Protagonisti incontrastati dei vari punti di rivolta rimasero di fatto, quasi ovunque, locali capipopolo, non sempre, peraltro, in raccordo, nella stessa seconda fase, con il Governatore Generale delle armi in Basilicata, il dottore in “utroque jure” Matteo Cristiano, di ricca famiglia gentilizia di Castelgrande, che – com’è noto - fu tra i protagonisti di prima fila – su diretta investitura del duca di Guisa – dell’iniziativa e dell’azione sul territorio, in Basilicata e nelle province contermini, lungo la parabola della “Real Repubblica Napoletana”.
Già da metà luglio del ’47, e dunque in sostanziale sintonia temporale con gli avvenimenti nella Capitale, in varie realtà locali della Basilicata si susseguirono tumulti e sollevazioni popolari via via snodatisi, nel loro insieme, secondo moduli ricorrenti in provincia, dalle insurrezioni spontanee contro i feudatari alle occupazioni di terre da parte dei contadini, a veri e propri saccheggi e razzie promosse e compiute dai capipopolo. Così, ad esempio, a Miglionico, dove larga parte della popolazione rifiutò di pagare le tasse, assediando il feudatario, principe della Salandra, tenuto prigioniero in un monastero per costringerlo a rinunziare all’esazione dei fiscali. D’altra parte a Montescaglioso si susseguirono tumulti contro gli agenti della locale famiglia feudale, mentre nella stessa città regia di Lagonegro, tra i pochi centri che non videro direttamente coinvolti i locali amministratori, rimasero trascinati nella protesta popolare esponenti del locale clero ricettizio. Nel mese di agosto si aggiunsero sollevazioni a Grottole ed a Marsico, la cui popolazione diede l’assalto al locale palazzo del principe Pignatelli, catturando 14 uomini ai quali fu tagliato il capo sulla pubblica piazza, minando, nel contempo, con un barile di polvere il palazzo baronale, né risparmiando le case degli appaltatori di gabelle. D’altra parte, se a Latronico, incendiato il palazzo baronale, furono uccisi a colpi di scure il conte Revischiaro e il fratello, nella vicina Carbone, tra i pochi centri - come si è detto- a feudalità ecclesiastica, fu tagliata la testa ad un monaco del locale monastero basiliano. Nel contempo, a Bernalda furono occupate terre della Certosa di Padula e nella vicina Matera, ancora in Terra d’Otranto, la sollevazione popolare costò la vita ad un esattore delle imposte, mentre il regio consigliere Luigi Gamboa fu costretto a riparare a Ferrandina e la civica amministrazione a sopprimere le gabelle. Di più peculiare rilevanza fu, nel contempo, la rivolta promossa a Vaglio, presto capeggiata dal conte Francesco Salazar che, scarcerato a Napoli, si unì presto a Matteo Cristiano, con l’obiettivo di trasformare le rivolte locali in movimento rivoluzionario più generale. Così, mentre le loro truppe si spingevano verso il confine pugliese, ulteriormente allarmando i baroni che da Minervino, il 21 novembre, annunciavano al viceré che in Basilicata c’era ormai un “gran numero di popolazione sollevata”, le bande guidate da Vincenzo Pastena, fratello di Ippolito, assediavano, il 6 dicembre, Melfi e il Griffo, ufficiale dell’armata di Matteo Cristiano, giungevano a Montalbano, sul versante jonico. Si aggiungeva la sollevazione della popolazione di Tricarico, ad iniziativa del capopopolo Vincenzo Vinciguerra, e il saccheggio di Pisticci. Cosicché, in un crescendo di realtà locali via via conquistate alla causa dell’affrancamento dal potere feudale, a fine gennaio del 1648 Matteo Cristiano raggiungeva direttamente Matera, dove fu festosamente accolto.
Da tale postazione strategica, rispetto a Terra d’Otranto e Terra di Bari, nonché forte del controllo militare dei centri abitati più rilevanti della provincia di Basilicata, ormai quasi fulcro del sistema offensivo della Real Repubblica, Matteo Cristiano e Francesco Salazar furono nella condizione di puntare su Altamura, da dove il primo si sarebbe poi mosso in direzione dell’importante piazza navale di Taranto e il secondo di Gravina, anche per l’affiorare delle prime discordie fra i due, presto trasformatesi in rottura, con conseguenti riflessi sugli esiti stessi del loro più generale piano strategico.
In effetti ancora una volta in significativo parallelismo con il conflitto di poteri che si andava manifestando nella capitale, anche in aree provinciali di decisiva importanza strategica come quelle battute dal Cristiano, un intreccio di rivalità e conflittualità spesso alimentate anche da un oscuro sottobosco di piccole e grandi ambizioni personali, concorse non poco a complicare notevolmente la stessa gestione militare delle faticose conquiste della Real Repubblica. Il che, in aggiunta alla persistente, generale, fragilità delle forme e dei modi di coordinamento politico e amministrativo fra centro e periferia, nonché al mancato raccordo tra cosiddetta “guerra contadina” e movimento localmente promosso dagli stessi amministratori delle Università, meglio concorre a far leggere i tempi e la varietà dell’articolato processo di “derepubblicanizzazione” in provincia, oltre che la crisi stessa della breve esperienza repubblicana napoletana ben prima dell’ingresso trionfale degli Spagnoli a Napoli, il 6 aprile del 1648.
Comunque, nella storia della Basilicata la rivolta del 1647-48, che in vari casi vide anche sindaci ed amministratori locali guidare i contadini nei pur episodici sommovimenti contro i privilegi feudali, segna il punto più alto della lotta antifeudale combattuta con le armi, evidenziando, per la portata delle popolazioni coinvolte e per gli obiettivi a base del movimento, una svolta negli obiettivi politici delle forze in lotta, pur solo in parte riconosciutesi nell’anello istituzionale di base, le amministrazioni locali appunto.
Se rispetto alle attese contingenti e di base i risultati non furono quelli sperati, non c’è dubbio che proprio la rivolta del ’47-48 concorse in modo rilevante ad accelerare la scelta di dare alla provincia di Basilicata un’Udienza stabile sul proprio territorio, individuando, di lì a pochi anni, nella città regia di Matera, ancora in Terra d’Otranto, la sede più adeguata per tale fondamentale istituzione dopo un ventennio di peregrinazioni (da Stigliano a Tolve, a Potenza, a Vignola, a Montepeloso) a causa dell’opposizione dei vari feudatari locali, che fermamente respingevano la presenza di un potere statale forte nell’ambito dei territori ove esercitavano la propria giurisdizione.
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