lunedì 14 luglio 2014

Scrittori di Magna Grecia. 6. Archestrato

Di Archestrato sappiamo pochissimo, e tutto derivante da Ateneo, che nei suoi Deipnosofisti attinge, a piene mani, proprio da quest’autore che non conosciamo se non dalla sua opera. Archestrato era di Gela, cosa evidente dal fatto che mostra di conoscere bene la geografia dell’isola e le abitudini gastronomiche dei greci di Sicilia: in SH 176, 12-13 proprio il poeta siceliota mostra di disprezzare la cucina della sua patria, dicendo

Giacchè costoro preparar non sanno
I buoni pesci, e guastan le vivande
Ogni cosa di cacio essi imbrattando,
O di liquido aceto, e di salato
Silfio spargendo....

Questo parodo fu probabilmente contemporaneo di Aristotele, visto che nei suoi frammenti vengono enunciate alcune idee di sapore aristotelico, risalenti al 335 a.C. Quindi dovrebbe essere vissuto in ambito sicuramente siciliano nel periodo, probabilmente, dell’espansione macedone. Di più le fonti non dicono.
Ateneo ci tramanda, di Archestrato, frammenti di un poemetto che riporta sotto vari titoli, tutti antichi: secondo lo stoico Crisippo si intitolava Gastronomia, secondo Callimaco Hedypatheia ossia, letteralmente, Poema del buongustaio, che è oggi il titolo più diffuso tra gli studiosi. 
Il poemetto appare come una parodia dei poemi didascalici di sapore esiodeo molto diffusi in ambito filosofico. Del poema ci restano circa 300 versi, con in più un frammento di 11 versi dagli Hedyphagetica di Ennio: si tratta di versi in cui l’ironia è continuamente dosata con la descrizione di piatti e di mercati ittici, in una sorta di Odissea dei buongustai in cui predomina l’aspetto disimpegnato e di evasione tipico di certa commedia attica. 
Archestrato, a tal proposito, prende le mosse dalla storiografia, con i suoi incipit pragmatici, presentando una esposizione delle ricerche (SH 132) che rovescia parodicamente il proemio di Erodoto, così come la metafora del viaggio, che non è inconsueta nei poeti parodici che trattano di gastronomia: d'altra parte gli Hedypatheia sono tutti un viaggio alla ricerca di prelibatezze, così come quello di Erodoto era un viaggio alla ricerca della verità. Sembrerebbe esserci anche una parodia di Parmenide e del suo viaggio simbolico presso la Verità.
Ateneo è prodigo di elogi per il parodo, definendolo persino polyhistor, cioè di grande cultura (325d): in effetti, i frammenti del poemetto appaiono ben costruiti secondo un rovesciamento del tono ispirato dei poeti didascalici, per cui, dopo un proemio pragmatico con la consueta asserzione di dire il vero e di voler propagare la verità, segue una costruzione espositiva secondo la disposizione delle portate di un pranzo tipico del IV secolo. 
Archestrato, infatti, oltre ad enumerare le specialità dei vari porti del Mediterraneo, segue poi – secondo quanto già rileva Ateneo (278b) – lo schema degli antichi peripli, enumerando pesci e ricette ittiche secondo la navigazione in senso orario. Infine, segue un’enumerazione delle carni, l’elogio dei vini più adatti al banchetto ed al seguente simposio, con l’indicazione del numero dei convitati, dei profumi da usare e persino dei dessert da offrire agli ospiti, il tutto con signorile “sprezzatura”. Gli ultimi versi di questi precetti, diretti, secondo il modello esiodeo, a due “discepoli”, Mosco e Cleeno, dovevano essere quelli di SH 192, con la tipica maledizione contro chi non segue i consigli sapienti del poeta.
Proprio la moderazione nella cucina e l’ostentato disinteresse per i piatti di “alta cucina”, nonché per i banchetti pantagruelici così diffusi in Grecia dopo i contatti con il mondo macedone e persiano, fecero ben presto dell’opera del poeta gelese uno spunto dei filosofi, non solo epicurei, per la critica al lusso. Ateneo ci dimostra quest’attenzione della filosofia ellenistica per questo poemetto riportando un’osservazione dello stoico Crisippo:

E così, amici miei, quando si tengono in conto questi fatti, si dovrebbe a ragione approvare l'atteggiamento del nobile Crisippo, per il suo acuto esame del  Sulla Natura di Epicuro, ed il suo evidenziare che il cuore della filosofia epicurea è la Gastronomia di Archestrato, nobile poeta epico che a tutti i filosofi diede familiare nutrimento, che rivendica come Teognide il merito suo (104b).
Crisippo, a tutti gli effetti un vero filosofo, dice che Archestrato fu il precursore di Epicuro e di coloro che adottarono le sue dottrine sul piacere, causa di ogni corruzione (278f).

Archestrato, quindi,  insegna a cucinare e disporre le portate in un vero poema didascalico-gastronomico, introdotto da una (seppur parodica) dichiarazione programmatica. Si tratta, dunque, di fornire “belle esortazioni secondo il modello del poeta ascreo” (secondo quanto osserva Ath. III 101f), quindi di fare poesia didascalica, seppur divertendo. 
Questo modello, seppur considerato di second’ordine, come la parodia, sarebbe poi stato massicciamente recepito nella poesia latina, specie nello pseudo-Virgilio del Moretum, nella satira II 6 di Orazio, che di Archestrato ricalca toni ed espressioni: l'immediato precursore della satira gastronomica oraziana sarà dunque da individuare in questo raffinato epicureo di Gela, messo in rapporto da Ennio o direttamente conosciuto da Orazio, data la grande cultura letteraria del venosino.
Di seguito, i frammenti nella traduzione di Domenico Scinà del 1823:

Quanto conobbi in viaggiar mostrando
A Grecia tutta, ove miglior si trova
ogni cibo dirò ogni liquore.
Di vivande squisite unica mensa
Accolga tutti, ma di tre o di quattro
O di cinque non più sia la brigata:
Perchè se fosser più cena sarebbe
Di mercenari predator soldati.
Dirotti in prima, o caro Mosco, i doni
Di Cerere, la Dea di bella chioma;
Tu nella mente i detti miei conserva.
Il pan, che fassi senza alcun mescuglio,
Tutto d’orzo fecondo, il più prestante
E tra gli altri il miglior prender si puote
In Lesbo là sul colle da’ marini
Flutti bagnato, ove è l’inclita Erisso,
Pane sì bianco, che l’eterea neve
Vince in candor. Che se i celesti Numi
D’orzo mangiano il pan, Mercurio al certo
In Erisso sen va loro a comprarlo.
In Tebe è ver da sette porte, e in Taso,
Ed in altre cittadi ancora è buono,
Ma a quel d’Erisso in paragon pattume
Ti sembrerà. Chiaro oltre a ciò ritieni
Quel che ti aggiungo. Il collice procura
Pan di Tessaglia, che crimazia appella
Questi, e quegli altri suol chiamar condrino;
Pane che a turbo si conforma in giro,
Ed affinato è dalla man, che intride:
L’arcade encrifia ancor degno è di lode,
Nato dal fior della farina: in piazza
L’illustre Atene poi venal prepara
Pane eccellente: ma diletto a cena
Ti darà quel, che dal teglion si cava
Bianco, vistoso, di color splendente
Nell’Eritrea città ferace d’uva.
Lidio o fenicio poi t’abbii il fornajo
In casa, il quale il tuo piacer conosca;
E vada a tuo volere ogni maniera
Di pane in ciascun giorno lavorando.
Eno di mie, che sono grosse, è ricca,
D’ostriche Abido, Pario di granchi,
Mitilene di pettini, e a più conche
Giunge Ambracia il cinghial, Messina abbonda,
Là sullo stretto angusto ove ella è posta,
Di conchiglie peloridi, daratti
Efeso came, che non son cattive,
Tetee Calcedonia; le trombe,
Tanto quelle del mar, quanto del foro,
Ed anche i trombettier stritoli Giove,
Tranne il mio amico abitator di Lesbo
Ricca di viti, che Agaton si appella.
Ma lasciando le ciance, abbiti cura
L’astaco di comprar, quel che ha le mani
Lunghe, ed insiem pesanti, i piè piccini,
E sulla terra lentamente salta.
L’isole di Vulcano assai ne danno,
Che avanza tutti nel sapore, e molti
Il mare di Bizanzio anche ne aduna.
In Abdera le seppie, e in Maronea
Le lolligini in Dio di Macedonia,
Cui scorre a canto il fiumicel Bafira,
Moltissime in Ambracia ne vedrai.
Ottimi i polpi in Caria e in Taso; e molti
Ne nutre e grossi per lo più Corcira.
L’ippuro eccelle di Caristo, e inoltre
Ricca è Caristo di squisiti pesci.
Là nello stretto che riguarda Scilla
Nella piena di selve Italia, il mare
Il pesce lato, ch’è famoso alleva,
Boccone in vero da recar stupore.
Se unqua de’ Carii in Taso giungi, avrai
Grosse le squille, ma di rado in piazza
Si possono comprar; d’Ambracia il mare,
E quel di Macedonia assai ne appresta.
Il cromi in Pelle avrai ben grande (e pingue
Nella state si trova) anche in Ambracia.
L’asino pesce, che callaria alcuni
Chiaman, ben grosso nutrica Antidone;
Ma certa carne tien, che par spugnosa,
E, almeno al gusto mio, niente soave.
Molti lodanla assai, suole diletto
Prender costui di questo, e quegli d’altro.
Nel suol felice d’Ambracia giungendo,
Il marino cinghial compra se il vedi,
E s’anco si vendesse a peso d’oro
Non lo lasciare, affine che vendetta
Crudele degli dèi su te non piombi:
Fior di nettare al gusto egli è quel pesce.
Ma non a tutti li mortali è dato
Di poterne mangiar, neppur cogli occhi
Di poterlo guardar; solo è concesso
A color che cestelli ben tessuti
Di giunco, che si nutre in la palude,
E ben capaci nelle man tenendo
Di presto conteggiare hanno il costume.
Di agnel le membra ancora in dono sprezza.
In Taso compra non maggior d’un cubito
Lo scorpion, ma s’è maggior lo lascia.
Se nell’angusto fluttuoso stretto
Che parte Italia presa vien la plota
Detta murena, comprala, chè questo
Ivi è boccone di stupendo gusto.
Lodo ogni anguilla, ma la più squisita
È quella che si pesca dello stretto
Nel mar, che Reggio di rincontro guarda.
O di Messina abitator felice
Sopra ogni altro mortal’che questo cibo
In copia mangi! Levan pur gran fama
Le anguille di Strimona e di Copea
Perchè son grosse e pingui a maraviglia.
Ma d’onde pur si fosse, a mio parere,
Signoreggia tra tutte le vivande
E ogni altra avanza per la sua dolcezza
L’anguilla, il pesce sol ch’è tutto polpa.
Il sinodonte poi, pesce che devi
Cercar ben grosso, questo ancor t’ingegna
D’acquistar dallo stretto, o caro amico.
Tutto ciò dico a Ciro e a te, Cleano.
La lebia poi, ch’epato ancor si chiama,
In Delo e Teno di mar cinte, piglia.
Dalla cinta di flutti Egina compra
Il muggine, così tu pregio avrai
Di conversar tra le gentil persone.
Se non si vuole a te vendere in Rodi
Il galeo volpe, ch’è assai pingue, il quale
Suole cane chiamarsi in Siracusa,
Ben anco a rischio di morire, il ruba,
Ed alla fine quel che può t’avvenga.
L’elope, ma il miglior, vanne a mangiarlo
Nell’insigne città di Siracusa
Più che in ogni altro suol; perchè là nato,
E di colà che poi si porta altrove.
Che se all’isole intorno, o ad altra terra
Vien l’elope a pescarsi, o intorno a Creta,
Di là venendo giungerà magretto,
Duro, e dall’onde travagliato e stanco.
Compra la rana dovunque la trovi,
E cura poi di prepararne il ventre.
Allo spuntar di Sirio il fagro mangia
In Delo e in Eritrea, colà ne’ luoghi,
Che a’ bei porti vicin stansi sul mare;
Ma testa e coda sol ne compra, il resto
Neppur permetti che in tua casa venga.
Cerca lo scaro d’Efeso; in inverno
Mangia la triglia presa in Tichiunte
Piena di sabbia, borgo di Mileto,
Vicino a’ Carj dalle gambe storte.
Comprala in Taso ancor, che per sapore
Non cede a quella, e se la trovi in Tio
Meno gustosa, non è tal che giunga
A potersi sprezzar. E saporita
La triglia poi, che là nel mar d’Eritro
Da quella spiaggia non lontan si pesca.
Di fresca e grossa aulopia la testa
Cerca comprare in mezzo della state,
Allor che Febo sull’estremo cerchio
Guida il suo carro; e presto presto, e calda
La reca a mensa insiem con una salsa
Di triti aromi: convien poi che tutti
Collo schidon gli addomini ne arrosti.
Sempre la salpa ho per malvagio pesce,
Al più nel tempo in cui si miete il grano
Si può mangiar: ma sia di Mitilene.
Quando Orione in ciel sta ver l’occaso,
E del racemo produttor del vino
La madre getta la sua chioma in terra,
T’abbi allora alla mensa un sargo arrosto
Grande quanto si può, sparso di cacio,
Caldo, ammollito dal vigor d’aceto,
Perchè sua carne di natura è tosta.
Di condirmi così ti figgi in mente
Qualunque pesce, la cui carne è dura;
Ma quel che ha carne dilicata e pingue
Basta soltanto che di fino sale
L’aspergi, e l’ungi d’olio, perchè tutta
Tiene in sè la virtù di bel sapore.
L’amia in autunno, quando son calate
Ver l’occaso le Plejadi, apparecchia
Come ti piace: e perchè dir più oltre?
Quella guastare, se ne avrai pur voglia,
Tu non potrai. Ma se desir ti spinge,
O caro Mosco, di sapere il modo
Con cui vien più gustosa, io pur dirollo.
Nelle foglie di fico la prepara
Con rigamo non molto, senza cacio,
Senz’altro untume; quando l’hai sì concia
Semplicemente, in mezzo a quelle foglie
L’avvolgi, e sopra legala con giunco.
Mettila poscia sotto il cener caldo,
E colla mente va cogliendo il tempo
Che sia bene arrostita, e statti all’erta
Di non farla bruciar: ma t’abbii quella
Dell’amena Bizanzio se eccellente
Aver la vuoi; buona la trovi ancora
Se a Bizanzio vicino ella è pescata;
Ma se ti scosti più di gusto manca;
E se del mare egeo passi lo stretto,
Tanto di quella nel sapor diversa
Ritrovando s’andrà, che scorno reca
Alle lodi da me fattele in pria.
L’asia disprezza, che non è d’Atene,
O sia di quella razza che da’ Joni
Spuma s’appella. Sì questa tu prendi
Fresca e pescata ne’ profondi e curvi
Sen di Falero, o, se ti piace, in Rodi
Circondata di mar, dove gentile
Trovasi ancor quando là proprio nasce.
Ma se vago tu sei di ben gustarla,
Comprar bisogna le marine ortiche
Tutte intorno comate, e poi che insieme
Mescolate tra lor le avrai, le friggi
In padella nell’olio, in cui tritati
Vi sien d’erbucce gli odorosi fiori.
Compra in Eno ed in Ponto il pesce porco,
Che alcuni chiaman cavator di sabbia,
Lessane il capo senza condimento,
Ma dentro l’acqua lo rivolta spesso.
Indi v’aggiungi ben tritato issopo,
E, s’altro vi desii, sopra vi spargi
Aceto forte. Poscia intigni, e ’l mangia
Con tal fretta inghiottendo, che ti paja
Di soffocarti. Il dorso e la più parte
Di tal pesce convien di farli arrosto.
Prendi in Mileto dal Gesone il cefalo,
E il pesce lupo dagli dei allevato,
Perchè quel luogo per natura porta
Questi eccellenti. Altri, ver è, più grassi
Ve n’han, che nutre la palude Bolbe,
Ambracia ricca, e Calidon famosa;
Ma a questi pare che nel ventre manchi
Quel tale grasso, che soave olezza,
E quel sapore, che soave punge.
Son quelli, amico, di stupendo gusto.
Gli stessi interi, con tutte le squame,
Arrosti acconciamente a lento fuoco,
E poi con acqua e sale a mensa reca.
Ma non ti assista mentre gli apparecchi
Di Siracusa o dell’Italia alcuno,
Giacchè costoro preparar non sanno
I buoni pesci, e guastan le vivande
Ogni cosa di cacio essi imbrattando,
E di liquido aceto, e di salato
Silfio spargendo. I pesciolin di scoglio,
Questi che son del tutto da esecrarsi,
Sanno essi preparar meglio che gli altri:
E son valenti nel formar con arte
Più e più sorti di manicaretti
Pieni tutti d’inezie e di leccumi.
Il citaro, se carne ha bianca e soda,
Voglio che bolli in semplice acqua e sale,
In cui solo sien poste alcune erbucce
Se non è molto grosso, ed alla vista
Par che rosseggi, voglio che l’arrosti,
Ma pungere ne dei da prima il corpo
Con un dritto coltel di fresco aguzzo;
E tutto d’olio e d’abbondante cacio
Ungerlo poi. Gli spenditor vedendo,
Gode tal pesce, che di spesa è ghiotto.
In Torone convien del can carcaria
Comprare i voti addomini, che stansi
Di sotto al ventre: questi poi gli arrosti,
Di poco sale e di cimino aspersi,
E d’olio glauco in fuori, o dolce amico,
Altro non giungi: quando già son cotti,
Reca una salsa di tritati aromi,
E quei con questa. Che se qualche parte
D’un cavo tegamin dentro l’interno
Cuocer ti piace, non mischiarvi insieme
Acqua né aceto, ma vi spargi solo
Olio abbastanza con cimino asciutto,
Ed erbette spiranti odor soave.
Poi senza fiamma, e sul carbon li cuoci,
E spesso li rivolta, affin che intanto
Senza che te ne accorgi non si brucino
Ma tra i mortali non son molti quelli
A cui noto è tal cibo, ch’è da numi.
Anzi coloro, a cui toccò d’insetto
D’erbe sol roditor la stupid’alma,
Lo ricusan per cibo, e n’han ribrezzo,
Come di fiera, che d’uom carne mangia,
Ma tutto il pesce gran diletto piglia
Carne umana a mangiar dove l’incontra.
Però costor che van così da stolti
Ciarlando, uop’è che solamente all’erbe
Si riducano, e al sofo Diodoro
Correndo temperanti insiem con lui,
Seguan pitagorèa scuola e costume.
Esser vuol la torpedine bollita
In olio e vino con erbe odorose,
E un pocolin di grattugiato cacio.
In Calcedonia, che al mar presso siede,
Il grosso scaro ben lavato arrosti.
Buono è quel di Bizanzio, ed ha suo dorso
A tondo scudo di grandezza eguale.
Tu questo inter com’è così prepara:
Piglialo, e come l’hai d’olio e di cacio
Tutto coperto, appendilo al fornello
Già fatto caldo, e poi ben ben l’arrosti.
Ma spargilo di sal’cimino trito
Ed olio glauco, dalla man versando
Fluido sì squisito a goccia a goccia.
D’Efeso non lasciar la pingue orata
Che quegli abitator chiaman jonisco,
Ma scegli quella che nutrisce e alleva
La veneranda Selinunte, e questa
Lava prima ben bene, e poscia intera
Arrosti, e reca a mensa, ancor se grande
In sino a dieci cubiti ella fosse.
Di pingue, denso e grosso congro il capo
E tutti gl’intestini aver tu puoi
Nella cara Sicion, ma quello e questi
Tutti sparsi d’erbucce verdeggianti
A lungo bolli dentro l’acqua e ’l sale.
Nell’Italia si pesca esimio il congro,
E tanto gli altri pesci nel sapore
Vien tutti a superar, quanto il più grasso
De’ tonni avanza il coracin più vile.
Con cacio e silfio in mezzo dell’inverno
Mangia a lesso la razza i pesci tutti
Figli del mar che mancano di grasso
Voglion tale apparecchio; io già tel dissi,
Ed or tel dico la seconda volta.
Pesce è malvagio il mormile di spiaggia,
In alcun tempo non si trova buono.
Mileto illustre saporiti nutre
I pesci ad aspra pelle; ma tra questi
Più lo squadro si pregi, o quella razza,
Che largo porta e liscio il dorso. Intanto
Ghiotto sarei del lucerton di mare
Ben dal forno arrostito, il quale forma
De’ figliuoli de’ Joni la delizia.
Del glauco voglio che mi compri il capo
In Olinto e Megara, che gustoso
Pigliasi in luoghi pien di guadi e d’alga.
Il passer prosso poi, l’aspretta sogliola,
E questa nella state, aver si denno
Là ’ve degna d’onor Calcide siede.
Alla sacra d’intorno ed ampia Samo
Molto grosso vedrai pescarsi il tonno,
Ch’orcino alcuni, ed altri chiaman ceto.
Convien di questo a te comprar se a’ numi
Cena imbandissi, e ti convien comprarlo
Senza tardar, senza far lite al prezzo.
In Caristo e Bizanzio è poi gustoso;
Molto miglior di questo è quel che nutre
Nell’isola famosa de’ Sicani
Di Tindari la spiaggia, e Cefaledi.
Ma se d’Italia sopra il santo suolo
In Ipponio verrai dove corona.
Hanno i Bruzii di mar, colà vedrai
I tonni più eccellenti, che la palma
Portan, vincendo di gran lunga gli altri.
Ma tra’ Bruzii e tra noi di là vagante
Pelaghi molti traghettando in mezzo
A1 mar fremente questo pesce arriva.
Però da noi fuor di stagion si pesca.
T’abbi la polpa, che di coda è nodo,
Di quel pesce ch’è femina di tonno,
Il quale è grande, e per sua patria vanta
Il bizantino mar; tu quella in pezzi
Tagliata arrosti ben, di fino sale
Spargendola soltanto, e d’olio ungendo.
Poscia i pezzi ne mangia e caldi e intrisi
In forte salsa, e se ti vien la voglia
Asciutti di mangiarli, ancor gustosi
Questi ritrovi: per sapor, per vista,
Degl’immortali numi in ver son degni;
Ma perdon tosto il pregio lor se aceto
Spargendovi li rechi alla tua mensa.
Il salume del Bosforo è degli altri
Bianco assai più, ma della dura carne
Nulla ci rechi di quel pesce, il quale
Nella palude di Meote ingrossa,
E in questo metro nominar non lice.
In Bizanzio arrivando, un pezzo piglia
Di pesce spada, e sia di quella polpa
Che della coda la giuntura veste.
Saporito tal pesce ancor si pesca
Dello stretto nel fin verso Peloro.
Di tonno di Sicilia un pezzo mangia,
Di quel che a fette conservar salato
Nell’anfore si suol; ma la saperda
Che di Ponto è vivanda, e que’ che lode
Ne fanno, io voglio che compiangi a lungo:
Pochi san tra, mortali esser quel cibo
Vile e meschin. Ma a te convien senz’altro
D’aver lo sgombro per metà salato,
Quasi ancor fresco, posto da tre giorni
Dentro d’un vaso, e prima che si stempri
In acqua salsa. Se dipoi tu giungi
Nella santa città della famosa
Bizanzio, allora del salume oréo
Un pezzetto per me mangia di nuovo
Che veramente è saporito e molle.
Son molti i modi e molti li precetti
Di preparare il lepre, ma eccellente
È quel d’apporne in mezzo a’ commensali
Cui punge l’appetito, per ciascuno
La carne arrosto, sparsa sol di sale,
Calda, dallo schidon crudetta alquanto
Strappata a forza; né t’incresca il sangue
Che ne vedi stillare, anzi la mangia
Avidamente. Inopportuni e troppi
Son del tutto per me gli altri apparecchi
Di molto cacio, di molto olio e untume,
Come se a gatti s’imbandisse mensa.
Insiem prepara un grasso paperino
E questo ancor vo’ che soltanto arrosti.
Grinze e all’alber mature abbi le olive.
A cena sempre di ghirlande il capo
D’erbe cingi e di fior, di cui s’adorna
Il ricco suolo della terra, ed ungi
La tua chioma di fin liquidi unguenti;
Su lento fuoco di continuo spargi
Mirra ed incenso, che d’odor soave
Siria produce. Ma finito il pasto,
Quando cominci a ber, ti rechin questi,
Ch’io ti dico, piattel, ti rechin cotti
Ventre e volva di scrofa, che conditi
Sien di silfio cimino e forte aceto,
E teneri augellini arrosto fatti
Quelli che porta la stagion dell’anno.
Né questi abitator di Siracusa
Tu cura, i quali, come fan le rane,
Senza nulla mangiar bevono solo;
Non seguir l’uso loro, i cibi mangia
Che t’indicai: tutti quegli altri, e mela
E fave e ceci cotti e fichi secchi
Per sè di turpe povertà son mostra.
Ma pregia il confortin fatto in Aten;
Che se questo ti manca, e d’altro luogo
Vieni forse ad averlo, almen ti parti,
Cerca l’attico miele, è questo appunto
Che fa di Atene il confortin superbo.
Convien così che liber’uom si viva
O pur sen vada giù sotto la terra
Sotto l’abisso il tartaro a rovina,
E per istadii che non hanno numero
Lontan sotterra se ne stia sepolto.
Quando l’ultimo nappo a Giove sacro
Liberator colmo ti rechi in mano,
Il vecchio vin bevrai, che il capo inalza
Molto canuto, e tutta gli ricopre
Candido fior l’umida chioma, vino
Che la cinta di mar Lesbo produsse.
Anche il vin lodo, che si nasce in Biblo,
Città vetusta di Fenicia santa,
Ma a quel di Lesbo pareggiar nol posso.
E ver che, a bere del biblin, se pria
Uso non sei, nel punto che lo gusti
Più del lesbio parratti odor spirante,
Soave odor, che da vecchiezza prende:
Ma bevendolo poi vedrai che molto
Quello di Lesbo il vin di Biblo vince,
Parendoti destar non già di vino
Ma d’ambrosia il sapor l’odore e il gusto:
Che se qualche ciarlon tronfio cavilla,
Cianciando del fenicio, come fosse
Di tutti il più soave, io non lo curo.
Il Tasio ancora è generoso a bersi
Quando conta dell’altro età più lunga
Per molte belle primavere. Al pari
D’altre cittadi ricordar le viti
Uve stillanti ed inalzar saprei
Anche con lode, che i lor nomi ignoti
A me non son. Ma, a schietto dir, non puossi
Altro vin comparare a quel di Lesbo.
Sonvi di quelli poi ch’hanno vaghezza
Lodar le cose delle lor contrade.

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