Nel Decennio napoleonico, invece, si diffusero periodici d’importazione, diremmo, riportanti notizie interne ed estere pubblicate su vari giornali francesi e tradotte dal francese all’italiano, come il Corriere di Napoli (16 agosto 1806 – 30 gennaio 1811, Napoli), che poi si fonde con il Monitore napoletano e continua con il Monitore delle Due Sicilie; il Giornale delle Due Sicilie (23 maggio 1815 – 9 dicembre 1816, Napoli), che è la continuazione del Monitore delle Due Sicilie e poi del Giornale del Regno delle Due Sicilie; Lo Spirito dei giornali politici (6 gennaio 1821 - 17 marzo 1821, Napoli); infine il Giornale degli amici della patria (1820, Napoli). Testate molto importanti furono anche altri giornali, stampati a Napoli, che riportavano notizie interne ed estere, scritte interamente in lingua francese: L’Echo. Journal Politique, Commercial et Litteraire (1820, Naples); Journal de l’Empire ( 2 dicembre 1806 – 24 luglio 1807, Naples), che poi cambia il titolo in Journal Français (1807 – 31 dicembre 1813, Naples).
La stampa periodica napoletana, nel periodo compreso fra il 1820 e il 1821, impresse, invece, una visibile traccia negli intellettuali dell’epoca, nell’arco di un determinato momento storico, quale quello della Rivoluzione costituzionale, in cui le divergenze di carattere politico e letterario divennero sempre più diverse e marcate. In particolare, i giornali del 1820 -come accadde già nel 1799, anche se in circostanze diverse, in cui forte fu il sentimento dell’esperienza della Repubblica napoletana - hanno avuto il fine specifico di trasmettere e formare, negli animi dei lettori, una nuova coscienza politica nazionale: la Costituzione spinge l’uomo al bisogno necessario di sentirsi parte della Patria, all’interno di un più grande e compatto equilibrio europeo. I giornali furono, soprattutto, uno strumento di “ponte diretto” fra le ideologie maturate a Napoli e quelle affermatesi in nazioni straniere.
Una tale determinatezza rivoluzionaria è emersa proprio nelle principali personalità, che sono stati i protagonisti delle vicende della Rivoluzione costituzionale del 1820. Ad esempio, Lorenzo De Concilj, deciso e fermo, scrivendo che «nella metà di giugno, che più non rimaneva tempo alla lentezza, incominciò la esecuzione del suo ardito progetto», come anche gli «eccellenti ufficiali» e «tra essi distinguevasi il giovane Morelli, calabrese di ardente spirito e di straordinario coraggio, al quale si diresse Luciani per indurlo ad agire e lo consigliò a profittare della risolutezza che dalla parte di Avellino manifestava de Concilj».
A Michele Morelli premeva che si giungesse presto alla rivoluzione. A differenza di quanto scriveva Pietro Calà Ulloa su Morelli, definendolo «meno ardito e più scaltro» rispetto a Silvati, «noto per coraggio, non per acutezza», Morelli, invece, era fin troppo astuto nel pensare che, considerate anche le condizioni davvero complicate, bisognasse agire in poco tempo. Questo particolare profilo caratteriale di Morelli è, infatti, attestato da un interessante articolo pubblicato il 15 agosto 1820 sul Giornale politico-letterario La Voce del Popolo, in cui l’autore scrive, riferendosi a Morelli, che «il suo carattere fu pacifico e freddo, benché tenace e irritabile» anche se, egli aggiunge, «tutto interessa sul conto del nostro liberatore».
Davvero interessante è, poi, la condizione di disagio collettivo, da un punto di vista politico e istituzionale (e qui iniziamo ad entrare nel vivo dell’analisi di questo lavoro scientifico), evidente in quanto scritto nel primo numero dell’agosto 1820 del giornale Voce del popolo, in cui, nella prima sezione, viene aperto un acceso dibattito, che - già dal titolo Che cosa è la libertà costituzionale? - manifesta chiaramente quello che l’autore stesso definisce «il bisogno di libertà». La particolare importanza di questo articolo risiede nel fatto che la discussione in esso riportata riprende un saggio, tradotto dal francese in italiano, pubblicato su La Minerve française, in cui Étienne Agnan riporta le opinioni di Benjamin Constant sulla libertà costituzionale e sul progresso della società dei popoli europei:
«Da che dipende che moltissimi uomini [...] faccian professione di odiarsi, pel solo motivo che differiscono per opinioni politiche; avegnachè questo non conosce altra via di salvezza, che nel governo costituzionale, mentre chè nella mente dell’altro l’autorità assoluta vien dipinta come il solo rimedio a’ disordini pubblici?».
Infine, si citano alcuni periodici di grande rilevanza di tipo storico-politico. Tra questi: La Minerva Napoletana (8 agosto 1820 – 10 marzo 1821, Napoli), giornale ripreso e tradotto dal periodico francese La Minerve française; Voce del Popolo (1820, Napoli), che traduce testi pubblicati su La Minerve française e, poi, L’Amico della Costituzione (17 luglio 1820 - l7 marzo 1821, Napoli). Peraltro, nel corso della rivoluzione del 1820-21 in Basilicata fu edito un notevolissimo periodico, il «Giornale Patriottico della Lucania Orientale», che, pubblicato a Potenza a partire dal 10 luglio 1820 con cadenza decadale, esaurì la sua funzione informativa rapidamente all’indomani della concessione della libertà di stampa, voluta dal Parlamento napoletano il 26 luglio. Esso può considerarsi, dunque, data la breve esistenza e la mancanza di seguito, dopo l’entusiasmo rivoluzionario, alla stregua di una prova di giornalismo politico.
E in effetti, dopo i moti costituzionali del 20-21, fu solo dal 1830 che il nuovo sovrano Ferdinando II permise la pubblicazione, accanto ai fogli ufficiali, di testate indipendenti come, nella nostra provincia, il «Giornale Economico Letterario della Basilicata», un periodico trimestrale, che, pubblicato per la prima volta nel 1838, nell’ex tipografia dell’Intendenza, pubblicava non solo articoli tecnici, ma si occupava anche di argomenti letterari e culturali.
Solo negli anni Quaranta apparvero i primi giornali politici, anche perché agli albori del 1848, comunque, due correnti di pensiero si fronteggiavano nel Regno delle Due Sicilie. La prima, che si identifica nel progetto riformatore di Aurelio Saliceti, indicato dallo storico borbonico Pietro Calà Ulloa come il capo indiscusso del movimento radicale nella città di Napoli, si caratterizzava per un’attitudine repubblicana-moderata. Il suo programma puntava a liberalizzare la società e le istituzioni attraverso un nuovo contratto sociale che fondasse, in termini leciti e senza capovolgimenti rivoluzionari, le strutture della democrazia politica. Questa cultura di governo, inoltre, divideva gli obiettivi politici da quelli sociali. Saliceti diffuse le sue idee principalmente attraverso la rivista «Le Charivari».
La seconda tendenza faceva perno, invece, sulle necessità degli strati sofferenti della società di eliminare le disuguaglianze e le distanze sociali nonché di accedere in maniera più equa e giusta a migliori condizioni di vita. Suoi nemici dichiarati erano la corruzione e gli interessi non sempre leciti delle nuove classi agrarie ed affaristiche.
Infine, quest’ultima linea di pensiero, se condivideva con la visione “moderata” di sinistra l’esigenza di un nuovo contratto sociale favorevole alla partecipazione del popolo al potere, non ne approva il carattere elitario di base né l’accentuato laicismo, condizionato com’era, dalle correnti del cattolicesimo liberale del tempo.
Tale alveo radicale era presente in special modo nelle aree più deboli delle Due Sicilie. Esso rivestì un ruolo primario nell’ambito dei governi provinciali e più che ad amministratori della capitale del Regno fece capo ad importanti leader politici locali tra i quali i lucani Ferdinando Petruccelli della Gattina ed Emilio Maffei, il salernitano Costabile Carducci, il calabrese Benedetto Musolino, i pugliesi Francesco Raffaele Curzio e Francesco Cirielli.
Dalle colonne del giornale è possibile ricavare il sistema di pensiero di Petruccelli in materia di governo. In termini analoghi ad altri radicali la concezione politica dell’intellettuale lucano si collegava in modo preminente ai principi illuministici che avevano finalmente determinato il crollo irreversibile della vecchia Europa, «mondo di ineguaglianze sociale, di privilegi». Così, per il Nostro, l’insegnamento più importante lasciato dall’esperienza rivoluzionaria francese era l’affermazione dei diritti civili e l’uguaglianza di fronte alla legge. Minore simpatia veniva invece ravvisata nei confronti del successivo dominio bonapartista, del quale stigmatizzava in particolare modo la centralizzazione amministrativa, elemento, secondo lui, di soppressione di libertà individuali e autonomie locali.
Il senso più profondo del cambiamento ed il problema della democrazia ottocentesca dovevano consistere, per Petruccelli, nel limitare il potere politico e nell’eliminare i legami che ancora frenavano l’autonomia dell’individuo, nonché nell’allargamento delle libertà al popolo sino al conseguimento del traguardo ultimo, cioè la partecipazione della comunità alla politica della nazione. Per raggiungere questi obiettivi, soprattutto attraverso il suo giornale, Petruccelli iniziò una vera e propria battaglia che non si limitava alla denuncia delle questioni cruciali del rinnovamento del potere politico, ma tendeva a confrontarsi concretamente con i problemi della corruzione, delle disfunzioni e dell’inefficienza dello Stato.
Ma il problema sul quale si versarono fiumi di inchiostro era quello legato alla Costituzione ed alle modalità della sua elargizione. In particolare, in Mondo Vecchio e Mondo Nuovo veniva ribadita come inaccettabile la costituzione censitaria concessa per ‘volere sovrano’ il 12 gennaio e veniva confermata l’opportunità di ricostituire il nuovo stato sulle basi del consenso cittadino.
Partendo, cioè, dalla convocazione dell’Assemblea costituente del Parlamento, atto politico preposto a rifondare le strutture della politica sulla base dell’adesione dei cittadini, si rivendicava a gran voce la necessità di attribuire al popolo il compito di riplasmare via via tutte le istituzioni. Solo in questo modo si sarebbe provveduto alla formazione del ‘vero’ cittadino quale parte attiva del Paese
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