giovedì 15 dicembre 2022

Potenza. 7a. Una panoramica sul progetto "Ophelia" (Caterina De Canio)

Dopo l’approvazione della legge Giolitti del 1904 n. 36, sui manicomi e sugli alienati, l’architettura iniziava ad unificare, tramite tipologie e criteri costruttivi omogenei, le nuove strutture psichiatriche delle province italiane. Per la prima volta si previdero strutture asiliari non solo inseriti o innestati su preesistenze conventuali, residenziali, militari o ospedaliere. In Italia, la questione era diventata importante per ogni architetto e in questo contesto il Manicomio Provinciale (1906-1927), realizzato a Potenza da Giuseppe Quaroni e da Marcello Piacentini, è senza dubbio, sia per i nomi illustri dei progettisti, sia per la scala urbanistica dell’intervento, la più importante realizzazione di questo periodo nel capoluogo della Basilicata. Su questo progetto si è fondato il mio percorso di studio, intitolato Architettura manicomiale e riuso delle strutture a Potenza. Il caso del Progetto Ophelia, basato sullo studio della bibliografia specializzata e dei documenti conservati nell’Archivio di Stato di Potenza, nel “Fondo Prefettura”, nella serie relativa all’Amministrazione Provinciale. 

Il progetto di creare nel capoluogo lucano un Manicomio Provinciale parte dalla fine dell’Ottocento, quando l’Amministrazione Provinciale, spinta della constatazione che tutti i malati di mente e gli altri disabili della intera regione venivano ospedalizzati in strutture extraregionali ed i costi ricadevano pesantemente sulle casse dell’allora Provincia di Basilicata, ebbero chiara la necessità di creare una propria specifica struttura di accoglienza e di cura. 

In occasione dei festeggiamenti per il primo centenario di Potenza Capoluogo della Provincia, nel settembre 1907, avvenne la posa della prima pietra del “Nuovo Manicomio Provinciale”. Il progetto, come detto, si avvaleva di due prestigiose firme, quella degli architetti Giuseppe Quaroni e Marcello Piacentini, due progettisti già affermati in campo nazionale e si articolava in numerosi padiglioni vicini ma indipendenti, collegati funzionalmente da una serie di gallerie sotterranee, oltre a prevedere ampi spazi liberi a verde. Del Progetto Ophelia, che avrebbe dovuto comprendere 18 padiglioni e altri edifici minori, oggi restano solo 8 edifici, adibiti quasi tutti ad abitazione privata: il Palazzo dell’Amministrazione, l’accoglienza per le donne, l’accoglienza per gli uomini, il padiglione per le degenti tranquille, l’infermeria femminile, la cucina, il deposito della biancheria e la colonia agricola. Sono tutte, come detto, residenze private, per un totale di 37 appartamenti.

Il progetto “Ophelia”, come fu intitolato, vinse il premio di 600 lire messo in palio dalla Provincia di Potenza e prevedeva un impianto simmetrico fortemente innovativo, caratterizzato da una serie di padiglioni indipendenti, ma collegati da una galleria di servizio sotterranea ed in superficie da una serie di porticati e da una decauville di servizio. In sintesi, veniva previsto un villaggio avveniristico ove i malati di mente avrebbero trovato le migliori condizioni igieniche, funzionali e tecniche per la cura delle loro infermità. Si trattava di un ospedale psichiatrico mai progettato nel Mezzogiorno d’Italia, originale nell’impostazione architettonica e nell’impianto urbanistico: la struttura manicomiale ideata era chiaramente incentrata su teorie psichiatriche innovative che privilegiavano domicili-abitazioni per i malati e spazi laboratoriali per lavori manuali per meglio favorire il processo di riabilitazione. Quaroni e Piacentini optarono, inoltre, per la separazione delle diverse tipologie di pazienti in più padiglioni, ognuno dei quali circondato da giardini e viali per far sentire più liberi i malati.

Il Progetto Ophelia era (e rimane) notevole per il suo uso innovativo della luce, dell'olfatto, del suono e della tattilità come complementi esperienziali agli obiettivi dell'ospedale di riabilitazione e assistenza a lungo termine. In realtà, la critica architetturale ha spesso ignorato il progetto, se non in pochissimi casi e con brevi citazioni, forse a causa delle notevoli modifiche che furono apportate in corso d’opera al progetto e per la mancata messa in esercizio del manicomio stesso. Si potrebbe sostenere, però, che esso sia pienamente all’interno di un movimento emergente all'interno dell'architettura ospedaliera di fine Ottocento e inizio Novecento, che utilizzava elementi di design sensoriale come forma di sintonizzazione empatica con i bisogni dei pazienti. 

Non poteva essere altrimenti, per un progetto firmato da due giovani architetti avanguardisti come Marcello Piacentini e Giuseppe Quaroni, padre dell’architetto Ludovico Quaroni, nonché alter ego di Piacentini nel progetto potentino e, subito dopo, sempre suo collaboratore anche nella progettazione ed edificazione del Centro Piacentiniano a Bergamo Bassa, un complesso monumentale che può ben dirsi uno dei luoghi più rappresentativi di una rinnovata cultura urbana che si affermò in Italia tra Ottocento e Novecento.

Si trattò, dunque, di un progetto urbanisticamente e architettonicamente avanguardistico, purtroppo mai decollato, ma di valore notevole, che si scontrò con l’effettiva disponibilità economica della Provincia e con le gravi congiunture storiche che attraversarono l’odissea del progetto. Infatti quello che era un ambizioso progetto, sostanzialmente per la scarsa capacità programmatica della Provincia in quegli anni e soprattutto per le ristrettezze economiche seguite allo scoppio della prima guerra mondiale, peggiorate alla fine del conflitto, che non consentirono di far fronte alle ingenti spese richieste dal programma impostato, naufragò irrimediabilmente. I padiglioni, in gran parte avviati a costruzione ma completati in tempi diversi, furono utilizzati ospitando (in quello in cui poi si sarebbe trasferito l’ospedale San Carlo e destinato nel progetto originale ai malati cronici) il Policlinico Remigia Gianturco, altri per acquartieramenti di truppe del 91° reggimento fanteria, ma la maggior parte concessi come civili abitazioni a favore di dipendenti della Provincia o di famiglie bisognose. In uno di essi ebbe in seguito sede la caserma della Milizia fascista, intitolata al fratello del duce Arnaldo Mussolini, in un altro fu sistemato il Museo Provinciale. Fu prevista anche, sempre durante la prima guerra mondiale, l’utilizzazione di alcuni padiglioni per la creazione di un ospedale militare della riserva e da parte di un privato fu avanzata anche una domanda di locazione (relativamente ai locali progettati per la lavanderia) per crearvi una fabbrica di saponi e generi affini, cosa che, tuttavia, non fu accettata dall’Amministrazione Provinciale. 

Si può affermare che il progetto Ophelia, seppur, per così dire, “abortito”, abbia costituito un esperimento rivoluzionario e che avrebbe bisogno di essere riconsiderato come un elemento fondamentale per lo sviluppo architettonico ed urbano della città di Potenza nella prima metà del XX secolo. Il progetto dei due giovani costruttori ebbe, infatti, il ruolo di perno dell’allungamento a nord della città e, per quanto concerne la storia dell’architettura, una ridefinizione della tipologia di edilizia sostenibile. Si potrà, certamente, obiettare che “Ophelia” non nacque come progetto di edilizia residenziale e che il riuso delle strutture esistenti fu il più delle volte una soluzione arrabattata e poco consona alle strutture stesse, ma resta il fatto che l’odierno rione Santa Maria si poneva, nascendo dalle ceneri di un piano di edilizia sostenibile ante litteram, più attento ai bisogni di chi vi soggiornava, come un modello architettonico e costruttivo più in linea con l’architettura del primo Novecento e, in particolare, della conformazione storica e urbana di Potenza.


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