giovedì 22 aprile 2021

Personaggi. 26. Medici potentini a fine Ottocento

Giovanni Paladino fu il massimo esponente di quella cultura medico-scientifica profondamente radicata a Potenza e stimolata, a partire dai tardi anni Sessanta del XIX secolo, dall’operato di Federico Ferdinando Gavioli che, imparentato con gli Addone, aveva aperto un Dispensario Oftalmico e, dal 1869, era stato eletto componente del Consiglio Sanitario Provinciale e Comunale. Gavioli aveva fondato un mensile, «La Lucania Medica» che, ancorché durato per soli 12 numeri, espresse notevoli interessi nel campo chirurgico ed epidemiologico, ospitando anche contributi di Michele Lacava e di medici calabresi. 
Tra i suoi collaboratori anche Paladino. Egli, nato nel 1842, coetaneo di Grippo e Branca, visse da ragazzo gli eventi del 1860, che avrebbe ricordato nel 1911, da senatore, in un articolo de «Il Lucano» per il cinquantenario dell’Unità d’Italia.  Di Paladino, comunque, si può ricordare il giudizio di Vincenzo Marsico nei suoi Medici Lucani: «fu il più insigne fisiologo ed istologo del tempo […]. Si deve a ragione ritenere il fondatore della Fisiologia moderna a carattere sperimentale». 
Questo suo interesse può essere ricondotto, probabilmente, alla conoscenza con il medico Bonaventura Ricotti, cultore di Scienze Naturali e insegnante di Storia e Geografia nel Liceo potentino, che nel 1861 scrisse una breve memoria sull'insurrezione lucana, forse nota a Paladino, che pare riecheggiarla.
Della generazione successiva a Paladino furono i fratelli Giuseppe Ferruccio Montesano (nella foto a sinistra), nato nel 1868, assistente effettivo a Roma nell'Istituto di Igiene e di Psichiatria, rinomato psichiatra e Deputato Provinciale di Basilicata, o Vincenzo Montesano, nato nel 1874, anatomopatologo e batteriologo, nonché specialista in dermatologia. 
O ancora, Giovanni Pica, nato nel 1860, medico provinciale ed autore, nel 1889, di un’inchiesta sulle condizioni igienico-sanitarie della Basilicata; proprio Pica, nel 1906, in occasione dei festeggiamenti per il centenario dell'elevazione di Potenza a capoluogo della Basilicata, scrisse, per il numero speciale del periodico "Il Lucano", un pezzo in cui affrontava la questione dell'emergenza igienica in città a seguito del sovrappopolamento postnapoleonico. 
Infine, va ricordato Edoardo Salvia, classe 1858, docente, a Napoli, di Semeiotica e Diagnostica, oltre che di Pediatria chirurgica e pioniere nell'ortopedia, genero del professore Carlo Gallozzi, Rettore coreggente dell'Università di Napoli  negli anni 1902-1903.

giovedì 15 aprile 2021

Paesi lucani. 59. Sant'Arcangelo e le sue origini

Sant'Arcangelo sorge su una collina, che nel punto più alto raggiunge i 388 m. di altitudine, posta sul lato destro del fiume Agri. Compresa nella diocesi di Anglona e Tursi, dista da quest'ultima 12 miglia e da Matera 35 miglia. Il suo agro confina con Tursi, Colobraro, Roccanova e Senise. 
Sull'origine di Sant'Arcangelo ci sono ancora delle incertezze: si ritiene, da parte degli storici locali, che risalisse ai Longobardi di Benevento (verso la metà del VII secolo), o nel periodo pre-normanno e, dunque, al IX-X secolo.
Lo storico di Sant'Arcangelo Gerardo Giocoli, nelle sue Notizie storiche di Sant'Arcangelo, fa risalire l'origine del paese alla metà del VII secolo, sotto i Longobardi, basando la propria tesi sul nome del paese, su alcuni distici tratti da un manoscritto di uno scrittore locale, e dal ritrovamento di una padella con il manico a forma di serpente, animale molto vivo nella mitologia longobarda. La leggenda narra che, in seguito alla vittoria dei Longobardi di Benevento sui bizantini, avvenuta l'8 maggio del 650, un prete di nome Barbato fece loro comprendere che la vittoria era avvenuta grazie all'intervento di San Michele Arcangelo. In seguito i longobardi edificarono molte chiese e monasteri in onore del santo e anche molte città, tra cui Sant'Arcangelo. Anche il nome della contrada San Brancato si fa risalire a San Barbato, il prete longobardo eretto poi a vescovo di Benevento. Ma tutto ciò, più che di storia, ha parvenza di leggenda.
L'ipotesi di Giocoli che Sant'Arcangelo fosse stata fondata nel 650, immediatamente dopo la battaglia, è poco attendibile, in quanto il culto di San Michele Arcangelo era preesistente alla battaglia, ma si può affermare quasi con certezza che in questa zona vi fossero degli insediamenti longobardi, come dimostrato dalla presenza di toponimi e antroponimi longobardi nel paese.
Si ha la certezza che il paese esisteva nel IX-X secolo, in quanto compare un Castrum S. Arcangeli in una cartina geografica risalente a quell'epoca, ed era di appartenenza bizantina prima dell'arrivo dei normanni, dimostrato dai residui lessicali del greco-bizantino nel dialetto locale.

BIBLIOGRAFIA:
L. BRANCO, Sant'Arcangelo e il suo poeta popolare Orazio Spani, Salerno, 1978.
V. DE FILIPPO, Sant'Arcangelo: linee di storia dal VII al XVIII secolo, Salerno, 1986.

giovedì 8 aprile 2021

La Basilicata moderna. 36. Matera vs Potenza

Il passaggio dall’ancien régime al “mondo nuovo” interessò anche la struttura stessa che ospitava il vivere sociale, quella città italiana che ancora a fine Settecento, come scriveva vent’anni fa Maurice Vaussard, colpiva gli stranieri per il miscuglio di splendore e di sporcizia e le vie strette dal fondo sconnesso e prive di marciapiedi. Il rinnovamento fu, in questo caso, immediatamente ravvisabile nella riconfigurazione terri-toriale e nella rigerarchizzazione delle rappresentanze in un nuovo spa-zio politico-istituzionale provinciale. Si affermava, infatti, sempre più una nuova classe costituita da proprietari terrieri, professionisti e commercianti, tra i quali furono scelti i nuovi decurioni ed amministra-tori, e che divenne esclusiva detentrice del potere politico ed economico. La nuova borghesia di tradizione agraria, spina dorsale della nuova classe dirigente provinciale, la cui condizione sociale si connetteva all’esercizio delle professioni civili ed impiegatizie, si rafforzò nel De-cennio grazie alle opportunità provenienti dal mercato dei beni ecclesia-stici e demaniali, oltre che dal controllo stesso della gestione ammini-strativa locale, specchiandosi, infine, nell’autorappresentazione del proprio potere e impostando le basi per ridiscutere l’assetto economi-co-sociale provinciale, come sarebbe stato evidente dalla breve stagione rivoluzionaria e costituzionale del 1820-21. Si ponevano, dunque, le ba-si per un’utilizzazione più spregiudicata delle informazioni identitarie già fornite, nei due secoli precedenti, dalle storie locali. Un bagaglio cul-turale, questo, che incise profondamente sull’articolato quadro della cultura politica rivoluzionaria, basata sui differenti livelli e percorsi formativi di ceti e gruppi dirigenti. Il tutto legato alla necessità napo-leonica di una rigerarchizzazione delle città legate al loro ruolo economi-co, al bacino amministrativo in cui ricadevano, alla posizione nella rete delle comunicazioni ma, soprattutto, alla fedeltà politica. In tal senso, fu notevole la trasformazione dei modi e delle forme dell’auto-rappresentazione, già seriamente modificata nel corso del 1799, che nel Decennio investì linguaggi e pratiche della comunicazione, a tutti i livel-li, in un complesso, spesso contraddittorio, rapporto tra centralismo ‘dirigista’ napoleonico ed attuazioni del linguaggio comunicativo napo-leonico, quasi costretto, nella pratica, ad adattarsi non solo al preesi-stente sostrato politico-cul¬tu¬rale, ma anche, e soprattutto, a ripensare se stesso in funzione di una riformulazione modernizzatrice e professio-nalizzante. Un progetto, dunque, di attivo e sostanziale coinvolgimento di intelligencja e risorse socio-imprenditoriali nella costruzione del con-senso e di classi altamente professionalizzate. cambiarono anche le re-gole del gioco in provincia. L’apparente, tradizionale monoliticità del progetto napoleonico andava, infatti, nella direzione di una pratica poli-tica basata sulla contrattazione/adattamento negli ambiti provinciali, di-strettuali, comunali, anche rispetto ai nuovi spazi politici locali ed all’entrata in gioco di nuovi gruppi dirigenti. Il regime napoleonico, trovandosi ad operare la ridefinizione delle strutture di un Regno le cui realtà provinciali erano quanto mai complesse e variegate, operò prati-camente, come noto, sul campo del compromesso con le province. Compromesso, adattamento che dir si voglia, tuttavia, ma non – come tradizionalmente si è sostenuto – resistenza alla modernizzazione delle province, che ‘opposero’ alle direttive centrali diverse istanze, ciascuna con i suoi linguaggi e spazi di opportunità per piegare il governo centra-le alle proprie esigenze. 

Un esempio emblematico può essere quello dei rapporti tra i nuovi capoluoghi e le città ‘spodestate’ dal proprio ruolo di capoluoghi di provincia. L’uso ‘giuridico’ della storia, ben compreso dagli storiografi di provincia nel corso dell’età moderna, sull’esempio del Freccia prima, del Summonte poi, tornò ad imporsi come utile strumento di legittima-zione attraverso la dilatazione delle premesse archeologiche delle storie comunitarie. Qualche esempio può essere quello delle province pugliesi, iniziando dal dibattito tra Foggia e Lucera, che fu uno dei più ampi nel corso del XIX secolo. In effetti, la decentralizzazione di Lucera fu trau-matica: Lucera, che a metà del XVI secolo era l’unico centro della Capi-ta¬nata a superare i 1000 fuochi, era stata, tuttavia, ben presto ‘supera-ta’, demograficamente ed economicamente, da Foggia e San Severo. L’istituzione della provincia autonoma del Molise stimolò la comunità lucerese a produrre numerosi memoriali di ricorso, inviati al Ministero di giustizia, per avere una propria sede tribunalizia, tra il 1816 ed il 1817 prima, poi, ancora, nel ‘20, nel ‘31 e all’indo¬ma¬ni della proclama-zione del Regno d’Italia. Tutti momenti, questi, di ridefinizione ammini-strativa, nei quali Lucera cercò di ridurre Foggia a città senza storia, le-gando, d’al¬tro canto, se stessa alle antiche fondazioni di Dauno ed a Diomede, che Foggia, invece, portava come suo emblema di antichità lungo tutta la propria produzione storiografica. Anche il recupero delle archeologie nel dibattito tra Trani e Bari fu stimolato dal problema della sede dei tribunali. Bari utilizzò, come propri segni identitari, sull’an¬tica fondazione da parte di Japige, figlio di Dedalo, legandosi altresì al ‘mi-to’ cristiano, che faceva di Bari, Taranto e Ruvo le prime diocesi di Pu-glia, fondate da san Pietro stesso, secondo la notissima Historia del Beatillo. Una duplice insistenza sull’antico, classico e cristiano, alla quale Trani si oppose, durante la Restaurazione, insistendo su elementi molto più pratici, come il legame tra tribunali ed economia locale, e ben documentati, quali le grazie ed i privilegi ottenuti fin da epoca norman-na. 
3. In Basilicata, un ruolo primario e baricentrico assunse la città di Po-tenza come nuova «capitale» di Basilicata che soprattutto per la sua posizione strategica – più vicina, rispetto a Matera, a Napoli - permise una saldatura sistematica tra capitale e provincia nel nuovo asse d’esercizio del potere. Potenza «acquistò il posto di Città Capitale della Provincia» perché meglio essa si prestava e per la sua situazione geo-grafica e per quella politica ai bisogni delle riforme e trovandosi, inoltre, nel centro della Provincia, a «circa eguale distanza dai mari Ionio, Adriatico e Tirreno» , ed ancora, perché Potenza, «fortificata e munita il più formidalmente possibile», per la sua strategica posizione territoria-le, fu indicata dal generale Philibert-Guillame Duhesme, addirittura, come «seconda capitale», nonostante fosse ancora connotata da un «basso tasso di funzioni urbane». Potenza, alla fine del Settecento, con-tava all’incirca 9.000 anime e si presentava come uno dei centri più im-portanti della provincia. La città si estendeva lungo la sola superficie piana della collina, di cui il limite settentrionale è rimasto inalterato, e quello di mezzodì è segnato dalla strada del Popolo, vera linea di stacco tra il vecchio e il nuovo caseggiato. Al di fuori delle mura, nel versante ovest, la città si era ampliata al di fuori dell’antica cinta muraria e il borgo di Porta Salza si ingrandì, diventando il principale accesso citta-dino - le altre tre porte erano San Luca, San Gerardo e San Giovanni. C’erano poche case “palazziate” e molte abitazioni erano addossate le une alle altre, basse e prive di canne fumarie di fognature e di scoli con scale sporgenti e trabucchi, completate da vani sotterranei, i “sottani”, a cui si accedeva mediante gradini che dovevano servire da legnaie o de-positi. Le poche case palazziate erano formate dagli edifici religiosi, dal castello, dal palazzo comitale e da palazzi più modesti di circa una deci-na di famiglie possidenti. Le strade, per mezzo delle quali si accedeva in città, erano disagevoli, poco più di un sentiero e l’intero abitato era at-traversato dalla strada del Pretorio, stretta, tortuosa e mal lastricata e da cui partivano numerosi vicoli e quintane e gli ambiti cittadini erano ripartiti per parrocchie. Non esisteva una rete fognaria, né un acquedot-to che servisse tutte le abitazioni. L’unica vera piazza era quella del Se-dile, ove si radunava il popolo a Parlamento e lì era situata la casa del Seggio con la sua «vasta sala a pian terreno col suo grande arco scoper-to, a guisa di portico» che era la sede dei Reggimentari che governavano la città; in quello “slargo” si svolgevano il mercato settimanale, le feste popolari e religiose e tutte le funzioni della collettività. Esistevano altre due piccole piazze o slarghi: quello davanti al palazzo Loffredo e quello davanti alla Cattedrale, in cui erano concentrati i poteri istituzionali, ci-vili e religiosi e che li rappresentavano. Potenza, dunque, avviò una ri-determinazione e gerarchizzazione dei propri spazi, connotando la nuo-va autorappresentazione cittadina con nuovi elementi del potere quali edifici, la centralità territoriale e le strutture rappresentative che essa, a differenza di Matera, non aveva, se non in minima parte e potendo con-tare su preesistenti edifici quali monasteri, conventi e il palazzo dei Lof-fredo, che venne, appunto, requisito ed incamerato insieme al convento di san Francesco per la sistemazione degli uffici del Tribunale e dell’Intendenza, mentre molti terreni di proprietà feudale rimasero in possesso dei Loffredo. È tuttavia sul piano politico, invece, che il rap-porto Matera-Potenza risulta uno dei più emblematici nel riutilizzo dell’antico già citato per le province pugliesi di Capitanata e Terra di Bari, in quanto abbastanza eccentrico rispetto ad altri casi. Potenza, in-fatti, troppo impegnata a ridefinire se stessa e i suoi spazi strutturali, non ebbe modo, al momento, di autorappresentarsi se non a livelli pra-tici. Percezioni e rappresentazioni interne, del “sé cittadino” furono affi-date solo ed esclusivamente alla gestione degli spazi, senza produzioni scritte: la cultura politica potentina, durante il Decennio, tenne, dunque, un ‘silenzio mediatico’ sorprendente, se si considera quanto incidesse sugli assetti strutturali del nuovo capoluogo la promozione a capoluogo per Potenza. Si trattò di un cambiamento, dunque, di tipo fattuale, più che di rappresentazione e gestione della propria immagine, in sintonia con i quadri di gestionalità pratica osservabili nel Mezzogiorno durante il Decennio: di contro, altre comunità, quali Matera, ricorsero a stru-menti di autorappresentazione ormai topici, quali la descrizione della comunità, ma che ormai non facevano che riprendere, appunto, topoi desueti e certamente non incisivi sulle scelte pratiche e fattuali del go-verno centrale. Proprio l’età napoleonica, comunque, nonostante questi colpi di coda, avrebbe rappresentato un punto di non ritorno nella sto-ria politico-istituzionale delle due città: Matera, da una parte, con una netta caduta di ruolo e funzioni; Potenza, d’altro canto, avviata verso un deciso, seppur difficile e spesso desultorio, decollo politico-am¬mi-nistrativo, troppo impegnata a ristrutturare ed inventare se stessa per produrre, all’esterno, forme rilevanti di autorappresentazione che non fossero quelle giuridico-amministrative e infrastrutturali. Il passaggio da città di provincia a capoluogo, quindi, fu piuttosto traumatico e percepi-to come tale non dalla città di Potenza, che si pose sulla strada della ge-stione immediata e fattuale, in linea con le direttive del governo centrale, quanto da Matera che, recuperando efficacemente temi ormai solidi e ri-venienti dalla storiografia ed unendoli ai temi del pragmatismo napo-leonico, si pose in linea con l’auto¬rap¬presentazione di altre città, per così dire, spodestate. Il problema cittadino della ‘invenzione del capo-luogo’, in questo caso, non fa che confermare, quindi, da un lato il peso ancora rilevante dell’autorappresentazione legata alle storie cittadine e ai valori civici della tradizione municipale; dall’altro, le enormi difficol-tà nella gestione pratica, nei suoi molteplici aspetti della gestione quoti-diana dei luoghi del potere, del rinnovamento urbanistico e della ‘fatica’ di diventare capoluogo. Una riqualificazione della città, nel caso di Po-tenza, dal punto di vista ‘stilistico’ e funzionale, che portò il nuovo ca-poluogo di Basilicata a superare uno status di centro rurale e, al tempo stesso, a legarla più intimamente al suo hinterland con un progetto ge-stionale che, avviato nel Decennio, si sarebbe concretizzato solo nei de-cenni centrali dell’Ottocento, portando la città a rappresentare se stessa in modo ‘mediatico’ e propagandistico solo nel periodo immediatamen-te successivo all’Unità d’Italia. Mentre Potenza cominciava, faticosa-mente, a progettare se stessa, il Tribunale straordinario rappresentava, per Matera, l’ultimo baluardo materiale della condizione di privilegio sulla provincia pregressa, per mantenere il quale si generarono inevita-bili proteste espresse in una sorta di autorappresentazione tra descri-zione e rievocazione della «gloriosa vita passata». Si susseguirono, in-fatti, insistite iniziative istituzionali con le quali si chiedeva il ripristino delle funzioni di capoluogo o, almeno, la presenza dei Tribunali, attra-verso dettagliati e puntigliosi richiami a solidi elementi di fedeltà al so-vrano, oltre che a ragioni connesse con una serie di considerazioni sul contesto strutturale e di servizi che connotava la città di Matera rispetto a quella di Potenza, con una sorta di colpo di coda ancora una volta rinviante alla tradizionale forma di autorappresentazione legata alle sto-rie locali. In una copia della Conclusione del Decurionato del 20 ottobre 1808, infatti, vennero dettagliatamente e rigorosamente espresse, con piglio tra lo storico e il giuridico, le ‘prove indiziarie’ a carico di Poten-za ed a favore di un ritorno del capoluogo di provincia a Matera, con-notata da solide basi storiche, geografiche e politiche. Le argomentazio-ni serrate esposte nel documento evidenziano come, da parte di Matera, l’autopercezione si articolasse in netta opposizione al nuovo capoluogo e, in linea con le direttive pragmatiche del governo napoleonico, su basi decisamente utilitaristiche. Innanzitutto, si insisteva sulla carenza, da parte di Potenza, di un sistema di sussistenza decoroso, causato da ali-mentazione ed aria pessime, con un recupero del tema della «salubrità» già evidenziato nelle descrizioni settecentesche come quelle dell’Alfano e del Giustiniani. Su tale falsariga, evidenziando le caratteristiche struttu-rali e le potenzialità economiche, il Decurionato materano faceva notare la presenza, nel proprio territorio, di efficaci collegamenti quali la stra-da delle Puglie e quella di Valva, a differenza di Potenza, come aveva notato, tra le righe, già il Viggiano, che comunque sorvolava sul fatto per ovvi motivi campanilistici. Infine, in modo ben più interessante, si recuperava, in chiave polemica, un topos della storiografia locale quale il ‘mito delle origini’. Nel caso di Potenza, il ruolo destinatole, da Pompeo, di luogo di relegazione, che avrebbe inciso notevolmente sul carattere chiuso ed infido dei cittadini. Tale aspetto, notevolmente insistito nella protesta materana, evidenzia un uso consapevole della propaganda sto-riografica ancora non sopito in una provincia periferica del Regno. Si poneva, infine, in risalto soprattutto la netta differenza delle due città anche in termini di strutture visibili e utilizzabili, posizione geografica, condizioni di vivibilità. Del resto, quest’uso di topoi geografici proveni-va, come noto, dalla tradizione delle descrizioni del Regno di Napoli ed era ben utilizzato a livello ‘strumentale’ per gli scopi politici di Matera, i cui ceti dirigenti recuperavano non solo, piegandola a valenze negati-ve, la descrizione del Pacichelli, ma anche, con maggior ampiezza di particolari, l’ampio elenco di privilegi e di qualità naturali di Matera. Il Pacichelli, infatti, aveva scritto di Potenza: «È di clima sì freddo, che obliga al focolare nel fervor della State […]. È colma di Popolo, con Fameglie ricche d’industrie lubriche della Campagna: le Case anzi co-mode che alte, di pietra quadrata, e con le fenestre ben difese da’ venti». Laddove la descrizione di Potenza mirava, nell’intento del Pacichelli, a fornire la visione di un centro non dissimile da tanti altri finitimi, le éli-tes materane piegavano, stravolgendola, tali ‘qualità’ per caratterizzare, anzi, Potenza, come inadeguata non solo a livello politico, per la scarsa presenza di edifici consoni ad ospitare le nuove funzioni amministrative di capoluogo, ma anche, soprattutto, a livello, per così dire, ‘genetico’: città fredda, inospitale, disadorna, quindi sicuramente infida e poco adatta a grandi funzioni, secondo un legame ancora tipicamente sette-centesco tra clima e civiltà delle popolazioni. Come evidente, si trattava di realtà cittadine ben sviluppate nel corso dell’età moderna, connotate da un sentimento identitario molto forte e da una conflittualità interna piuttosto complessa, che andavano, ora, a recuperare in un senso più pienamente politico il tema delle origini e dei caratteri civici, facendolo circolare all’esterno della comunità come segno tangibile di un’identità precisa. Una metamorfosi, dunque, dell’antico da identità cittadina a identità di gruppo, arricchito da ben noti, topici, riferimenti all’antichità di tipo allusivo, più che erudito, secondo un metodo ‘visuale’ già spe-rimentato nel corso del pentamestre repubblicano del 1799. La città na-poleonica, dunque, iniziava a costruire se stessa a livello infrastrutturale e di corpo civico, nella monumentalità e nell’identità, con un processo che sarebbe durato, con alterne vicende, almeno per tre decenni.

giovedì 1 aprile 2021

La Basilicata medievale. 15. L'Assedio di Atella (Rocco Raimondi)

Il 18 giugno del 1496, Gilberto Borbone, conte di Montpensier, viceré francese dopo la partenza di Carlo VIII da Napoli, giunse nella Valle di Vitalba e decise, nei giorni successivi, di fermarsi ad Atella, nell’attesa di rinforzi da Gaeta. 
Atella cresceva a vista d’occhio e i suoi abitanti prosperavano tra agricoltura e pastorizia, coltivando cereali, allevando bestiame, tagliando legna nei boschi di Lagopesole ed era inoltre meta, in particolare nelle due fiere dell’11 giugno e dell’8 settembre, di numerosi mercanti dell’intero circondario e venditori ambulanti che scendevano persino da Bari. L’oratore Francesco Casati da Napoli scriveva in proposito a Ludovico il Moro, il 24 giugno 1496, che … la terra e de meglio de
octocento fochi, et meglio de Venosa, et de ogni altra terra de Basilicata
Il 20 giugno, da Ripacandida, il Montpensier scese con la sua armata ad Atella, minacciando di assaltarla e distruggerla qualora questa si fosse rifiutata di aprirgli le porte. Inoltre, il viceré francese promise che se fosse stato accolto, i suoi soldati non avrebbero arrecato alcun danno agli atellani e avrebbero rispettato le persone ed i beni. Così l’università, all’epoca infeudata al duca di Melfi Troiano II Caracciolo, passato dal partito filoangioino all’aperto sostegno alla corona aragonese, cedette alle richieste dei francesi e li accolse tra le proprie mura, però questi non mantennero le promesse e la posero 

a saccho secondo il lhoro consueto. Hieri, i francesi, entrati ad Atella e promettendo salvo le persone et le robbe, non avendo rispecto alcuno ad alcuna promissione et ad la fede data, sono entrati dentro e messala al sacco. Noi siamo giunti hogi e non abbiamo potuto impedire la resa ed il sacco della città

così scrive il 21 giugno da Melfi Francesco Gonzaga alla moglie Isabella d’Este. Il Gonzaga, a capo dell’armata veneta alleata degli aragonesi, comunicò inoltre alla moglie che il 22 giugno, i suoi stradiotti sul monte Vulture avevano preso ben 6 bovi de l’artigliaria francese e che si attendeva Consalvo di Cordova, il quale era a capo dell’armata spagnola, inviata da Ferdinando il Cattolico su richiesta di Ferrandino, proveniente dalla Calabria, sarebbe giunto nella valle di Vitalba con circa duemila uomini. 
Il 23 giugno, il marchese di Mantova si accampò sotto le mura di Atella ed iniziò a bombardare la città assediata. Il giorno seguente arrivò Consalvo di Cordova e vi fu uno scontro tra i francesi usciti da Atella e i suoi stradiotti: i francesi ebbero nove morti e sei armati caddero prigionieri. Venosa provvedeva ad inviare viveri ai cinquemila francesi chiusi ad Atella, ma questi non arrivarono, bloccati dai napoletani; i mercenari francesi reclamavano la paga e molti di questi abbandonavano
la città assediata e si consegnavano ai napoletani. Nella città affamata, mancava il pane e per liberarsi di bocche inutili, scrive il 26 giugno, l’oratore veneto presso il re di Napoli, Paolo Capello, al suo governo, questa matina per tempo li nimici hanno spento fuori de la Terra tutti femine, puti e parte de l’homini
Il 26 giugno, Francesco d’Aligre de Percy, ambasciatore del Montpensier, si presentò al campo aragonese per trattare la tregua: Ferrandino era disposto ad accettare la resa senza condizioni, secondo quanto riferiva il cronista veneto Marin Sanudo nei suoi Diari. Consalvo di Cordova, assunto il comando delle operazioni, organizzò l’assedio in modo che Atella rimanesse isolata dagli altri centri francesi e non vi giungessero più viveri e ordinò di rompere li molini alla Cità  che furono poi occupati e distrutti, per costringere il Montpensier a cedere senza condizioni. Gli stradiotti compirono anche razzie di animali, spingendosi nelle campagne pugliesi controllate dai francesi, i quali usciti armati il 1° luglio dall’università assediata, furono respinti con gravi perdite. 
Vennero successivamente inviati contro Ripacandida presidiata dai francesi, dei soldati che si accamparono sulla fiumara che scorreva ai piedi del colle. 
Gli aragonesi, dopo aver preso una chiesa nelle vicinanze di Atella, sotto il comando di Antonio de Fabio si scontrarono presso Venosa contro trecento armati, i quali furono però dispersi dai veneti, il 16 di luglio. I successi degli aragonesi resero ancor più tragica la situazione: la guarnigione francese era costretta a cibarsi ormai di grano cotto e carne di giumento, mentre i cavalli si nutrivano solo dei pampini delle vigne. Il 19 luglio, il de Percy ritornò ad Atella per trattare la resa e assistette al gaudio degli aragonesi che accolsero gli stratioti rientrati nel campo con i cavalli e con i prigionieri francesi presi alla fiumara. Le trattative proseguirono e poiché il conte di Montpensier aveva preso in sposa Chiara, sorella di Francesco Gonzaga, l’intervento di quest’ultimo servì proprio a mitigare le richieste di Ferrandino. Il sovrano concesse difatti la tregua fino al 20 di agosto, giorno in cui i francesi dovevano abbandonare Atella e si impegnava, qualora non arrivassero gli aiuti promessi da Carlo VIII al Montpensier, di scortare l’esercito francese fino a Castellammare, dove questo si sarebbe imbarcato per la Francia. In aggiunta, promise di fornire al Montpensier il danaro necessario per pagare i suoi mercenari. Alla tregua non aderirono i francesi che mantenevano ancora Venosa; il Montpensier, invece, fu costretto a lasciare Atella ancor prima della data stabilita. 
Ferrandino, dunque, il 31 luglio concesse un prestito di 10.000 ducati, accettando di assumere al suo servizio 50 homini d’arme et zercha 600 sguizari che rimarranno ad Atella e si fece garante di un prestito di 16.000 ducati concesso al Montpensier da banchieri fiorentini. 
Il giorno stesso ebbe inizio l’esodo dei francesi che abbandonarono ad Atella le loro bombarde et tute lhoro robe. I francesi, all’alba del 3 agosto, scortati dagli  stratioti del Gonzaga e da soldati spagnoli, partirono alla volta di Castellamare, ma le navi che dovevano riportarli in Francia non giunsero e pertanto i prigionieri vennero trasferiti a Portici e qui il 5 di ottobre morì il Montpensier (probabilmente di malaria) che aspettava l’autorizzazione per recarsi a Mantova come ospite della famiglia di sua moglie. L’assedio, pur verificandosi nel momento più alto dello sviluppo di quest’università, lo interruppe traumaticamente: i lutti, gli stenti, le epidemie, la fame ed il conseguente stravolgimento delle attività economiche che esso comportò, avviarono un processo di progressiva decadenza per Atella. 

Riferimenti bibliografici
M. SARACENO, T. PEDIO, Atella 1496, Rionero, Tarsia, 1996.
C. CONTE, M. SARACENO, Territorio uomini e merci ad Atella tra medioevo ed età moderna, Venosa, Appia2, 1996.