze di maggioranza a proseguire con un nuovo governo che fosse la naturale prosecuzione del precedente esecutivo di centro-sinistra (non ancora giunto a scadenza naturale), poiché tale scelta aveva pregiudicato la tenuta del fronte democristiano e determinato la perdita di alcune amministrazioni locali nel frattempo passate alla destra.

La scelta, dunque, cadde su Andreotti, nel cui primo esecutivo, un monocolore democristiano in carica da febbraio a giugno del 1972, Colombo fu ministro del Tesoro; nel secondo governo Andreotti, invece, in carica dal 1972 al 1973, fu nominato ministro senza portafoglio del Consiglio dei ministri (con delega per i compiti politici particolari e di coordinamento, con speciale riguardo alla presidenza della delegazione italiana all’ONU).

Dopo una breve esperienza alle Finanze nel breve governo Rumor IV (1973-1974), Colombo tornò alla guida del Tesoro nel successivo Rumor V (marzo - novembre 1974), per rimanervi anche nei due brevi esecutivi a guida Moro (IV, 1974 - 1976; V, febbraio - luglio 1976), trovandosi ad affrontare le ripercussioni inferte all’economia italiana dalla fine del gold exchange standard deciso dagli Stati Uniti e i duri contraccolpi determinati della crisi petrolifera.

Nel 1976 Colombo fu designato quale rappresentante italiano al Parlamento europeo, di cui divenne presidente l’8 marzo 1977.

Colombo fu confermato agli Affari esteri nei successivi governi Forlani I (1980 - 1981), Spadolini I (1981 - 1982) e II (agosto - dicembre 1982), Fanfani V (1982 - 1983), gestendo la questione degli euromissili, ovvero del 'bilanciamento', attraverso la collocazione di missili americani in Europa, dell’arsenale nucleare a media gittata installato dall’URSS sul finire degli anni Settanta, in base alla linea reaganiana dell’opzione zero, destinata, nel medio periodo, a porre le basi per il progressivo e congiunto smantellamento degli armamenti nucleari.

Tra il 1992 e il 1993 fu ministro degli Affari esteri del primo Governo Amato.

Nominato senatore a vita il 14 gennaio del 2003 dal presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, nello stesso anno fu coinvolto in un’inchiesta per l’uso di sostanze stupefacenti a scopo terapeutico. Sedette a Palazzo Madama dalla XIV alla XVII legislatura, prendendo parte a diverse commissioni permanenti. Morì a Roma il 24 giugno 2013.

FONTE: Dizionario Biografico degli Italiani, 2020 (con tagli)

giovedì 15 dicembre 2022

Potenza. 7a. Una panoramica sul progetto "Ophelia" (Caterina De Canio)

Dopo l’approvazione della legge Giolitti del 1904 n. 36, sui manicomi e sugli alienati, l’architettura iniziava ad unificare, tramite tipologie e criteri costruttivi omogenei, le nuove strutture psichiatriche delle province italiane. Per la prima volta si previdero strutture asiliari non solo inseriti o innestati su preesistenze conventuali, residenziali, militari o ospedaliere. In Italia, la questione era diventata importante per ogni architetto e in questo contesto il Manicomio Provinciale (1906-1927), realizzato a Potenza da Giuseppe Quaroni e da Marcello Piacentini, è senza dubbio, sia per i nomi illustri dei progettisti, sia per la scala urbanistica dell’intervento, la più importante realizzazione di questo periodo nel capoluogo della Basilicata. Su questo progetto si è fondato il mio percorso di studio, intitolato Architettura manicomiale e riuso delle strutture a Potenza. Il caso del Progetto Ophelia, basato sullo studio della bibliografia specializzata e dei documenti conservati nell’Archivio di Stato di Potenza, nel “Fondo Prefettura”, nella serie relativa all’Amministrazione Provinciale. 

Il progetto di creare nel capoluogo lucano un Manicomio Provinciale parte dalla fine dell’Ottocento, quando l’Amministrazione Provinciale, spinta della constatazione che tutti i malati di mente e gli altri disabili della intera regione venivano ospedalizzati in strutture extraregionali ed i costi ricadevano pesantemente sulle casse dell’allora Provincia di Basilicata, ebbero chiara la necessità di creare una propria specifica struttura di accoglienza e di cura. 

In occasione dei festeggiamenti per il primo centenario di Potenza Capoluogo della Provincia, nel settembre 1907, avvenne la posa della prima pietra del “Nuovo Manicomio Provinciale”. Il progetto, come detto, si avvaleva di due prestigiose firme, quella degli architetti Giuseppe Quaroni e Marcello Piacentini, due progettisti già affermati in campo nazionale e si articolava in numerosi padiglioni vicini ma indipendenti, collegati funzionalmente da una serie di gallerie sotterranee, oltre a prevedere ampi spazi liberi a verde. Del Progetto Ophelia, che avrebbe dovuto comprendere 18 padiglioni e altri edifici minori, oggi restano solo 8 edifici, adibiti quasi tutti ad abitazione privata: il Palazzo dell’Amministrazione, l’accoglienza per le donne, l’accoglienza per gli uomini, il padiglione per le degenti tranquille, l’infermeria femminile, la cucina, il deposito della biancheria e la colonia agricola. Sono tutte, come detto, residenze private, per un totale di 37 appartamenti.

Il progetto “Ophelia”, come fu intitolato, vinse il premio di 600 lire messo in palio dalla Provincia di Potenza e prevedeva un impianto simmetrico fortemente innovativo, caratterizzato da una serie di padiglioni indipendenti, ma collegati da una galleria di servizio sotterranea ed in superficie da una serie di porticati e da una decauville di servizio. In sintesi, veniva previsto un villaggio avveniristico ove i malati di mente avrebbero trovato le migliori condizioni igieniche, funzionali e tecniche per la cura delle loro infermità. Si trattava di un ospedale psichiatrico mai progettato nel Mezzogiorno d’Italia, originale nell’impostazione architettonica e nell’impianto urbanistico: la struttura manicomiale ideata era chiaramente incentrata su teorie psichiatriche innovative che privilegiavano domicili-abitazioni per i malati e spazi laboratoriali per lavori manuali per meglio favorire il processo di riabilitazione. Quaroni e Piacentini optarono, inoltre, per la separazione delle diverse tipologie di pazienti in più padiglioni, ognuno dei quali circondato da giardini e viali per far sentire più liberi i malati.

Il Progetto Ophelia era (e rimane) notevole per il suo uso innovativo della luce, dell'olfatto, del suono e della tattilità come complementi esperienziali agli obiettivi dell'ospedale di riabilitazione e assistenza a lungo termine. In realtà, la critica architetturale ha spesso ignorato il progetto, se non in pochissimi casi e con brevi citazioni, forse a causa delle notevoli modifiche che furono apportate in corso d’opera al progetto e per la mancata messa in esercizio del manicomio stesso. Si potrebbe sostenere, però, che esso sia pienamente all’interno di un movimento emergente all'interno dell'architettura ospedaliera di fine Ottocento e inizio Novecento, che utilizzava elementi di design sensoriale come forma di sintonizzazione empatica con i bisogni dei pazienti. 

Non poteva essere altrimenti, per un progetto firmato da due giovani architetti avanguardisti come Marcello Piacentini e Giuseppe Quaroni, padre dell’architetto Ludovico Quaroni, nonché alter ego di Piacentini nel progetto potentino e, subito dopo, sempre suo collaboratore anche nella progettazione ed edificazione del Centro Piacentiniano a Bergamo Bassa, un complesso monumentale che può ben dirsi uno dei luoghi più rappresentativi di una rinnovata cultura urbana che si affermò in Italia tra Ottocento e Novecento.

Si trattò, dunque, di un progetto urbanisticamente e architettonicamente avanguardistico, purtroppo mai decollato, ma di valore notevole, che si scontrò con l’effettiva disponibilità economica della Provincia e con le gravi congiunture storiche che attraversarono l’odissea del progetto. Infatti quello che era un ambizioso progetto, sostanzialmente per la scarsa capacità programmatica della Provincia in quegli anni e soprattutto per le ristrettezze economiche seguite allo scoppio della prima guerra mondiale, peggiorate alla fine del conflitto, che non consentirono di far fronte alle ingenti spese richieste dal programma impostato, naufragò irrimediabilmente. I padiglioni, in gran parte avviati a costruzione ma completati in tempi diversi, furono utilizzati ospitando (in quello in cui poi si sarebbe trasferito l’ospedale San Carlo e destinato nel progetto originale ai malati cronici) il Policlinico Remigia Gianturco, altri per acquartieramenti di truppe del 91° reggimento fanteria, ma la maggior parte concessi come civili abitazioni a favore di dipendenti della Provincia o di famiglie bisognose. In uno di essi ebbe in seguito sede la caserma della Milizia fascista, intitolata al fratello del duce Arnaldo Mussolini, in un altro fu sistemato il Museo Provinciale. Fu prevista anche, sempre durante la prima guerra mondiale, l’utilizzazione di alcuni padiglioni per la creazione di un ospedale militare della riserva e da parte di un privato fu avanzata anche una domanda di locazione (relativamente ai locali progettati per la lavanderia) per crearvi una fabbrica di saponi e generi affini, cosa che, tuttavia, non fu accettata dall’Amministrazione Provinciale. 

Si può affermare che il progetto Ophelia, seppur, per così dire, “abortito”, abbia costituito un esperimento rivoluzionario e che avrebbe bisogno di essere riconsiderato come un elemento fondamentale per lo sviluppo architettonico ed urbano della città di Potenza nella prima metà del XX secolo. Il progetto dei due giovani costruttori ebbe, infatti, il ruolo di perno dell’allungamento a nord della città e, per quanto concerne la storia dell’architettura, una ridefinizione della tipologia di edilizia sostenibile. Si potrà, certamente, obiettare che “Ophelia” non nacque come progetto di edilizia residenziale e che il riuso delle strutture esistenti fu il più delle volte una soluzione arrabattata e poco consona alle strutture stesse, ma resta il fatto che l’odierno rione Santa Maria si poneva, nascendo dalle ceneri di un piano di edilizia sostenibile ante litteram, più attento ai bisogni di chi vi soggiornava, come un modello architettonico e costruttivo più in linea con l’architettura del primo Novecento e, in particolare, della conformazione storica e urbana di Potenza.


Le perle lucane. 4. Maratea

 «Dal Porto di Sapri, che aperto è fama inghiottisse la celebre Velia, raccordata dal Poeta dopo Palinuro, nel golfo di Policastro, à dodeci...