giovedì 23 novembre 2023

Potenza. 7. Acque pubbliche e rete fognaria a Potenza (Sabrina Cieri-Margherita Scavone)

Sabrina Cieri e Margherita Scavone sono due studentesse potentine del Liceo delle Scienze Umane "Rosa-Gianturco" di cui siamo lieti, in occasione del 43mo anniversario del terremoto irpino-lucano del 23 novembre 1980, di ospitare un breve post sulla questione idrica a Potenza tra Età moderna e contemporanea (NDR).


Al momento dell'elevazione a capoluogo di provincia, Potenza era servita da un antico acquedotto «a pelo libero che portava l'acqua potabile dalle sorgenti site in località Botte a circa tre chilometri dall'abitato, alla fontana pubblica dell'«Ancilla vecchia», dopo aver attraversato i «piani di Santa Maria». L'acquedotto correva in parte sotto terreni agricoli, in parte lungo strade pubbliche, costantemente esposto a danneggiamenti e manomissioni; piuttosto che ripristinare il vecchio impianto, ci si pose in un primo tempo l'obiettivo ambizioso di portare l'acqua direttamente in città con un nuovo acquedotto forzato in «tubi di pietra»; nel 1811 il Comune aggiudicò un appalto che prevedeva non solo di riattivare l'Ancilla vecchia, ma di raggiungere l'abitato entro breve tempo. I lavori terminarono nel 1813 quando fu completato il tratto dall'Epitaffio alla Croce di S. Maria. Nell'ultimo tratto si continuò ad utilizzare il vecchio acquedotto di fabbrica. Nel 1814 si decise il prolungamento dell'impianto verso la sorgente, ma dopo pochi anni di utilizzo, ai primi del 1822, l'acqua che arrivava alla fontana pubblica era nuovamente scarsa e torbida: ciò era in massima parte dovuto a carenze tecniche.

Nel 1831 il Decurionato decise di realizzare un nuovo acquedotto, rivelatosi insufficiente; ma i lavori furono sospesi nel 44 poiché si voleva realizzare la possibilità di far giungere l'acqua più vicino all'abitato. Tale compito fu affidato al Brancucci: secondo l'ingegnere si poteva procedere oltre la vecchia fontana, facendo seguire all'acquedotto un percorso ad anello attorno all'abitato, a mezza costa, in modo da poter impiantare altre sette fontane pubbliche nelle vicinanze della città e da essa grosso modo equidistanti, Ma il Decurionato si limitò ad approvare il completamento dell'acquedotto fino all'Ancilla vecchia, allo scopo di riattivarla al più presto. Tuttavia quest’ultima venne demolita e la nuova fontana venne ricostruita sullo stesso sito e con il medesimo orientamento della precedente, ma a quota più elevata per renderla meglio visibile dalla provinciale, ed entrò in funzione nel corso del 1848.

La fontana pubblica, oggi non più esistente, è citata nell'elenco delle strade comunali del 1871 come termine delle due vie di S. Gerardo e S. Giovanni, ed ancora riportata nella mappa catastale di impianto.

Nel 1888 la Società Italiana per Condotte d'acqua realizzerà, su progetto dell'ingegnere Giorgio De Vincentiis, un impianto capace di sfruttare, oltre alle antiche sorgenti della Botte e della Torretta, quelle di Montocchino, di Val dell'Emma e di S. Giovanni.

(FONTE: A. BUCCARO (a cura di), Le città nella storia d'Italia: Potenza, Roma-Bari, Laterza, 1999. 

Prima della realizzazione, fra il 1859 e il '63, del condotto fognario lungo via Pretoria, la città non era del tutto priva di sistemi di smaltimento delle acque piovane e dei liquami tanto che i rifiuti venivano gettati direttamente nelle strade. Solo negli anni di amministrazione del duca della Verdura il tema igienico-sanitario divenne oggetto costante di attenzione e di iniziative concrete. La questione fu ripresa soltanto dieci anni dopo, allorché il 15 marzo 1856 l'ingegnere Salvatores, direttore delle opere pubbliche provinciali, trasmise all'intendente Ciccarelli il getto di un «basolato lungo la via Pretoria in questo Capoluogo, e del condotto ad essa sottoposto» in esecuzione di un incarico dell'anno precedente: si sarebbe così rafforzato il ruolo del l'arteria quale asse stradale moderno ed infrastrutturato, dotato da un diverso carattere funzionale ed ambientale rispetto al resto della maglia viaria urbana. I lavori, intrapresi nel '59, furono portati a termine nel '63, nel corso dell'intervento fu realizzata, per la prima volta, l'integrale basolatura di via Pretoria, da Portasalza all'ospedale S. Carlo.

Si dovrà attendere il nuovo secolo e il regime fascista, comunque, per la creazione di un'efficiente rete di servizio all’interno del centro urbano.

mercoledì 15 novembre 2023

Paesi lucani. 66. I caduti di Bella della Grande Guerra (Simone Pignataro)

Simone Pignataro, di Bella, è uno studente che frequenta attualmente la classe Quinta del Liceo delle Scienze Umane "Rosa-Gianturco" di Potenza, indirizzo Economico-Sociale. Siamo lieti e onorati di pubblicare la sua ricerca relativa ai caduti della Grande Guerra, effettuata con rigore e metodo storico. (NDR)

Caduti e decorati

Durante la Prima Guerra Mondiale, Bella, come molte altre città italiane, fornì contingenti di soldati che si unirono all'esercito italiano per combattere sul fronte alpino e sul fronte italiano. Questi soldati affrontarono condizioni estremamente difficili in montagna, tra gelo e cattive condizioni meteorologiche. La Prima Guerra Mondiale ebbe un impatto significativo sulla vita dei cittadini di Bella, portando perdite umane e cambiamenti nella società e nell'economia della città. 

La partecipazione di Bella alla Grande Guerra è un aspetto importante della sua storia, che merita di essere studiato e commemorato come parte del patrimonio della città.


Il Parco della Rimembranza

“In un piccolo prato, in cui fioriva e fiorisce, simbolo di purezza, di amore e di gratitudine, la margherita, a cento metri dalla chiesetta della Madonna delle Grazie, … a pochi metri dalle prime case abitate, una meravigliosa opera di poesia è sorta, che si chiama Parco della Rimembranza, e trentasette alberi lo compongono, e ciascuno di essi porta un nome”. Il Parco della Rimembranza di Bella fu realizzato grazie all’opera del comitato per il Parco presieduto dall’insegnante Franco Lorenzo, che ricoprì anche la carica di presidente del Parco stesso. Furono piantati 37 alberi di olmo, disposti su un rettangolo di ottanta metri per venticinque. Gli alberi furono concessi gratuitamente dalla Reale commissione straordinaria per la Provincia di Potenza e prelevati dalle scarpate stradali. Il Parco fu inaugurato con la benedizione del Vicario generale Mons. Giovanni Vizzini l’8 aprile 1923 e nel corso della cerimonia furono solenni e carichi di poesia i discorsi del presidente Franco Lorenzo, del signor Vito Amoroso, dell’avvocato Lorenzo Lanzetta e del sindaco di Bella Giuseppe Falco. Documenti relativi agli anni dal 1929 al 1932 testimoniano l’attenzione dell’Amministrazione comunale per la manutenzione e custodia del Parco.  



(Fonte: Cento anni di vita. Foto album della  Comunità Bellese  dal 1881 al 1980
 curato da Mario Martone).   

Attualmente gli alberi votivi sono stati tutti abbattuti per lasciare posto ad un’area giochi, dequalificando il Parco della Rimembranza a Villa comunale, nonostante la sua memoria sia custodita nei cuori di molti cittadini bellesi.  
Sicché il Parco della Rimembranza di Bella è stato trasformato in villa comunale, le cui ultime risistemazioni hanno completamente stravolto l'immagine storica del parco. Oggi la villa si presenta come un'ampia area pavimentata, con delle aree verdi coltivate a prato e con alberi a chioma e a tronco medio. Sul prato è stata recentemente realizzata un’area di gioco, dotata di pavimentazione in gomma colata antitrauma, circondata lungo tutto il perimetro da una staccionata in legno. Ogni gioco è collocato sull’area nel rispetto dei parametri stabiliti in materia di sicurezza, in conformità alla normativa UNI EN 1176. Nel progetto, recentemente inaugurato il 1° agosto 2018, si è fatta particolare attenzione ai dettagli, quali la varietà dei colori o la presenza di giochi interattivi per stimolare i piccoli fruitori. Esso è stato concepito come un parco accessibile a tutti, che favorisce l’interazione e l’integrazione dei bambini. Tutte le strutture installate in villa sono concepite e realizzate nel rispetto dell’ambiente e fatte per durare nel tempo, con un notevole vantaggio in termini economici. Oltre all'area verde attrezzata vi è anche un’ampia area lastricata, dotata di muretti in pietra e illuminazione a raso.

Lapide commemorativa


La lapide rettangolare marmorea termina nella sua parte superiore a semicerchio e presenta lungo tutto il suo perimetro una sottile cornice a rilievo. L’opera è caratterizzata in alto dall’ iscrizione dedicatoria a rilievo, mentre subito sotto è l’elenco dei caduti e dispersi della città di Bella nel corso della Grande Guerra.
La città possiede un ulteriore monumento ai caduti costituito da una stele di piccole dimensioni in marmo dedicata ai caduti di tutte le guerre realizzata negli anni '60 del XX secolo.

BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA
Mario Martone, Storia della Comunità di Bella, s.l., s.e., vol. 8. STORIA CIVILE, pp. 261-263. 
Mario Martone, Storia della Comunità di Bella, s.l., s.e., vol.9. AMMINISTRATORI COMUNALI E LORO OPERATO, pp. 166 e 171. 
Franco Noviello, Bella nella storia: territorio e società, Muro Lucano, Comunità Montana Marmo Platano, 1983.  
Ufficio Anagrafe del Comune di Bella 
https://catalogo.beniculturali.it/ 
https://www.cadutigrandeguerra.it/ 



 
 
 
 
 
 
 
 
 



giovedì 9 novembre 2023

La cultura meridionale. 4. Fra tradizione e modernizzazione: il “Saggio storico” di Giuseppe Maria Arrighi (1809-1813)

Il Saggio Storico per servire di studio alle rivoluzioni politiche e civili del Regno di Napoli dell’Arrighi (Napoli, Stamperia del Corriere, 1809 [vol. I-II] 1813 [vol. III]), fu definito da Croce, al pari delle opere del Botta e del Colletta, come un’opera di «storiografia anacronistica», rivolta a considerare il passato con le lenti deformanti del presente.

Giuseppe Maria Arrighi, nato nel 1769, si recò a Napoli su invito di Cristoforo Saliceti, ministro di polizia di Giuseppe Bonaparte. Ritornato in Corsica nel 1815, vi morì nel 1834. Arrighi (probabilmente còrso, in quanto dedicò l’opera al patriota Pasquale Paoli) era, peraltro, stato già autore de La felicità, i diritti e le virtù sociali nella cattolica religione (in Roma, per Michele Puccinelli a Tor Sanguigna, 1794), nella quale, pur imbastendo una polemica anti-illuminista a difesa del papato, si era distinto per una notevole conoscenza dei philosophes, citando ampiamente La Mettrie, Helvetius, Bayle.

Con tale background, Giuseppe Maria Arrighi compose una storia che, arrivando al gennaio 1799, si imperniava su quello che Criscuolo ha definito come una sorta di “monarchismo repubblicaneggiante” nel quale, rivalutando – sulla scorta del Muratori – il regno longobardo ed ispirandosi al repubblicanesimo classico nell’esaltare le repubbliche medievali, il sovrano veniva inteso come garante della libertà del popolo. In tale ottica, l’Arrighi propugnava una monarchia ispirata al modello romano, nella quale la concessione delle libertà civili si unisse al compito di formare una coscienza ‘nazionale’ anche grazie al ruolo dell’esercito. 

Tuttavia, proprio su tali premesse, si può evidenziare come, nel III volume del Saggio, nell’ambito di una riflessione sul problema del «carattere nazionale» come base verso un’indipendenza italiana, comparissero alcune critiche al modello militare napoleonico, visto come eccessivamente professionalizzato e poco legato al tessuto cittadino, pur se l’Arrighi riconosceva, fin dalla prefazione, il regno di Murat come un’importante occasione di modernizzazione per il Regno di Napoli.

giovedì 19 ottobre 2023

Il Mezzogiorno moderno. 24. Il murattismo nel Mezzogiorno del XIX secolo

Il murattismo è un’altra categoria politica di difficile e varia interpretazione. Murat, infatti, più che per scelta, fu riformatore malgré lui: isolato, infatti, nel sistema imperiale-dinastico di Napoleone, Murat cercò di trovare una propria solidità come sovrano sulla base delle élites locali, riprendendo moduli operativi tipici del riformismo borbonico ma, nel corso del suo regno, trovando forti resistenze nelle richieste di costituzione avanzate da tali gruppi dirigenti, che avrebbero portato alla grande crisi del 1814-15 e sarebbero, a lungo termine, sfociate nei moti costituzionali del 1820-21.

Se a fine Ottocento, nel corso della stagione crispina, la stagione murattiana venne vista come punto d’origine del risanamento meridionale e di base per il processo unitario, essa non era stata, tuttavia, interpretata sempre come un momento positivo nel processo di partecipazione del Mezzogiorno d’Italia ai moti ottocenteschi. 

Fino al 1848 ed oltre, infatti, il Decennio napoleonico era stato additato come esempio di espansionismo, connotato da trasformismo e tendenza ad un centralismo conservatore e liberticida. Una tendenza interpretativa, questa, ampiamente condivisa dalla storiografia post-unitaria che, nel generale recupero del «pantheon dei martiri dell’Unità», significativamente mostrava quella che si può definire una vera e propria ‘gallofobia’, non evidenziando alcun contributo degli uomini del Decennio alla causa dell’Unità nazionale. 

Il recupero del murattismo a fine Ottocento, tuttavia, fu espressione della delusione derivata dalla politica piemontese tesa alla marginalizzazione delle rappresentanze meridionali: di fronte al molto offerto dal Mezzogiorno d’Italia alla causa nazionale, infatti, si percepì una risposta ampiamente evasiva, se non addirittura penalizzante, sicché, in una sostanziale accettazione dell’Unità, emergevano nuove istanze della rappresentanza politica meridionale ed il recupero di una stagione, quella murattiana, vista come premessa di un’Italia più ampia e pluralista, obliterata dal ‘compromesso’ mazziniano. Superando la taccia di «passatismo» legata al Decennio, Giacomo Racioppi, ad esempio, legava tale accusa piuttosto al borbonismo: pur mantenendo un basilare anti-murattismo, egli recuperava i Napoleonidi come premesse di un federalismo che meglio avrebbe potuto inserire il Mezzogiorno nel complesso del Regno d’Italia, in una sostanziale, accesa critica alla Destra Storica.


giovedì 5 ottobre 2023

La cultura meridionale. 3. Donato Venusio da Matera

 Lo studio di struttura, metodi e fonti della storiografia materana del xviii secolo offre un punto di vista di peculiare fruttuosità nella ricostruzione e lettura della cultura e pratica politica dei gruppi dirigenti della Matera vicereale e del primo periodo borbonico. Una realtà, quella materana, ormai pienamente dentro il ruolo di sede della Regia Udienza provinciale, nella quale il patriziato urbano risultava perfettamente integrato, come visibile nelle strutture urbane e, per quanto concerne il governo interno, profondamente radicato nella gestione del locale capitolo cattedrale. Per quanto riguarda la parte inerente la storia della città, è possibile riscontrare, in effetti, nella storiografia locale materana settecentesca, una topica strutturazione narrativo-argomentativa di tipo apologetico, basata sulle distruzioni di Matera (con il vero e proprio plagio “comune” dell’episodio per cui la città subì tanta fame che una madre fu costretta a mangiare il proprio figlio), il succedersi di popoli che ambivano a possederla, episodi riguardanti la diocesi – questi ultimi soprattutto in Donato Venusio, che incentrava (per lo scopo della primazia materana) la propria trattazione sulla cronotassi.

Il Venusio risulta, infatti, di notevole rilevanza per il suo percorso di cultura e di pratica nella gestione della Chiesa. Egli, infatti, apparteneva ad una famiglia originaria di Amalfi e con notevoli legami con l’ordine dei Gerosilimitani. Entrò (sicuramente in quanto figlio cadetto) nella carriera ecclesiastica fin da giovane, sicuramente dopo il 1663, data della dislocazione di Matera da Terra d’Otranto in Basilicata: 

Essendo stata questa nostra città dismembrata dalla prov. D'Otranto, e fatta Capo della prov(incia) di Basilicata ove risiedeva il preside con li Regi uditori, essendo il nostro arciv(escovo) Spinola andato in Roma (a far la renunza dell'arciv[escovo]) rappresentò al papa di mandarmi per vicario apostolico un qualche uomo di sperimentata virtù per opporsi ai pregiudizi che contro l’unità Ecclesiastica tentavano i regii ministri di fare per il re la S. Congregazione vi mandò Giulio Lamadei Marchegiano.

Canonico del Capitolo Cattedrale di Matera, fu dottore in utroque jure e autore di una Cronaca di Matera sino al 1711 con un appendice di Notizie appartenenti alla città e Chiesa di Matera, raccolte da varj autori, un’opera sulla Chiesa di Matera, con un sommario di documenti relativi all'oppugnata Diocesi e delle Institutiones astronomicarum Libri tres, iuxta Tyconis Brahé compilate nel 1698. 


Venusio fu uno dei protagonisti nelle vicende del contrasto primaziale tra Acerenza e Matera, poiché gli fu affidato il compito di tutelare le ragioni della chiesa materana; sicché, per svolgere il suo mandato, il canonico abbandonò gli studi di astronomia, cui si era dedicato con passione dopo essersi addottorato in utroque jure ed in teologia, e, raccolte notizie e documenti a sostegno della Chiesa di Matera, nel 1707 si recava a Roma per illustrare, davanti alla Sacra Rota, una ampia e documentata memoria per la Chiesa di Matera con un sommario di documenti relativi «all'impugnata diocesi». Dopo questa prima ricognizione documentaria, tornò a Matera nel 1707 e si dedicò, nei quattro anni successivi, alla stesura di una cronaca di stampo ecclesiastico, terminata nel 1711: 

Per non star dunque ozioso in Roma sintanto che si faceva la compulsa, e perchè venivo richiamato dal mio padre di felice memoria ritornai inso l'ultimo dal 1707 in Matera dove perchè fui destinato come inteso delle scritture ad accudire, e regolare la compulsa, giache sin adesso che è l'anno 1711 per castigo di Dio con […] accaduta tra gli nobili, e civili per la lite della nobiltà, e la poca unione de preti e per altri motivi che si devon tacere no è fattan detta compulsa hò proposta di riferir qui tutte le scritture confacenti alla nostra caosa e dove quella pronto aversi, e si conservano.

Il manoscritto della sua Cronaca è caratterizzata da una struttura a colonne, in cui la parte destra del foglio è dedicata alla narrazione, mentre la parte sinistra è destinata o alle precisazioni della narrazione - forse successivamente aggiunte -, o anche per indicare la fonte da cui aveva ricavato l'informazione; questo viene richiamato attraverso dei segni diversi come «# ± +» e altri. Venusio utilizzava, inoltre, nel racconto una serie di abbreviazioni delle parole: ad esempio utilizza «x» per indicare per, o i mesi settembre, ottobre e novembre, li indica apponendo il numero corrispondente alla parola: «7mbre», «8bre», «9mbre»; o anche «nt» o doppia n o m, il che farebbe pensare ad un testo rimasto, nonostante la commissione, nell’ambito della circolazione privata.

È possibile dividere l'opera in tre parti: una prima parte dedicata alla fondazione di Matera (ff 1-12); una seconda incentrata sulle vicende ecclesiastiche, successioni di papi, arcivescovi e vescovi, diocesi, intervallata da episodi politici che riguardano re, conquistatori o uomini illustri (ff. 12-59); una terza, riguardante la cronotassi dei vescovi e l’elenco delle fonti da cui Venusio aveva attinto (ff. 60-85).

La parte iniziale dell'opera esamina, come detto, l'origine di Matera e del suo nome. In particolar modo, è raccontata la fondazione della città di Matera, riconoscendone l'origine in Metaponto e dai pilii di Nestore, in quanto, come riferisce Venusio, le notizie antiche di Matera non sono reperibili se non attraverso le menzioni di Metaponto o Acherontia. Sicché, esprimendo le «cose notabili» di Metaponto, Venusio cercò di legare l’antica e documentata città magno greca alla sua, facendone la madrepatria materana: si spiega, dunque, l’ampia messe di riferimenti a teatri, templi e statue, il passaggio dal dominio greco a quello romano, l'origine di Eraclea e le città abitate dai metapontini, Metaponto e, appunto, Matera. L’origine del nome di Matera era altrettanto spericolatamente dedotta:


dice che Matera fu edificata dà Achirone compagno di Nestore; potendo ben credersi, che no essendo capace quel luogo di tanti popoli Pilis, che da Troia nemmeno si fussero divisi altri sotto la condotta di Nestore; altri d'Achirone, ed edificarono due città col nome di Metaponto; e la nostra fu poi così detta Matera, o da' Meteoros greco, che in latino suona sublime, o' da' mater eris, come molto riuda, overo Mater terrs, per il gran territorio, che tiene, conforme dice il Mazzella nella discussione del Regno di Napoli, opure fù così chiamata dall'esser stata poi accresciuta dai popoli dell'altra Metaponto, e di Eraclea doppo che queste furono distrutte, quali venuti frà di loro à contesa del nome, con il conseglio di Bittasio che allora viveva correndo l'Olimpiade 68 e gl'anni del mondo 3470 preferendo com'è costante tradizione riferita dà Ugheglio al tom. 7 della sua Italia Sacra tre lettere dal nome d'una città MET e altre tante dall'altra HERA e così Metera fu chiamata, il che maggiormente vien accertato dall'impresa che fa la nostra città del Bue ch'era insegna d'Eraclea edificata dai Boezi, con le spiche in bocca delle quali si vedano impresse le monete di Metaponto per la fertilità de suoi campi.


Il canonico materano, a tal proposito, si appoggiava su una memoria di Tommaso Stigliani appunto per confermare il fatto che Matera fosse colonia dei metapontini («simile sito ha nella Puglia amena l'antica Metaponto hoggi Matera»), in una contorsione, si potrebbe dire, delle fonti, quali Strabone, Livio, Trogo ed anche Leandro Alberti, dal quale ultimo riprendeva una rappresentazione delle monete di Metaponto, in quanto la città, essendo molto fertile, veniva rappresentata con spighe o con grani e con la testa di Cerere e, intorno alla moneta, in epigrafe la scritta «Res publica Metapontina». Il mantenimento della presenza sul sito di Matera veniva, ulteriormente dimostrato, per l’età romana, con il ricorso ancora alla numismatica, facendo riferimento al ritrovamento di una moneta vespasianea con un'immagine di un bue con tre spighe di grano in bocca e, sempre per legare la città a Roma, Venusio risaliva alla menzione di Meteola in Plinio il Vecchio, legando con una paretimologia l’etimo della città alla « torre metellana edificata, come dicono da Metello». 

Un ulteriore legame al passato più remoto era quello con Acerenza, certamente recuperato dal Venusio per mostrare come, delle due “contendenti” diocesane, la propria città vantasse diritto di primazia, trovandosi ad essere addirittura l’originaria Acerenza, tanto da dire che anche in diplomi e bolle papali Matera veniva chiamata così, soprattutto dopo l'unione delle chiese di Matera e Acerenza, nel 1086: poiché, infatti, i pontefici nelle bolle si servivano del solo titolo acheruntino, «tutti li fatti di Matera e della sua diocese si son confusi sotto il nome d'Acheruntino, con forme altre volte con diversi nomi è stata chiamata or Metella, or Metera, or Mateola ed or Matera».

Fatta opportuna (ancorché confusa) menzione del racconto di fondazione della città, Venusio passava, come di consueto nella storiografia locale, a descrivere, come altro segno d’onore, la collocazione geografica e la conformazione del territorio di Matera:

vien Matera situata vicino al fiume Carrapro, forse altro non può intendersi che per la gravina, che passa da una parte della città, dove sbocca il graviglione, o gran vallone che sia essendo questo un nome antico ed ositato nel regno, mentre in un privilegio del re Ruggiero fatto al vescovo di Castellaneta dal'un gravina nell'anno 1150 che vien riferito da Ughelio, parlando d'alcuni confini così dice: Et capit Aquam currenten de Graviglione.

Esponeva, poi, un elenco dei domini che «l'hanno signoreggiata», ancora per mostrare la costanza del popolamento cittadino: dagli aborigeni ai Romani, ai Goti, bizantini, Longobardi, saraceni, fino all’Impero spagnolo, onde evidenziare che Matera fosse nel mirino delle diverse dominazioni per la presenza della «Miniera del Bolo Armenio, il Salnitrio naturale e della terra sigillata».

La parte centrale dell'opera, comunque, si configurava come una storia ecclesiastica riguarda tutto ciò che è inerente alla vita ecclesiastica, iniziando con una considerazione di Leone Ostiense e di Baronio: «Materam interim munitissimam illorum urbem capiens igne illam fervente consumpsit. E da ciò si ricava esser stata Matera Città forte ed antica, e perciò decorata della fede vescovale». Legando elementi ecclesiastici e politici, il Venusio insisteva proprio sull’antichità della sede episcopale materana:

Stando dunque la nostra città sott'il dominio de greci nel temporale, asieme con altri luoghi circonvicini, volle anche il patriarca di Costantinopoli usurparsene la giurisdizione nella spirituale secondo dice Liutprando nella sua Relazione riferita dal Baronio […] ed è da notarsi che non dice eligendi episcopatum, ma episcopus conservandi, il che suppone, che in questa città fussero già Catedrali.

A tal proposito, l’autore citava il fatto che, dopo la dominazione bizantina, Matera avesse perso la cattedra vescovile, il che indicava che l’avesse prima, come sede, tra l’altro, metropolitana, insieme a Bari, ma non come Acerenza (della quale pure gli acheruntini vantavano l’antica metropolia), «né potrei cognietturare perchè l'Acerenza doveasi eligere il Vescovado e no Matera, quando quella sin dà tempi di Orazio fu piccola e simile ad un nido, come cantò il medesmo nell'ode 5 al lib. 4».

Si spiega, dunque, la frequenza quasi ossessiva di cronotassi episcopali intrecciate a cronache, introdotte da “formulette” quali «Fiorì in quei tempi» o «prese il possesso» o anche «fu fatto arcivescovo», che introducono spesso la menzione delle onorificenze a personaggi illustri ecclesiastici e non, collegandoli anche ai loro “avi”, come risulta, tra gli altri esempi, nel caso dell'abate del monastero di San Vincenzo Stilario di Matera, che diventò abate nel 1011:

Il quale fu huomo ripieno d'ogni virtù, e di vita si santa, che per li suoi gran meriti operò il Signore molti miracoli, come nella cronica a quello si hà (Cronica di S. Vincenzo Veorila nel tom. I par. 2 dalla raccolta de scrittori d'Italia de Muratori, al di cui lib. V sul principio parla dell'A.te Stilario Cittadino di Matera) Impetrò amplissimi privilegii per lo suo monastero da Sergio 4 Papa, da Arrigo Imperatore, e da altri principi, che d'honor ed'utilitàgrande li furono. Fece habitar i castelli di Sicinoso, di Colle Stefano, et alcuni casali di terra: fè anche a maraviglia dipingere tutta la sua Chiesa, e ne ristorò molt'altre, ornandole di paraponti, ed ogni altra cosa al divino culto necessaria e concedè a certi soldati del contado di Valva figlioli di Ansero le terre di Alfidena, e di Monte negro ordine libezzario secondo l'uso di quei tempi.

O ancora l’arcivescovo Bartolomeo Orsignano, che aveva istituito la festa della Madonna della Bruna a Matera:

Doppo la morte di d(etto) Arciv(escovo) fù creato Arciv(escovo) Bartolomeo Orsignano da Nap(oli) nel 1363 fù gran legista secondo Leodoro Niem e Vice Cancelliero per il Card(inale) di Pamplona<;> ebbe per vicario l'Abb(at)e Bisanzio Marrelli Arcip(re)te di Matera da Greg(orio) XI fu trasferito a Bari a 8 aprile 1377 e doppo un anno eletto sommo pontefice col nome di Urbano VI. Questo Pontef(ic)e per impetrare dal cielo l'unione della chiesa La istituì la festa della Visit(ation)e della B(eata) Vergine, e perciò li nostri maggiori cominciano a celebrare la festa della Bruna titolo della nostra cathedrale in d(ett)a festa della Visitazione come istituito da detto pontefice che era stato prima nostro arcivescovo, quale per fine morì a 15 Genn(aio) 1389.

Notevole è, in questo caso, sempre nel solco apologetico della primazia di Matera su Acerenza, l’insistenza su un episodio distesamente riportato dal Venusio:

sospettando dunque il principe che per opera di Manfredi non si fusse da prendere di nuovo la città procurò che i materesi ed altre tre terre diocesane del suo dominio li avessero negato l'obbedienza, sorrogario egli in suo luogo in un certo fra Madio d'Otranto de minori osservanti sia confessare in sin che avesse ottenuto dal papa un amministratore. Fu prima del principe Manfredi a rappresentare ad Eugenio come Matera che era terra della sua diocese con altre quattro ribellandosi e negando l'obbedienzia s'avevano eletto per solo un tal Madio. Onde Eugenio convinse al vescovo di Tricarico che prendesse di ciò informazione, e la stando avesse costretto Matera con altre quattro terre all'obedienza di Manfredi. Che cosa ne sortì non si sa, quel che avesse fatto il vescovo di Tricarico li acheruntini nemmeno lo sanno come dice la decisione che cosa dunque pretendono li acheruntini da questa Bolla […] perché dunque il papa a[…] di Manfredi disse che Matera era tale, lo costò il vescovo di Tricarico che era terra sig(norile) no perché non la ridusse all'obbedienza di Manfredi perché fra tanto mandò il principe dato e supplicando al papa, e provata la persona di Madio, esser sospetto questo deputò in amministat(ore) di Matera e della sua diocese il vescovo Ladislao con facoltà di sostituir a loro no sospetto al principe, et ivi […] la cosa del sospetto di Manfredi per le guerre.

Come infatti il vescovo per la facoltà concessali sostituì d. Fra Madio e detta sostituzione fu confermata da Eugenio. Manfredi intanto vedendosi deluso con il primo falso esposto ne fe un altro molto diverso del primo come si legge dalla seguente bolla.

Lodato sia pur il cielo che Matera non è più terra della diocese acheront(ina). Come si temeva, anzi che tiene la prep(osta) Diocese, mentre quando alcune le terre ivi enunciate sono della diocese Acher(untina) dunque non sono tutte dunque alcune di queste è della diocese di Matera. […] Toccherebbe alli Acheruntini portare l'esito di quel che si fece dal vescovo di Melfi mentre la parola loro è contro, e si suppone che tutte fossero state eministrate e governate da Madio fintanto che morto Manfredi nel mese di luglio 1444 e costato il sospetto Eugenio rinvocò d(ella) decisione di Madio provvedendo Marino de Pansis da Caivano in arcivescovo dell'una e dell'altra, Acheruntino e materano; […] dal 1439 sino adesso quando è stata fatta Matera eretta in Arcivescovado; dunque se nelle bolle di Marino dice che ambedue le chiese mancavano per Manfredo, è certo che Manfredo era arcivescovo di ambedue le chiese onde Matera no era terra diocesana.

Il che dimostra anche come molto spesso Venusio riportasse le diverse titolature dell’arcidiocesi che ritrovava nelle bolle. In alcuni casi, altresì, il canonico cedeva all’aneddotica, certamente ricavata dalle sue fonti – peraltro esplicitamente dichiarate in questi casi:

Fu di gra' fortezza di corpo in quei tempi Fra Benedetto monastero Benedettino che oltre aver ammazzato con un pugno un altro monaco spezzava con le mani due ferri di cavallo uniti, teneva con un dito della mano […] e a tempo che nel piano della chiesa cathedrale si facevano li giuchi del ferro fugendone uno si scontro con questo allo stretto del portone della Piazza, quale aspettandolo animosamente e, presolo per le corna lo tenne sin tanto che sopragiungendo li giocatori l'ammazzarno, fu anche questo sottil maestro di far orologi suddetto si legge nelle Croniche del Verricelli. […] In tempo di questo arcivescovo morì in Roma nel mese di Febb(raio) 1651 Frà Tommaso Stigliano Cavalier di Malta nostro cittadino Poeta celebre la di cui vita fu descritta da Girolamo Ghilini sul teatro de'gli uomini letterati diede alla luce più libri e fra gli altri le rime in otto libri […] et intorno al rimare hà scritto un opera di preggio e degna di luce il qual or'è frà quei patri che della Poetica, e della Lingua italiana possono parlar come scientiati [...] li suoi versi no abbiano avuto dolcezza tuttavia le sue opere e rime stavano composte con tutta l'arte, né hanno potuto gl'altri emuli eguagliarlo.

In questa carrellata non mancavano i viri illustres, come Francesco D'Acono, Marcio Melvindi, Alessandro Gattini, Marco Malvindi, Giovan Ferrante Ungaro, non a caso provenienti dal patriziato cittadino ed esponenti del ceto togato che a Matera, come detto, emerse prepotentemente nel corso del xvii secolo, quando fiorì, peraltro, la ristrutturazione urbana della città, come evidenziato dallo stesso cronista, in significativo legame, soffermandosi sulla «chiesa nuova cattedrale con il campanile all'uso moderno che finche mentre la g[…] era a modo bulico», o ancora sulla fondazione di nuovi conventi ad esempio quello di Sant’Agostino, o anche sul celebre «conte Tramontano (che) murò la città con li borghi e fece il castello fuori della città in somiglianza di castel nuovo di Napoli tutto a spese de poveri cittadini in tempo che la giornata così d'un uomo che d'un cavallo andavano grava […]se; onde vi furono spesi ducati 25 mila».

Inoltre Venusio raccontava, sempre a scopo apologetico, dei numerosi sinodi della diocesi, fra cui particolare spicco era dato a quello del 1607 nella città stessa, in cui intervennero arcipreti, canonici e vicari di tutte le terre della diocesi e quello del 1627 convocato da Giovanni Antonio De Fiori, inizialmente a Matera e poi spostato ad Acerenza per comodità, finché nel 1628 fu decretata la primazia di Matera per la convocazione dei sinodi.

Successivamente, Venusio esponeva le lunghe vicende della dominazione dei Sanseverino e delle loro vicende, ad esempio mettendo in evidenza il fatto che i Sanseverino avessero ottenuto la giurisdizione feudale di Matera dalla fine del Duecento; quest’insistenza a prima vista strana potrebbe essere stata motivata dallo stesso motivo per cui il Venusio si era soffermato sulla cronotassi “intrecciata”: mostrare gli elementi distintivi che facevano di Matera una città “primaziale” in tutti i sensi, come, del resto, mostrava attraverso l’elencazione di una serie di privilegi concessi a Matera da re e papi, fino ad arrivare agli anni in cui Matera passò dalla dominazione francese a quella spagnola. 

La parte finale dell'opera era caratterizzata da una serie di elenchi, probabilmente redatti in una fase precedente del lavoro e allegati dal Venusio come una sorta di catalogus sul modello di molti altri che venivano allegati alle costituzioni sinodali fin dal xvii secolo: nei fogli 59-60r, dunque, si ritrova il catalogo dei vescovi di Acerenza e Matera, seguito dalla cronotassi dei vescovi di Matera prima dell'unione. Infine, come detto, nei ff. 62-85 l’autore riportava le fonti da cui aveva attinto le informazioni, in ordine cronologico.

giovedì 21 settembre 2023

La cultura meridionale. 2. I Napoleonidi e il classicismo

 La trasformazione dei modi e delle forme dell’uso dell’antico, già seriamente modificata nel corso del 1799, nel Decennio investì linguaggi e pratiche della comunicazione, a livello politico, letterario, artistico, in un complesso, spesso contraddittorio rapporto tra centralismo ‘dirigista’ napoleonico ed attuazioni del linguaggio comunicativo napoleonico, quasi costretto, nella pratica, ad adattarsi non solo al preesistente sostrato politico-culturale, ma anche, e soprattutto, a ripensare se stesso in funzione di una riformulazione modernizzatrice e professionalizzante. Un progetto, dunque, di attivo e sostanziale coinvolgimento di intelligencja e risorse socio-imprendi-toriali nella costruzione del consenso e di classi altamente professionalizzate.

Gioacchino Murat e sua moglie, partiti da un’idea di sovranità fondata essenzialmente, secondo il modello delle corti romane, sulla rappresentazione statuaria, a Napoli adottarono un’iconografia ancora tendente alla riformulazione dell’antico, ma essenzialmente fondata sulla rappresentazione artistica. In quest’alveo, ispirandosi al modello di collezionismo di Giuseppina Beauharnais, Carolina Murat tese a collezionare e commissionare pezzi, come gioielli e gemme, rimontanti ad una simbolica del potere imperiale fondamentalmente incentrata sui simboli più antichi del Regno di Napoli, quali, ad esempio, Partenope o, in campo regale, l’iconografia della Afrodite-Aspasia rimontante essenzialmente alla Venere-Aspasia ispirata alla Afrodite Sosandra di Kalamis (all’epoca ritenuta una raffigurazione di Vesta). In tali raffigurazioni, denotanti il modello della sovrana-madre e moglie saggia, probabilmente in netto contrasto con l’immagine di Maria Carolina qual era stata costruita dalla propaganda antiborbonica (si pensi, in tal senso, agli scritti di Lomonaco e Cuoco di quegli anni), Carolina Murat fu aiutata dall’entourage napoletano.

Naturalmente, queste direttive napoletane, sia pure esercitate in autonomia, rispondevano a quelle napoleoniche. Non è qui il caso di riprendere la vexata quaestio dell’uso dell’antico nella corte di Napoleone, quanto, piuttosto, di capire cosa l’imperatore volesse propugnare con il recupero delle letterature classiche nel suo sistema imperiale.

Napoleone, è noto, aveva letto solo alcuni classici e, tra gli altri, Tacito, del quale non apprezzava il metodo, pur reputandolo un “grande spirito”. Eppure, pur poco noto e poco stimato fino a metà Seicento, Tacito era divenuto, nel secolo dei Lumi, un autore fondamentale. Numero e qualità delle edizioni e traduzioni delle sue opere aumentarono in modo significativo dal 1750 fino all’inizio del xix secolo. Ritenuto una fonte affidabile, Tacito, aveva ispirato ampiamente il pensiero politico, con la sua Germania. Ma, soprattutto attraverso Montesquieu, lo storico latino era divenuto l’auctoritas fondamentale nella denuncia della tirannide. Più che i suoi personaggi, come Tiberio, Nerone o lo stesso Agricola, comunque, fu la figura stessa di Tacito che catturava l’attenzione del xviii secolo: scrivendo sotto la monarchia, scrivendo contro essa, lo storico latino diveniva il vero eroe della sua opera in quanto denunciatore di tutti i tiranni, una sorta di philosophe ante litteram.

Napoleone, tuttavia, considerava Tacito non uno storico tout court quanto, piuttosto, uno scrittore partigiano, che dalla sua partigianeria aveva, per così dire, “creato” dei mostri, quando, secondo il còrso, quegli imperatori erano pur sempre, e tendevano ad essere, «hommes de son peuple». In tal senso, Napoleone avrebbe definito lo storico latino un pamphlétaire. Ciò è spiegabile soprattutto in base alla concezione pragmatica che Napoleone ebbe della storia e, dunque, della storiografia:

Tacite n’a pas assez développé les causes et les ressorts intérieurs des événements; il n'a pas assez étudié le mystère des faits et des pensées. Il n’a pas assez cherché et srruté leur enchaînement pour transmettre à la postérité on jugement juste et impartial. [...] 

 L’Histoire, comme je l’entends, doit savoir saisir les individus et les peuples, tels qu’ils pouvaient se montrer au milieu de leur époque. Il faut tenir compte des circonstances extérieures qui doivent nécessairement exercer une grande influence sur leur action et voir clairement dans quelle limites s’exerçait cette influence. Les empereurs romains n’étaient pas si mauvais que Tacite nous les peint.

Tra l’altro, l’idea stessa di verità storica interessava lo statista corso in modo abbastanza relativo:

La verità, nella storia, difficilmente si conosce. Per fortuna, nella maggior parte dei casi, essa è più degna di curiosità che importante.

La verità storica è solo una parola. È impossibile conoscerla quando le passioni sono accese. In seguito, l’accordo sull’interpretazione di un fatto si raggiunge perché gli interessati, i possibili contraddittori, non esistono più.

La verità storica è una favola convenzionale.

Un atteggiamento pragmatico, dunque, che escludeva del tutto letture erudite, incoraggiamento di studi classici non legati alla praticità, all’azione politica ed all’educazione tecnica. Eppure, tale atteggiamento sarebbe stato travisato, volutamente, dagli scrittori successivi:

Il Dureau de la Malle una volta disse a Napoleone che lavorava su Tacito, e Napoleone gli rispose seccamente: Tant pis. [...] Il giornale dei Débats dichiarava la guerra allo storico odiato dall’imperatore. Nei numeri dell’11 e del 21 febbraio del 1806 comparvero due articoli contro lo storico e contro i filosofi suoi ammiratori. Si faceva loro carico di avere rimesso in onore Tacito.

Del resto, il gusto di Napoleone per l’antichità si li-mitava a Plutarco, che gli aveva messo innanzi, per così dire, il modello di Cesare e di Alessandro, ossia quello di un potere monarchico di fatto, ma personalistico: sicché era naturale come l’imperatore non a-masse uno storico come Tacito, che aveva messo in luce il destino dell’impero come degenerazione del-l’antica repubblica romana. Del resto, lo stesso Napoleone, fin dalla sua prima campagna in Italia, fu paragonato agli eroi plutarchei dell’azione e di ciò si compiacque sempre.

Nonostante la forte avversione a Tacito, comunque, Napoleone stesso aveva dato il suo imprimatur alla pubblicazione della seconda edizione della traduzione di tutto Tacito ad opera di Dureau de la Malle (1793), pubblicata nel 1808. Proprio in virtù di tale traduzione, Dureau era stato nominato componente del Corpo Legislativo nel 1802 e dell’Académie française il 3 ottobre 1804. La ristampa del 1808 si spiega in quanto, nella prefazione, Dureau aveva additato Tacito come esempio del fatto che, nella società romana,

il n’en était pas [...] comme de nos nations modernes, où la société est morcelée en une infinité de classes isolées, qui n’ont rien de commun l’une avec l’autre [...]. Chez nous l’homme de guerre n’entend rien aux lois; l’homme de lois n’entend rien à la guerre. Les lois civiles y sont même séparées de l’administration. La religion a ses ministres, la finance a ses secrets à part. La politique du dehors, les négociations y sont encore confiées à des main différentes; toutes les connaissances son éparses. A Rome, au contraire, le même homme avait été guerrier, avocat, magistrat, juge, financier, pontife; aucun des objects dont traite l’histoire ne lui était étranger.

Il che era ben riferibile a Napoleone stesso, che ambiva a presentarsi come uno statista a tutto tondo e che, nei fatti, avrebbe superato Tacito in quanto egli stesso imperatore. Un modello di governante che recuperava l’antico in senso pragmatico, offrendo un’immagine di sé come statista, pensatore, legislatore, ritornando, di fatto, non tanto e non solo alla concezione imperiale romana quanto, in tralice, a quella del sovrano delle origini, ben esemplificato, ad esempio, da figure come Numa Pompilio. Proprio di questo sovrano Napoleone aveva letto in Plutarco, finendo, probabilmente, con l’imporre un’immagine non dissimile dal sovrano-legislatore. E questo spiegherebbe, altresì, la diffusione, anche a Napoli, nel difficile contesto del 1814, del romanzo pastorale Numa Pompilius, second roi de Rome di Jean Pierre Claris de Florian. Si trattava di una trasparente allegoria del buon re, modellata dal Florian in base al Télémaque di Fénélon e diretta a Luigi xvi: 

Numa naquit au milieu des orages de la révolution: son succès n’en fut pas moins grand, et l’émule de Fénélon eut le double mérite d’attacher qu’une foible importance à cet ouvrage. 

Tuttavia, l’immagine di Numa ben poteva essere recuperata sia da Napoleone che, in effetti, da quel Murat che aveva ambito a ritagliarsi uno spazio sempre più autonomo nel sistema imperiale napoleonico e che stava agendo per sopravvivere ad esso.

La storia imperiale, come detto, recepita in età napoleonica come esempio amministrativo e, in tale alveo, Tacito visto non tanto come storico, quanto come personaggio della sua stessa storia, attore prima che scrittore e, dunque, esempio di cultura politica da tramandare, al di là delle manchevolezze rilevate da Napoleone stesso nel suo metodo. Sicché non stupisce, anche a Napoli, l’ampio successo dell’Agricola, riguardante un onesto servitore della monarchia, interpretato da Tacito - e dagli scrittori napoleonici - come vittima della tirannide. 

giovedì 7 settembre 2023

La cultura meridionale. 1. Il secondo Settecento tra antichi e moderni

Necessità di semplicità, di esemplarità, di una formazione, per così dire, scientifico-morale, in senso pedagogico: queste furono le cifre della nuova declinazione dell’antico in età napoleonica, che passarono anche attraverso una nuova e più accurata pratica della traduzione dei classici greci e latini. Infatti, quello che potrebbe essere definito “rinascimento napoleonico” si differenziò notevolmente, per metodo e scopi, dall’antiquaria napoletana del tardo xviii secolo, pur presupponendola ampiamente, nell’alveo, anche in campo culturale, di una continuità generazionale.

Il secondo Settecento meridionale, infatti, fu segnato anche dalle scoperte di Pompei, Ercolano, Stabia e Pozzuoli, che inserirono Napoli nell’itinerario del Grand Tour, spronando i viaggiatori ad andare oltre la capitale ed avventurarsi nelle province più interne del Regno di Napoli alla ricerca di prove tangibili della grecità. Se, tuttavia, l’antiquaria risorgeva a nuova vita, restava imprescindibile l’attenzione alle condizioni materiali delle province, sottolineata dalla scuola genovesiana, che aveva iniziato a teorizzare la necessità di una conoscenza delle scienze economiche per giovare allo sviluppo della nazione. Sviluppando l’opposizione tra «erudizione» ed «antiquaria», già presente nell’opera di Pietro Giannone, i riformatori della cerchia di Genovesi puntarono, dunque, sulla necessità di esaminare, più che la storia politica, commercio ed agricoltura, creando, come in Francia, una netta opposizione tra un’erudizione di seconda mano, che appagava la semplice curiosità e scienze utili per scoprire le cause del progresso economico. 

Certo, gli antiquari napoletani erano anche dei politici, nel senso che la loro erudizione non era sempre fine a se stessa, ma collocata al servizio del programma sviluppato dal Giannone, soprattutto dagli anni Trenta del Settecento, per estendere la supremazia del sovrano nelle questioni ecclesiastiche e giudiziarie (regalismo e giurisdizianalismo). Così, le monete, le medaglie e le iscrizioni, come pure i diplomi e la scrupolosa ricerca d’archivio, diventavano strumenti fondamentali per ricostruzioni storiche che intendessero confermare l’autonomia del Regno rispetto alla Chiesa e limitare la proprietà e la giurisdizione dei vescovi, dei monasteri e dei santuari. Tale causa produsse non solo, come noto, opere di giuristi e uomini di lettere come Saverio Mattei, Giovanni Andrea Serrao e Ciro Saverio Minervino, ma anche opere storiche di rilievo come l’Istoria del Regno di Napoli di Alessio De Sariis.

Un trait d’union rilevabile tra quel tipo di antiquaria proteso al riconoscimento delle antiche radici italiche e la nuova scienza dell’antico ripresa soprattutto nel Decennio è riscontrabile proprio in queste comuni matrici di cultura politica. Usare l’antico, più che commentarlo: servirsi degli antichi scrittori per ritrovare nel passato le radici di un progetto di cultura ed azione volto a rinnovare, finalmente, il Mezzogiorno d’Italia ma, come in campo amministrativo, partendo dagli anelli di base, le province del Regno, con il loro tesoro di cultura.

Uso analogico dell’antico, questo, ripreso, come noto, nel corso del 1799, quando la propaganda, infatti, avrebbe di fatto trasformato gli antichi eroi, soprattutto greci, in esempi civici, la cui grandezza derivava dall’essersi messi al servizio di una causa pro patria: così, per fare uno degli esempi più noti, il generale Championnet, che seppe ritirarsi per non prevaricare la causa che serviva, poteva essere accostato al modello classico del Timoleonte di Plutarco, che si ritirò non appena liberata Siracusa dalla tirannide. Le figure eroiche venivano, in tal modo, recuperate nella loro umanità, con le loro debolezze, in modo tale che ogni patriota potesse identificarsi con esse. 

I topoi più usati nella pubblicistica furono proprio quei politici che avevano anteposto la patria ad ogni interesse personale (in ciò contribuendo ad “eroicizzare” gli stessi “patrioti” come, ad esempio, Domenico Cirillo o Francesco Mario Pagano, in tal senso presentati al lungo Ottocento come esempi di eroi dell’agire comunitario e, come tali, consacrati nella pubblicistica risorgimentale, specie di matrice napoletana), come, appunto Timoleonte e il romano Bruto, in una sorta di simmetria tra mondo classico latino e mondo classico greco. Marco Giunio Bruto, consacrato in Italia dal Bruto secondo di Vittorio Alfieri, pubblicato nel 1789 e, ancor prima, da La mort de César di Voltaire, pur essendo universalmente noto come uno degli organizzatori della congiura contro Cesare, “reo” di non rinunciare al proprio potere assoluto a favore della libertà repubblicana, era diventato esempio illustre di patriottismo. Si usava l’appellativo di “secondo” per distinguerlo da Lucio Giunio Bruto, il quale sollevò il popolo contro Tarquinio il Superbo e assistette all’esecuzione dei suoi due figli, colpevoli di tramare contro Roma a beneficio dei Tarquini: a Bruto “primo” Alfieri aveva dedicato un’altra tragedia, intitolata appunto Bruto primo, scritta nel 1784. Nella pubblicistica Bruto “secondo” era il simbolo dell’eroe di stampo massonico, che per servire la causa repubblicana non aveva esitato a sacrificare l’affetto più caro, in dichiarata simmetria con Timoleonte, che aveva assassinato il fratello tiranno di Corinto. Tra l’altro, oltre all’esempio alfieriano, sugli scrittori repubblicani agiva forte anche il ricordo delle tragedie francesi, come detto nel caso di Bruto, anche se il sacrificio dell’affetto paterno, molto più dichiaratamente politico in Alfieri, in Voltaire era presentato in modo anche più ambiguo. Per Timoleonte, il successo dell’exemplum in chiave politica fu sicuramente dovuto al fatto che il motivo del fratricidio era un esempio fortemente politicizzabile di conflitto tra i legami familiari e la tensione verso la libertà, decisamente espresso, oltre che dall’Alfieri, da Marie Joseph Chénier in una tragedia la cui rappresentazione fu proibita da Robespierre poiché si esaltava il ritiro dell’eroe dalla politica dopo la liberazione della patria. Un esempio è nel periodico napoletano del 1799 «Corriere di Napoli e Sicilia», in cui un posto di primo piano era affidato ad una figura così gloriosa del libertarismo siciliano, che, tuttavia, a differenza di tanta altra pubblicistica del periodo, qui compariva, piuttosto che in relazione all’eliminazione di suo fratello Timofane, aspirante tiranno a Corinto, come tirannicida e liberatore di Siracusa dalla tirannide di Dionigi II. Questo perché in Plutarco, specie nei primi capitoli della biografia timoleontea, l’editorialista trovava i temi più consoni alla sua propaganda del progetto di liberazione della Sicilia dalla tirannide borbonica: la desolazione e l’imbarbarimento dell’isola sotto i tiranni e il baluardo di libertà rappresentato dagli “stranieri” accorsi in aiuto dei siciliani. Le parole di Plutarco ben si accordavano a descrivere lo stato dei siciliani sotto Ferdinando, aiutato dagli inglesi:


per il resto della Sicilia, una parte di essa era rovinata e già completamente priva di abitanti a causa delle guerre, e la maggior parte delle città erano occupate da barbari di razze miste e soldati disoccupati, che acconsentivano prontamente ai successivi cambiamenti nel potere dispotico. […] conseguenza, quelli dei Siracusani che rimasero nella città erano schiavi di un tiranno che in ogni momento era irragionevole, e il cui spirito in quel momento era reso completamente selvaggio dalle disgrazie.


Non casualmente, Ferdinando IV, in più punti del periodico, viene apostrofato come «novello Dionisio», quindi con una forte spinta analogica verso l’immagine di un tiranno selvaggio e disperato, aiutato da uno straniero che voleva impadronirsi delle sue ricchezze: sicché si spiega anche l’analogia tra Inglesi e Cartaginesi presente nel giornale. Entrambi, dunque, immagini di slealtà e di collaboratori del tiranno contro l’eroe liberatore.

Come visto, dunque, uno degli autori cardine di questa trasformazione nell’uso dell’antico fu Plutarco e, del resto, la biografia plutarchea, anche in Italia, era stata una delle forme principalmente adottate nella stesura di molte storie locali, sfruttata e conosciuta già negli storici ‘definitivi’, come del resto già aveva evidenziato Croce, notando come una sorta di genere misto tra storia e biografia attraversasse trasversalmente le opere di storia ‘nazionale’.

Delle forme biografiche note alla cultura rinascimentale, quella più nota e seguita fu, tuttavia, la biografia classificatoria del tipo de viris illustribus, mutuata da Svetonio e Girolamo e già ampiamente utilizzata, in direzione elogiativa, dal Platina e dal Panvinio. Tale tipologia, che andava a continuare, sovrapponendovisi, le forme cronachistiche ancora in uso in pieno xvi secolo, permetteva allo storico di integrare le informazioni cronologico-topografiche con l’esemplarità ed il gusto dell’aneddoto morale, ed al tempo stesso volto, tramite i memorabilia, a definire taluni aspetti delle virtù ‘civiche’ della comunità. In tal modo, l’imitazione del dettato della storiografia tradizionale, di tipo cronologico-istituzionale, si ampliava, spesso, all’inserimento, nella delineazione del bios cittadino, di letterati, artisti ed eruditi come esempi cittadini. 

D’altro canto, utilizzare la forma biografica come struttura narrativa dispensava gli autori dal dover esprimere chiaramente una propria opinione politica, presentando la storia cittadina come una serie di quadri staccati: probabilmente sui seguaci della biografia agì fortemente anche il modello delle notissime biografie papali del poligrafo ed erudito agostiniano Onofrio Panvinio. In effetti, la necessità imposta dalla forma biografica di partire dalla nascita di un personaggio illustre dispensava dal dover chiaramente esprimere una tesi sul progressivo cambiamento della natura del rapporto tra città e potere centrale che verificava ai propri tempi.

La biografia di singoli fu poi adottata, come genere prettamente rinascimentale, non collegata ad altre biografie ‘categoriali’, soprattutto grazie alla riscoperta di modelli antichi come Nepote e Plutarco. Il primo, con la sua divisione degli uomini illustri in categorie, poteva essere ancora un legame con l’ormai classico schema dei viri illustres ma, non offrendo alcuna esplicita comparazione tra i personaggi, divenne una sorta di modello espositivo della nuova fioritura biografica, offrendo lo schema di una narrazione strutturata per mitologemi molto più articolati di quelli classificatori di origine svetoniana.

Prova della diffusione dell’opera di Plutarco è la fioritura di edizioni italiane tra XVI e XVIII secolo.

Potenza. 7. Acque pubbliche e rete fognaria a Potenza (Sabrina Cieri-Margherita Scavone)

Sabrina Cieri e Margherita Scavone sono due studentesse potentine del Liceo delle Scienze Umane "Rosa-Gianturco" di cui siamo liet...