giovedì 21 settembre 2023

La cultura meridionale. 2. I Napoleonidi e il classicismo

 La trasformazione dei modi e delle forme dell’uso dell’antico, già seriamente modificata nel corso del 1799, nel Decennio investì linguaggi e pratiche della comunicazione, a livello politico, letterario, artistico, in un complesso, spesso contraddittorio rapporto tra centralismo ‘dirigista’ napoleonico ed attuazioni del linguaggio comunicativo napoleonico, quasi costretto, nella pratica, ad adattarsi non solo al preesistente sostrato politico-culturale, ma anche, e soprattutto, a ripensare se stesso in funzione di una riformulazione modernizzatrice e professionalizzante. Un progetto, dunque, di attivo e sostanziale coinvolgimento di intelligencja e risorse socio-imprendi-toriali nella costruzione del consenso e di classi altamente professionalizzate.

Gioacchino Murat e sua moglie, partiti da un’idea di sovranità fondata essenzialmente, secondo il modello delle corti romane, sulla rappresentazione statuaria, a Napoli adottarono un’iconografia ancora tendente alla riformulazione dell’antico, ma essenzialmente fondata sulla rappresentazione artistica. In quest’alveo, ispirandosi al modello di collezionismo di Giuseppina Beauharnais, Carolina Murat tese a collezionare e commissionare pezzi, come gioielli e gemme, rimontanti ad una simbolica del potere imperiale fondamentalmente incentrata sui simboli più antichi del Regno di Napoli, quali, ad esempio, Partenope o, in campo regale, l’iconografia della Afrodite-Aspasia rimontante essenzialmente alla Venere-Aspasia ispirata alla Afrodite Sosandra di Kalamis (all’epoca ritenuta una raffigurazione di Vesta). In tali raffigurazioni, denotanti il modello della sovrana-madre e moglie saggia, probabilmente in netto contrasto con l’immagine di Maria Carolina qual era stata costruita dalla propaganda antiborbonica (si pensi, in tal senso, agli scritti di Lomonaco e Cuoco di quegli anni), Carolina Murat fu aiutata dall’entourage napoletano.

Naturalmente, queste direttive napoletane, sia pure esercitate in autonomia, rispondevano a quelle napoleoniche. Non è qui il caso di riprendere la vexata quaestio dell’uso dell’antico nella corte di Napoleone, quanto, piuttosto, di capire cosa l’imperatore volesse propugnare con il recupero delle letterature classiche nel suo sistema imperiale.

Napoleone, è noto, aveva letto solo alcuni classici e, tra gli altri, Tacito, del quale non apprezzava il metodo, pur reputandolo un “grande spirito”. Eppure, pur poco noto e poco stimato fino a metà Seicento, Tacito era divenuto, nel secolo dei Lumi, un autore fondamentale. Numero e qualità delle edizioni e traduzioni delle sue opere aumentarono in modo significativo dal 1750 fino all’inizio del xix secolo. Ritenuto una fonte affidabile, Tacito, aveva ispirato ampiamente il pensiero politico, con la sua Germania. Ma, soprattutto attraverso Montesquieu, lo storico latino era divenuto l’auctoritas fondamentale nella denuncia della tirannide. Più che i suoi personaggi, come Tiberio, Nerone o lo stesso Agricola, comunque, fu la figura stessa di Tacito che catturava l’attenzione del xviii secolo: scrivendo sotto la monarchia, scrivendo contro essa, lo storico latino diveniva il vero eroe della sua opera in quanto denunciatore di tutti i tiranni, una sorta di philosophe ante litteram.

Napoleone, tuttavia, considerava Tacito non uno storico tout court quanto, piuttosto, uno scrittore partigiano, che dalla sua partigianeria aveva, per così dire, “creato” dei mostri, quando, secondo il còrso, quegli imperatori erano pur sempre, e tendevano ad essere, «hommes de son peuple». In tal senso, Napoleone avrebbe definito lo storico latino un pamphlétaire. Ciò è spiegabile soprattutto in base alla concezione pragmatica che Napoleone ebbe della storia e, dunque, della storiografia:

Tacite n’a pas assez développé les causes et les ressorts intérieurs des événements; il n'a pas assez étudié le mystère des faits et des pensées. Il n’a pas assez cherché et srruté leur enchaînement pour transmettre à la postérité on jugement juste et impartial. [...] 

 L’Histoire, comme je l’entends, doit savoir saisir les individus et les peuples, tels qu’ils pouvaient se montrer au milieu de leur époque. Il faut tenir compte des circonstances extérieures qui doivent nécessairement exercer une grande influence sur leur action et voir clairement dans quelle limites s’exerçait cette influence. Les empereurs romains n’étaient pas si mauvais que Tacite nous les peint.

Tra l’altro, l’idea stessa di verità storica interessava lo statista corso in modo abbastanza relativo:

La verità, nella storia, difficilmente si conosce. Per fortuna, nella maggior parte dei casi, essa è più degna di curiosità che importante.

La verità storica è solo una parola. È impossibile conoscerla quando le passioni sono accese. In seguito, l’accordo sull’interpretazione di un fatto si raggiunge perché gli interessati, i possibili contraddittori, non esistono più.

La verità storica è una favola convenzionale.

Un atteggiamento pragmatico, dunque, che escludeva del tutto letture erudite, incoraggiamento di studi classici non legati alla praticità, all’azione politica ed all’educazione tecnica. Eppure, tale atteggiamento sarebbe stato travisato, volutamente, dagli scrittori successivi:

Il Dureau de la Malle una volta disse a Napoleone che lavorava su Tacito, e Napoleone gli rispose seccamente: Tant pis. [...] Il giornale dei Débats dichiarava la guerra allo storico odiato dall’imperatore. Nei numeri dell’11 e del 21 febbraio del 1806 comparvero due articoli contro lo storico e contro i filosofi suoi ammiratori. Si faceva loro carico di avere rimesso in onore Tacito.

Del resto, il gusto di Napoleone per l’antichità si li-mitava a Plutarco, che gli aveva messo innanzi, per così dire, il modello di Cesare e di Alessandro, ossia quello di un potere monarchico di fatto, ma personalistico: sicché era naturale come l’imperatore non a-masse uno storico come Tacito, che aveva messo in luce il destino dell’impero come degenerazione del-l’antica repubblica romana. Del resto, lo stesso Napoleone, fin dalla sua prima campagna in Italia, fu paragonato agli eroi plutarchei dell’azione e di ciò si compiacque sempre.

Nonostante la forte avversione a Tacito, comunque, Napoleone stesso aveva dato il suo imprimatur alla pubblicazione della seconda edizione della traduzione di tutto Tacito ad opera di Dureau de la Malle (1793), pubblicata nel 1808. Proprio in virtù di tale traduzione, Dureau era stato nominato componente del Corpo Legislativo nel 1802 e dell’Académie française il 3 ottobre 1804. La ristampa del 1808 si spiega in quanto, nella prefazione, Dureau aveva additato Tacito come esempio del fatto che, nella società romana,

il n’en était pas [...] comme de nos nations modernes, où la société est morcelée en une infinité de classes isolées, qui n’ont rien de commun l’une avec l’autre [...]. Chez nous l’homme de guerre n’entend rien aux lois; l’homme de lois n’entend rien à la guerre. Les lois civiles y sont même séparées de l’administration. La religion a ses ministres, la finance a ses secrets à part. La politique du dehors, les négociations y sont encore confiées à des main différentes; toutes les connaissances son éparses. A Rome, au contraire, le même homme avait été guerrier, avocat, magistrat, juge, financier, pontife; aucun des objects dont traite l’histoire ne lui était étranger.

Il che era ben riferibile a Napoleone stesso, che ambiva a presentarsi come uno statista a tutto tondo e che, nei fatti, avrebbe superato Tacito in quanto egli stesso imperatore. Un modello di governante che recuperava l’antico in senso pragmatico, offrendo un’immagine di sé come statista, pensatore, legislatore, ritornando, di fatto, non tanto e non solo alla concezione imperiale romana quanto, in tralice, a quella del sovrano delle origini, ben esemplificato, ad esempio, da figure come Numa Pompilio. Proprio di questo sovrano Napoleone aveva letto in Plutarco, finendo, probabilmente, con l’imporre un’immagine non dissimile dal sovrano-legislatore. E questo spiegherebbe, altresì, la diffusione, anche a Napoli, nel difficile contesto del 1814, del romanzo pastorale Numa Pompilius, second roi de Rome di Jean Pierre Claris de Florian. Si trattava di una trasparente allegoria del buon re, modellata dal Florian in base al Télémaque di Fénélon e diretta a Luigi xvi: 

Numa naquit au milieu des orages de la révolution: son succès n’en fut pas moins grand, et l’émule de Fénélon eut le double mérite d’attacher qu’une foible importance à cet ouvrage. 

Tuttavia, l’immagine di Numa ben poteva essere recuperata sia da Napoleone che, in effetti, da quel Murat che aveva ambito a ritagliarsi uno spazio sempre più autonomo nel sistema imperiale napoleonico e che stava agendo per sopravvivere ad esso.

La storia imperiale, come detto, recepita in età napoleonica come esempio amministrativo e, in tale alveo, Tacito visto non tanto come storico, quanto come personaggio della sua stessa storia, attore prima che scrittore e, dunque, esempio di cultura politica da tramandare, al di là delle manchevolezze rilevate da Napoleone stesso nel suo metodo. Sicché non stupisce, anche a Napoli, l’ampio successo dell’Agricola, riguardante un onesto servitore della monarchia, interpretato da Tacito - e dagli scrittori napoleonici - come vittima della tirannide. 

giovedì 7 settembre 2023

La cultura meridionale. 1. Il secondo Settecento tra antichi e moderni

Necessità di semplicità, di esemplarità, di una formazione, per così dire, scientifico-morale, in senso pedagogico: queste furono le cifre della nuova declinazione dell’antico in età napoleonica, che passarono anche attraverso una nuova e più accurata pratica della traduzione dei classici greci e latini. Infatti, quello che potrebbe essere definito “rinascimento napoleonico” si differenziò notevolmente, per metodo e scopi, dall’antiquaria napoletana del tardo xviii secolo, pur presupponendola ampiamente, nell’alveo, anche in campo culturale, di una continuità generazionale.

Il secondo Settecento meridionale, infatti, fu segnato anche dalle scoperte di Pompei, Ercolano, Stabia e Pozzuoli, che inserirono Napoli nell’itinerario del Grand Tour, spronando i viaggiatori ad andare oltre la capitale ed avventurarsi nelle province più interne del Regno di Napoli alla ricerca di prove tangibili della grecità. Se, tuttavia, l’antiquaria risorgeva a nuova vita, restava imprescindibile l’attenzione alle condizioni materiali delle province, sottolineata dalla scuola genovesiana, che aveva iniziato a teorizzare la necessità di una conoscenza delle scienze economiche per giovare allo sviluppo della nazione. Sviluppando l’opposizione tra «erudizione» ed «antiquaria», già presente nell’opera di Pietro Giannone, i riformatori della cerchia di Genovesi puntarono, dunque, sulla necessità di esaminare, più che la storia politica, commercio ed agricoltura, creando, come in Francia, una netta opposizione tra un’erudizione di seconda mano, che appagava la semplice curiosità e scienze utili per scoprire le cause del progresso economico. 

Certo, gli antiquari napoletani erano anche dei politici, nel senso che la loro erudizione non era sempre fine a se stessa, ma collocata al servizio del programma sviluppato dal Giannone, soprattutto dagli anni Trenta del Settecento, per estendere la supremazia del sovrano nelle questioni ecclesiastiche e giudiziarie (regalismo e giurisdizianalismo). Così, le monete, le medaglie e le iscrizioni, come pure i diplomi e la scrupolosa ricerca d’archivio, diventavano strumenti fondamentali per ricostruzioni storiche che intendessero confermare l’autonomia del Regno rispetto alla Chiesa e limitare la proprietà e la giurisdizione dei vescovi, dei monasteri e dei santuari. Tale causa produsse non solo, come noto, opere di giuristi e uomini di lettere come Saverio Mattei, Giovanni Andrea Serrao e Ciro Saverio Minervino, ma anche opere storiche di rilievo come l’Istoria del Regno di Napoli di Alessio De Sariis.

Un trait d’union rilevabile tra quel tipo di antiquaria proteso al riconoscimento delle antiche radici italiche e la nuova scienza dell’antico ripresa soprattutto nel Decennio è riscontrabile proprio in queste comuni matrici di cultura politica. Usare l’antico, più che commentarlo: servirsi degli antichi scrittori per ritrovare nel passato le radici di un progetto di cultura ed azione volto a rinnovare, finalmente, il Mezzogiorno d’Italia ma, come in campo amministrativo, partendo dagli anelli di base, le province del Regno, con il loro tesoro di cultura.

Uso analogico dell’antico, questo, ripreso, come noto, nel corso del 1799, quando la propaganda, infatti, avrebbe di fatto trasformato gli antichi eroi, soprattutto greci, in esempi civici, la cui grandezza derivava dall’essersi messi al servizio di una causa pro patria: così, per fare uno degli esempi più noti, il generale Championnet, che seppe ritirarsi per non prevaricare la causa che serviva, poteva essere accostato al modello classico del Timoleonte di Plutarco, che si ritirò non appena liberata Siracusa dalla tirannide. Le figure eroiche venivano, in tal modo, recuperate nella loro umanità, con le loro debolezze, in modo tale che ogni patriota potesse identificarsi con esse. 

I topoi più usati nella pubblicistica furono proprio quei politici che avevano anteposto la patria ad ogni interesse personale (in ciò contribuendo ad “eroicizzare” gli stessi “patrioti” come, ad esempio, Domenico Cirillo o Francesco Mario Pagano, in tal senso presentati al lungo Ottocento come esempi di eroi dell’agire comunitario e, come tali, consacrati nella pubblicistica risorgimentale, specie di matrice napoletana), come, appunto Timoleonte e il romano Bruto, in una sorta di simmetria tra mondo classico latino e mondo classico greco. Marco Giunio Bruto, consacrato in Italia dal Bruto secondo di Vittorio Alfieri, pubblicato nel 1789 e, ancor prima, da La mort de César di Voltaire, pur essendo universalmente noto come uno degli organizzatori della congiura contro Cesare, “reo” di non rinunciare al proprio potere assoluto a favore della libertà repubblicana, era diventato esempio illustre di patriottismo. Si usava l’appellativo di “secondo” per distinguerlo da Lucio Giunio Bruto, il quale sollevò il popolo contro Tarquinio il Superbo e assistette all’esecuzione dei suoi due figli, colpevoli di tramare contro Roma a beneficio dei Tarquini: a Bruto “primo” Alfieri aveva dedicato un’altra tragedia, intitolata appunto Bruto primo, scritta nel 1784. Nella pubblicistica Bruto “secondo” era il simbolo dell’eroe di stampo massonico, che per servire la causa repubblicana non aveva esitato a sacrificare l’affetto più caro, in dichiarata simmetria con Timoleonte, che aveva assassinato il fratello tiranno di Corinto. Tra l’altro, oltre all’esempio alfieriano, sugli scrittori repubblicani agiva forte anche il ricordo delle tragedie francesi, come detto nel caso di Bruto, anche se il sacrificio dell’affetto paterno, molto più dichiaratamente politico in Alfieri, in Voltaire era presentato in modo anche più ambiguo. Per Timoleonte, il successo dell’exemplum in chiave politica fu sicuramente dovuto al fatto che il motivo del fratricidio era un esempio fortemente politicizzabile di conflitto tra i legami familiari e la tensione verso la libertà, decisamente espresso, oltre che dall’Alfieri, da Marie Joseph Chénier in una tragedia la cui rappresentazione fu proibita da Robespierre poiché si esaltava il ritiro dell’eroe dalla politica dopo la liberazione della patria. Un esempio è nel periodico napoletano del 1799 «Corriere di Napoli e Sicilia», in cui un posto di primo piano era affidato ad una figura così gloriosa del libertarismo siciliano, che, tuttavia, a differenza di tanta altra pubblicistica del periodo, qui compariva, piuttosto che in relazione all’eliminazione di suo fratello Timofane, aspirante tiranno a Corinto, come tirannicida e liberatore di Siracusa dalla tirannide di Dionigi II. Questo perché in Plutarco, specie nei primi capitoli della biografia timoleontea, l’editorialista trovava i temi più consoni alla sua propaganda del progetto di liberazione della Sicilia dalla tirannide borbonica: la desolazione e l’imbarbarimento dell’isola sotto i tiranni e il baluardo di libertà rappresentato dagli “stranieri” accorsi in aiuto dei siciliani. Le parole di Plutarco ben si accordavano a descrivere lo stato dei siciliani sotto Ferdinando, aiutato dagli inglesi:


per il resto della Sicilia, una parte di essa era rovinata e già completamente priva di abitanti a causa delle guerre, e la maggior parte delle città erano occupate da barbari di razze miste e soldati disoccupati, che acconsentivano prontamente ai successivi cambiamenti nel potere dispotico. […] conseguenza, quelli dei Siracusani che rimasero nella città erano schiavi di un tiranno che in ogni momento era irragionevole, e il cui spirito in quel momento era reso completamente selvaggio dalle disgrazie.


Non casualmente, Ferdinando IV, in più punti del periodico, viene apostrofato come «novello Dionisio», quindi con una forte spinta analogica verso l’immagine di un tiranno selvaggio e disperato, aiutato da uno straniero che voleva impadronirsi delle sue ricchezze: sicché si spiega anche l’analogia tra Inglesi e Cartaginesi presente nel giornale. Entrambi, dunque, immagini di slealtà e di collaboratori del tiranno contro l’eroe liberatore.

Come visto, dunque, uno degli autori cardine di questa trasformazione nell’uso dell’antico fu Plutarco e, del resto, la biografia plutarchea, anche in Italia, era stata una delle forme principalmente adottate nella stesura di molte storie locali, sfruttata e conosciuta già negli storici ‘definitivi’, come del resto già aveva evidenziato Croce, notando come una sorta di genere misto tra storia e biografia attraversasse trasversalmente le opere di storia ‘nazionale’.

Delle forme biografiche note alla cultura rinascimentale, quella più nota e seguita fu, tuttavia, la biografia classificatoria del tipo de viris illustribus, mutuata da Svetonio e Girolamo e già ampiamente utilizzata, in direzione elogiativa, dal Platina e dal Panvinio. Tale tipologia, che andava a continuare, sovrapponendovisi, le forme cronachistiche ancora in uso in pieno xvi secolo, permetteva allo storico di integrare le informazioni cronologico-topografiche con l’esemplarità ed il gusto dell’aneddoto morale, ed al tempo stesso volto, tramite i memorabilia, a definire taluni aspetti delle virtù ‘civiche’ della comunità. In tal modo, l’imitazione del dettato della storiografia tradizionale, di tipo cronologico-istituzionale, si ampliava, spesso, all’inserimento, nella delineazione del bios cittadino, di letterati, artisti ed eruditi come esempi cittadini. 

D’altro canto, utilizzare la forma biografica come struttura narrativa dispensava gli autori dal dover esprimere chiaramente una propria opinione politica, presentando la storia cittadina come una serie di quadri staccati: probabilmente sui seguaci della biografia agì fortemente anche il modello delle notissime biografie papali del poligrafo ed erudito agostiniano Onofrio Panvinio. In effetti, la necessità imposta dalla forma biografica di partire dalla nascita di un personaggio illustre dispensava dal dover chiaramente esprimere una tesi sul progressivo cambiamento della natura del rapporto tra città e potere centrale che verificava ai propri tempi.

La biografia di singoli fu poi adottata, come genere prettamente rinascimentale, non collegata ad altre biografie ‘categoriali’, soprattutto grazie alla riscoperta di modelli antichi come Nepote e Plutarco. Il primo, con la sua divisione degli uomini illustri in categorie, poteva essere ancora un legame con l’ormai classico schema dei viri illustres ma, non offrendo alcuna esplicita comparazione tra i personaggi, divenne una sorta di modello espositivo della nuova fioritura biografica, offrendo lo schema di una narrazione strutturata per mitologemi molto più articolati di quelli classificatori di origine svetoniana.

Prova della diffusione dell’opera di Plutarco è la fioritura di edizioni italiane tra XVI e XVIII secolo.

Santi di Basilicata. 7. I santi patroni dei paesi lucani

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