giovedì 26 agosto 2021

Paesi lucani. 60. Pisticci: la frana del 1688

Già tra i secoli XVII e XVIII  Pisticci si estendeva su un territorio di 23.000 ettari circa, compreso tra i fiumi Basento, a Est, e Cavone, a Ovest, che lo separavano, rispettivamente, dai comuni di Bernalda e Montalbano. Le tre colline su cui sorgeva il centro storico, Serra Cipolla, San Francesco e Monte Como, erano situate sul versante occidentale, dove la natura del terreno era in prevalenza argillosa e silicea. I versanti delle colline erano caratterizzati da ripide scalanature, i calanchi. Proprio a causa della componente argillosa del terreno, l’abitato di Pisticci è stato spesso interessato da vari fenomeni di dissesto idrogeologico, smottamenti e movimenti franosi. 

Buona parte della storia di Pisticci è legata fortemente  alle frane che nel corso dei secoli ne hanno modificato il territorio .
I frequenti dissesti del sottosuolo comportarono una serie di fenomeni franosi, in cui videro il crollo intere parti dell’abitato. Nel corso del Seicento, la contrada di Casalnuovo, la più popolosa dell’intero centro urbano, fu anche la più duramente colpita dai fenomeni di smottamento del terreno.
Senza dubbio, tra le frane che, nei secoli, tormentarono il territorio pisticcese, quella del 1688 fu la più disastrosa e le sue conseguenze restarono, nei secoli, visibili all’interno della struttura urbana . 
L’evento del 9 febbraio 1668 restò impresso, nella memoria collettiva, come la "notte di Santa Apollonia". Buona parte del centro urbano del tempo, costituito dalle contrade della Terravecchia-Casalnuovo, si divise in due parti. Il movimento franoso si fermò solo quando trovò un ostacolo insormontabile nella mole delle fondamenta della Chiesa Madre, zona chiamata per questo Palorosso. La frana rase al suolo palazzi gentilizi, abitazioni comuni e parte della piazza antistante la Chiesa Madre, punto nevralgico del paese , provocando la completa rovina dell’antica struttura urbana. L’unico edificio risparmiato dal crollo fu  la chiesa dell’Immacolata Concezione . La lenta riedificazione fu tutta ad opera dei cittadini che, nei successivi decenni di incessante lavoro, fecero largo uso del materiale ricavato dalla frana, per ricostruire le zone distrutte. Già nell’ultimo decennio del secolo, i pisticcesi cominciarono la lenta opera di ricostruzione dell’abitato, che si tradusse nel secolo successivo nell’intensa urbanizzazione del pianoro di San  Francesco e nel sorgere di nuovi rioni .
Il periodo a cavallo fra gli ultimi anni del Seicento e i primi decenni del Settecento fu caratterizzato da un’intensa attività di ricostruzione, che vide impegnati i pisticcesi nel ripristino dell’assetto urbano della vasta area della città distrutta nel 1688. La circostanza della frana rappresentò un elemento fortemente condizionante nello sviluppo urbano dei secoli successivi, poiché ne modificò radicalmente la direzione di espansione . 
Nei mesi seguenti alla notte di Santa Apollonia, il marchese di Laino, della potente famiglia dei De Cardenas , feudatari di Pisticci, offrì, con intento speculativo, un vasto territorio in località Caporotondo, precisamente sul pianoro delle Amendole (a circa sei chilometri dal vecchio centro abitato), per la ricostruzione e il trasferimento totale del paese . Gli eletti e il Sindaco, più vicini all’anima del popolo, decisero di riedificare i luoghi franati di Pisticci sulle rovine della zona sprofondata. Fortunatamente, la Cattedrale e parte della piazza antistante, centro nevralgico della vita civile e spirituale del paese, furono risparmiate dalla frana. La cattedrale e il campanile del XIII secolo rimasero intatti e fu proprio da quest’area che partì la ricostruzione .

BIBLIOGRAFIA:

D. D’ANGELLA, Saggio storico sulla città di Pisticci, Pisticci, Tip. I.M.D. lucana, 1978.
C. SPANI, Cronache pisticcesi, Roma, Luigi Spani editore, 1990.
G. CONIGLIO, Notte di santa Apollonia. 9 Febbraio 1688. Frana Rione Dirupo-Pisticci, Pisticci, Tip. I.M.D. Lucana, 2009.
M. R. PIZZOLLA, Pisticci: Storia urbana, Potenza, EditricErmes, 2003.

giovedì 12 agosto 2021

Materiali didattici. 56. La rivoluzione del 1860 in una testimonianza di quei giorni

I municipi del cessato governo, le stesse autorità amministrative e giudiziarie non esitarono un istante per riconoscere il nuovo governo, ed offrire ad esso la propria ed efficace cooperazione. Docili i popoli, docilissime le autorità parve che la rivoluzione tanto temuta e calunniata da’ retrivi fosse servita a ristabilire la pace pubblica, ed a riconsolidare la interna tranquillità, e l’ordine delle più ci-vili nazioni. E se la nostra Città vedesi irta di barricate per tutelarsi da inattese aggressioni di regi predoni, nella nostra Città spira quella calma, e quella sicurezza che derivano dalla forza del diritto, dalla giustizia dell’operato, e dalla grandezza dell’impresa.
Operosi, attivi, solerti provvengono i nuovi impiegati, commisti con molti de-gli antichi a quanto richiede l’urgenza del momento, ma con somma modestia, e silenziosamente. Non vessazioni di sospettosa polizia, non ricerche minuziose, ed incomode; il cittadino di Potenza o del regno intiero non deve dar conto tra noi dei suoi atti ai Magistrati se non quando gli atti si verificassero opposti alle leggi, o attentatori al supremo diritto della ricostituzione nazionale.
I governi deboli, ed usurpatori dei diritti del popolo temono di tutto, paventa-no fino delle ombre, delle parole, del sospiro, dei sogni medesimi; un governo forte come il nostro perché istituito dalla volontà generale, ed appoggiato dalla concorde cooperazione dei cittadini di tutte le classi non teme non paventa di alcuno, e corre spedito per la via tracciatagli dall’opinione pubblica, cioè riconoscere GARIBALDI come supremo Duce, e Dittatore della grande impresa nazionale, preparare ogni mezzo per coadiuvare la riuscita, allargare la rivoluzione nelle vicine provincie e posare le basi le più solide della futura ricostruzione nazionale.
Tali furono e sono i prodromi, e la storia della nostra rivoluzione, che passando ammirata, ed incontaminata fra i posteri ci farà ricordare dei medesimi portenti avvenuti nel 1820.

FONTE: «Corriere Lucano. Giornale Ufiziale dell'Insurrezione», n. 5 (1 settembre 1860), p. 19.

giovedì 5 agosto 2021

Il Mezzogiorno moderno. 17c. Il Corriere Lucano del 1860

L’esperimento comunicativo fu pienamente attuato, invece, con la rivoluzione del 1860, un’operazione pianificata, che non casualmente vide confluire nella città capoluogo Potenza patrioti organizzati e non. L’eccezionale esperimento del Governo Prodittatoriale, gli assetti e gli indirizzi politici, la pratica politico-istituzionale che lo caratterizzarono, portarono ad un esperimento di compartecipazione al progetto politico che fece della comunicazione, attraverso il «Corriere Lucano», uno strumento di rilievo.
Il «Corriere Lucano. Giornale Ufiziale della Insurrezione» fu pubblicato a partire dal 23 agosto 1860, il martedì, giovedì e sabato. Il giornale constava generalmente di un editoriale, proclami e atti del Governo Prodittatoriale, informative sugli sviluppi militari e, con minore regolarità, «cronachette interne» della vita del capoluogo.
Secondo una formula che, in ultima analisi, rinviava ai tradizionali fogli volanti a larga tiratura e ad ampia diffusione, come nel caso dei già citati «Giornale Patriottico» e del «Circolo Costituzionale Lucano», il numero di pagine era limitato a sole quattro. Il giornale si presentò fin da subito come organo ufficiale della Prodittatura, recando, infatti, l’indicazione esplicita che la redazione fosse situata nel «Palazzo Prodittatoriale», quel palazzo Ciccotti dal quale Giacinto Albini e Nicola Mignogna avevano proclamato, il 19 agosto, l’insediamento del nuovo governo . Inoltre, proprio in tale direzione, ossia come voce ufficiale e super partes dell’insurrezione, gli editoriali non recavano alcuna firma. 
In base a tali direttive, è presumibile che autore di gran parte degli editoriali fosse lo stesso Giacinto Albini, che a Napoli aveva avuto, nel biennio precedente, esperienze di giornalista per il «Corriere di Napoli» . Gli unici «compilatori» – attestati solo nel primo numero e che, si può presumere, si assunsero l’onere di redigere le notizie giornaliere – furono Giovanni Giura, Giorgio Saverio Favatà e Luigi Masci. Si tratta-va di collaboratori di rilievo, con importanti esperienze professionali e di cultura politica, a partire dal Giura, avvocato nato a Chiaromonte che fece parte, oltre che della Commissione per la redazione del «Corriere Lucano», anche della Legazione per le vettovaglie e vetture . 
Per quanto concerne il Favatà, anch’egli uomo di formazione giuri-dica, ancora studente, nel 1853, era stato incluso tra gli «attendibili» po-litici e sottoposto a sorveglianza di polizia, «relegato» in domicilio coatto a Potenza e, dopo il 1857, a Ruoti. Nell’esercizio della sua professione a Potenza aveva destato sospetti per i suoi rapporti con i fratelli Tiberio, Orazio ed Emilio Petruccelli e, nel giugno del 1859, era stato arrestato perché autore di un opuscolo ritenuto «scandaloso»; scarcerato nel luglio, venne relegato a Lauria, dove aveva fatto parte del locale comitato insurrezionale . Un’esperienza, dunque, di cultura e di pratica politica in senso decisamente democratico, quasi a equilibrare il moderato Giura. 
Infine, Luigi Masci che, nato a Potenza nel 1810, era stato impiegato dell’Intendenza di Basilicata. Personaggio dal forte profilo comunicati-vo, aveva pubblicato poesie d’occasione e, il 15 luglio 1859, aveva tenuto, a Potenza, il discorso ufficiale per la morte di Ferdinando II. Dopo il 1860 sarebbe stato impiegato nella Cancelleria della Corte d’appello di Potenza, ottenendo la direzione dell’Archivio Provinciale per il quale aveva già lavorato in precedenza .
Ai tre collaboratori segnalati dal primo numero, fu aggiunto, sul secondo numero del «Corriere», in data 25 agosto, Francesco Paolo Ambrosini, dottore in utroque jure originario di Armento e anch’egli uomo di comprovata attività «cospirativa».
Fin da subito, dunque, si organizzò una redazione costituita da componenti di comprovata esperienza nel campo della comunicazione politica. 
La stampa del giornale fu affidata a Vincenzo Santanello, in continuità con il precedente snodo del 1848-49, nel corso del quale il tipografo-editore, di origini napoletane, aveva prestato la propria opera per stampare proclami, tra i quali il noto Memorandum e il «Circolo Costituzionale Lucano». Santanello, già componente del decurionato potentino, fu, in effetti, nominato stampatore ufficiale del nuovo governo.