giovedì 29 luglio 2021

Il Mezzogiorno moderno. 17b. I giornali in Basilicata tra 1840 e 1860


Solo negli anni Quaranta apparvero i primi giornali politici, che ebbero vita fino a quando Ferdinando II non costrinse al silenzio, nei dieci anni successivi, ogni voce che non abbracciasse il costituzionalismo conservatore o al più moderato. In tale alveo si situa l’esperienza del «Circolo Costituzionale Lucano» , organo del Circolo Costituzionale Lucano, ispirato dall’avvocato liberale Vincenzo d’Errico, costituito in difesa della Costituzione borbonica. Il primo fascicolo è composto da 6 pagine, il secondo da 4 e il terzo da 6. 
I tre fascicoli recano la numerazione progressiva delle pagine, con un salto di due pagine fra il primo e il secondo senza apparente mancanza di testo. Inoltre sono allegati i seguenti documenti: il verbale della riunione del 10 giugno 1848 contenente la Dichiarazione di principi del Circolo; la comunicazione della commissione di pubblica sicurezza datata 18 maggio 1848; il Memorandum delle provincie confederate di Basilicata, Terra d’Otranto, Bari, Capitanata e Molise, datato 25 giugno 1848; il proclama «A tutti i cittadini» datato 28 giugno 1848; il ringraziamento dell'avvocato e poeta Nicola Sole ai cittadini lucani, titolato «Merito e gratitudine»; una comunicazione dell'avvocato di Missanello Nicola Alianelli «Ai miei concittadini», datata 8 febbraio 1849.
La produzione giornalistica lucana, durante gli ultimi anni di vita del governo borbonico fu, di fatto, inesistente – nonostante la libertà di stampa fosse nuovamente concessa – a causa dell’inerzia della borghesia intellettuale lucana. Tuttavia, testimoniata dai documenti, oltre che dai riflessi e dalle incidenze, importante fu la compartecipazione dei singoli e di gruppi organizzati al progetto politico che faceva capo alla capitale, abbracciandolo e adattandolo alle realtà delle province, ma mantenendo a guida l’ideale repubblicano.
Ben evidenziata risulta la sostanziale continuità di tenuta dell’esercizio di posizioni e ruoli di potere sul territorio e gli inevitabili particolarismi istituzionali e sociali spesso interni agli stessi agenti politici. Evidenti le attese che accompagnarono il 1799 prima e il 1848-49 poi, e le conseguenti delusioni e disillusioni per un progetto non portato a compimento.

giovedì 22 luglio 2021

Il Mezzogiorno moderno. 17a. I giornali in Basilicata tra 1806 e 1840

Il giornalismo in Basilicata iniziò nel 1808, anno in cui, in seguito a quanto stabilito dalla riforma murattiana della pubblica amministrazione, ogni capoluogo di provincia del Regno ebbe l’obbligo di dotarsi di una tipografia attraverso la quale poter stampare e diffondere gli Atti dell’Intendenza: si trattava di una modalità attraverso la quale il governo centrale rendeva possibile ai sudditi la conoscenza delle leggi, dei decreti e delle informative attraverso le rappresentanze territoriali e i loro giornali ufficiali. Il 20 agosto 1808 la Basilicata ebbe il suo primo «Giornale degli Atti dell’Intendenza», che nacque come quindicinale, ma ebbe periodicità irregolare e testata mutevole, con l’ultimo numero nel 1832. Fu con il «Giornale degli Atti dell’Intendenza» che la Basilicata si aprì a nuovi obiettivi culturali e l’obbligatorietà dell’abbonamento per tutti i Comuni segnò «l’apertura di spazi, di ambizioni, di prospettive culturali» .
Nella provincia vi erano, dunque, le premesse per l’avvio di una stampa periodica, progetto che trovò difficile accoglienza in una realtà socio-economica come quella della Basilicata del tempo. La Restaurazione completò il quadro di «resistenza» culturale, «poiché caduto il Regno murattiano, un nuovo regime di assolutismo politico, sospettoso verso ogni manifestazione di pensiero e soprattutto verso la stampa, si instaurò e fece tragicamente rientrare, fra l’altro, ogni speranza di pubblicare liberamente giornali e riviste» . Tra il 1815 e il 1820 il panorama editoriale nella Basilicata non fu incrementato, registrando anzi un passo indietro rispetto agli anni murattiani e alle aspettative suscitate dal «Giornale dell’Intendenza». 
La censura dilagò ovunque, nel Mezzogiorno e ancor più in Basilicata: dopo il Congresso di Vienna e la Restaurazione mancò una stampa popolare, in quanto «la borghesia meridionale non aveva ancora maturato grande interesse al progresso dell’industria e dell’agronomia, che la popolazione era quasi analfabeta e, infine, che il Governo dei Borbone mostrava scarsa attenzione alla cultura» . Nel corso della rivoluzione del 1820-21 in Basilicata fu edito un notevolissimo periodico, il «Giornale Patriottico della Lucania Orientale» , che, pubblicato a Potenza a partire dal 10 luglio 1820 con cadenza decadale, esaurì la sua funzione informativa rapidamente all’indomani della concessione della libertà di stampa, voluta dal Parlamento napoletano il 26 luglio. Esso può considerarsi, dunque, data la breve esistenza e la mancanza di seguito, dopo l’entusiasmo rivoluzionario, alla stregua di una prova di giornalismo politico. Il «Giornale», in effetti, si situa al limitare dell’età napoleonica, con la quale condivide il carattere di comunicazione altamente politicizzata, pur se ancora in senso piuttosto retorico che informativo, certamente su influsso di periodici come la nota «Minerva Napoletana» . Dopo i giornali editi durante il 1820-21, ci fu un lungo periodo di silenzio per la stampa lucana. Fu solo dal 1830 che il nuovo sovrano Ferdinando II permise la pubblicazione, accanto ai fogli ufficiali, di testate indipendenti come il «Giornale Economico Letterario della Basilicata», un periodico trimestrale, che, pubblicato per la prima volta nel 1838, nell’ex tipografia dell’Intendenza, pubblicava non solo articoli tecnici, ma si occupava anche di argomenti letterari e culturali. 

BIBLIOGRAFIA: 
Antonio CATERINO, La Basilicata e la sua stampa periodica. Bibliografia: 1808-1996, Bari, Catalogo Unico delle Biblioteche Apulo-Lucane, 1968.
Pantaleone SERGI, Storia del giornalismo in Basilicata, Roma-Bari, Laterza, 2010.

giovedì 15 luglio 2021

Il Mezzogiorno moderno. 16. Opere di Eleonora Fonseca Pimentel

a) Poemetti 
- Il tempio della Gloria. Epitalamio nell’augustissime nozze di Ferdinando IV Re delle Due Sicilie con Maria Carolina Arciduchessa d’Austria, di Eleonora de Fonseca Pimentel, tra i Filaleti Epolnifenora Olcesamante, in Napoli, presso Giuseppe Raimondi, MDCCLXVIII.
- La nascita di Orfeo. Cantata per l’Augustissima Nascita di S.A.R., Il Principe Ereditario delle Due Sicilie, di Eleonora de Fonseca Pimentel, fra gli Arcadi Altidora Esperetusa, in Napoli, presso i Raimondi, MDCCLXXV.
- Il trionfo della Virtù. Componimento drammatico dedicato all’Eccellenza del Signore Marchese di Pombal, primo ministro, segretario di Stato ecc. ecc. del Re fedelissimo, Napoli, s.e., 1777, ripubblicato con documenti a cura di Joaquim de Araujo, Livorno, Giusti, 1899.
- La gioia d’Italia. Cantata per l’arrivo in Napoli delle LL.AA.RR. il Gran Duca, e la Gran Duchessa delle Russie, di Eleonora de Fonseca Pimentel nei Tria de Solis, Altidora Esperitusa, Napoli, s.e.,1782.
- Il Vero omaggio, Cantata per celebrare il fausto ritorno delle Loro Maestà di Eleonora de Fonseca Pimentel, Napoli, s.e., 1785.
- La fuga in Egitto, Oratorio Sacro dedicato a S.A.R. D. Carlotta di Borbone, principessa del Brasile, Napoli, s.e., 1792. 

b) Sonetti vari:
- La dea, ch’in Pafo e in Amatunta impera, 1770, in DE LISO D. et alii (a cura di), Una donna tra le muse: la produzione poetica, Napoli, Loffredo, 1999, pp.83-84.
- Allor che sciolto da’ mortali affanni, 1771, Ivi, pp. 86-87.
- Vago usignol, che ne’ soavi accenti, 1773, Ivi, pp. 89-90.
- Verrà Donna Real, è in ciel prescritto, 1773, Ivi, pp. 92-93.
- Cruccioso Amore un giorno al cielo ascese, 1775, Ivi, pp. 94-95.
- Cugin, due mesi son che non scrivete, 1776, Ivi, pp. 96-98.
- Sonetti in morte del suo unico figlio, 1779, Ivi, pp.100-105.
- Ode elegiaca per un aborto, 1779, Ivi, pp. 210-223.
- Scese vergine Dea al mondo infante, 1780, Ivi, pp. 107-109.
- Il genio degl’Imperi ei che primo, 1782, Ivi, pp. 110-112.
- Sonetto napoletano, E biva lo Re nnuosto Ferdenanno, 1788, Ivi, pp. 114-115.
- Sonetto I e II, in Componimenti poetici per le Leggi date alla nuova Popolazione di San Leucio da Ferdinando IV re delle Sicilie, Napoli, Stamperia Reale, 1789, in E. URGNANI, La vicenda letteraria e politica di Eleonora Fonseca Pimentel, Napoli, La città del Sole, 1998, pp. 98-99.

c) Epigrammi latini, 1771, Ivi, pp. 104-106.

d) Opere in prosa
- CARAVITA N., Nullum ius pontificis maximi in regno neapolitano dissertatio historico-giuridica, Alethopoli, 1707. ID., Niun diritto compete al sommo Pontefice, Dissertazione storico-legale del Consigliere Caravita tradotta dal latino con varie note da Eleonora Fonseca Pimentel, Alethopoli, 1790.
- PEREIRA DE FIGUEIREDO A.,  Analyse da profissão de fè do Santo Padre Pio IV, Lisbona, na Officina de Simão Thadeu Ferreira, 1791. ID., Analisi sulla professione di fede di Pio IV, deputato della Real Mensa della commissione generale per l’esame e censura de’ Libri. Stampata in Lisbona presso Simone Taddeo Ferreyra l’anno 1791 con permissione della suddetta Real Mensa. Tradotto dal portoghese con alcune delucidazioni. Preceduta da un prefazione “ A’ benigni lettori” di Gennaro Cestari, Napoli, Nicola Russo, 1792.
- «Monitore Napoletano», in A. LERRA (a cura di), Monitore Napoletano (2 febbraio – 8 giugno). L’antico nella cultura politica rivoluzionaria, Manduria-Bari-Roma, Lacaita, 2006, pp. 1-413.

e) Lettere
- a Michele Lopez, 19 ottobre 1776,  in E. URGNANI, La vicenda letteraria e politica di Eleonora Fonseca Pimentel, Napoli, La città del Sole, 1998, pp. 274-276.
- a Sua Maestà e al Consigliere Tontulo, 1784-1785, Ivi, pp. 277-278.
- ad Alberto Fortis, 1785, Ivi, p. 280. 
- al Marchese Tontulo, 7 giugno 1785, Ivi, p. 283.
- a fr. Manuel de Cenaculo, 1786, Ivi, pp. 285-286.
- al Duca Michele Vargas Macciucca, 20 novembre 1789, Ivi, p. 289.
- alla Contessa Silvia Curtoni Verza, 8 luglio 1790, Ivi, pp. 290-291.
- a Padre Antonio Pereira de Figueiredo, Ivi, pp. 292-296. 

giovedì 8 luglio 2021

La Basilicata moderna. 40. Ruolo e incidenza dei Benedettini - La SS. Trinità di Venosa

Nel corso dell’Età moderna, anche in Basilicata notevole, se non quasi “monocratica”, fu la rilevanza assunta dalla Chiesa, che assunse una posizione tutt’altro che statica nei confronti della società, adoperandosi per stabilire rapporti solidi con il mondo laico, conformando la propria azione in vita di un reale, incisivo, inserimento all’interno dei quadri dirigenti locali . In effetti, la Chiesa seppe garantirsi una rilevante base patrimoniale, tanto più in coincidenza con il difficile periodo attraversato negli anni della Controriforma, soprattutto perché essa gestiva gran parte dell’agro lucano. 
Se, in effetti, l’«azienda clerale» ricettizia fu il perno socio-economico della provincia, anche in Basilicata gli ordini religiosi ebbero notevole rilevanza nella “riconquista” delle anime e, in realtà, la tenuta del clero sul territorio lucano fu garantita proprio da monasteri e grancie, tra le quali spiccano quelle dei Benedettini, che vi lasciarono una traccia profonda. 
Notevoli sono, infatti, le testimonianze e i dati.  
La presenza di monasteri, italogreci e benedettini, è attestata in Basilicata a partire dall'VIII secolo con la diffusione di monasteri, chiese, grancie, prova evidente del contributo della regione ad una forte identità culturale del Mezzogiorno. L'insediamento e la diffusione capillare di quelle comunità monastiche, inoltre, testimonia non solo la forte religiosità delle popolazioni lucane, ma anche la capacità di quegli ordini di organizzare il territorio, determinarne l'assetto degli abitati e dare un apporto significativo allo sviluppo dell'agricoltura, del commercio e dell'industria del territorio. Gran parte degli edifici e delle fabbriche monastiche sono ormai ridotti a ruderi, e di alcuni non vi è più traccia, distrutti da eventi naturali o dall'azione dell'uomo, anche se le fabbriche più importanti, come la Santissima Trinità di Venosa e Monticchio, hanno conservato parti significative degli edifici.

  
Il monastero della SS. Trinità di Venosa sarebbe stato istituito nel 942, per iniziativa di Gisulfo I principe di Salerno, su richiesta di un suo parente, il nobile Indulfo, che ivi successivamente divenne monaco . La maggioranza degli studiosi ritiene che a questo testo, certamente frutto di una falsificazione o di una interpolazione nella forma in cui ci è pervenuto, debba essere ugualmente riconosciuta una sostanziale attendibilità, soprattutto in base all’analisi architettonica, che ha rivelato e rivela nel monumento una complessa stratificazione strutturale, con riconoscibili frasi prenormanne. Tuttavia le scoperte più recenti, come pure il reimpiego nella costruzione di parti murarie impostate ad una quota che sembra essere pertinente a strutturare tardoantiche, inducono a ritenere che l’impianto chiesastico sia precedente al X secolo e danno credito alla tradizione, raccolta anche dell’Ughelli , secondo la quale la chiesa della Ss. Trinità sarebbe stata, per un certo periodo, la cattedrale cittadina, rimettendo in discussione la fondazione abbaziale del 942. Comunque, sia stata preesistente soltanto la chiesa o la stessa comunità benedettina, l’interessamento del normanno Drogone verso quest’ultima, testimoniato dalla bolla di Niccolò II del 25 agosto 1059, non sembra limitato all’intervento di carattere edilizio in essa esplicitamente ricordato, monasterium Sancte Trinitatis de veteri civitate Venusia labore extructum a Dregone comite, restaurari ceptum per te [abate Ingilberto], ma assume il carattere di una vera e propria fondazione de novo, in quanto la conferma pontificale non solo definisce le grandi linee della disciplina religiosa e la condizione del monastero, ma stabilisce anche la misura stessa dei censi dovuti alla Santa Sede.  
Sono notevoli gli edifici conservatisi dall’abbazia medioevale, cioè la «chiesa anteriore», la «foresteria» e la grandiosa «chiesa incompiuta» . Un accurato bilancio di queste ricerche storico-artistiche e delle loro proposte, spesso contrastanti, per la datazione delle fasi costruttive è stato tracciato da Corrado Bozzoni  che attribuiva la «chiesa anteriore» all’epoca dei primi Normanni (1043/6-1085), indicando come inizio della costruzione della grande «chiesa incompiuta» il decennio tra il 1170 e il 1180, quando l’abbazia venosina, sotto l’abate Egidio, avrebbe raggiunto «nuovamente un’eccezionale potenza e prestigio» . Questa tesi è, però, stata contrastata recentemente, quando si è ipotizzato che la «chiesa incompiuta» fosse stata progettata e iniziata già sotto l’abate normanno Berengario, cioè nella seconda metà del secolo XI o al più tardi all’inizio del secolo successivo, cioè all’epoca di Ruggero Borsa (1085-1111). 
Anche per quanto riguarda la cosiddetta «foresteria», le cui origini erano state attribuite all’epoca longobarda , recentemente sono state avanzate nuove proposte di interpretazione: sulla base della funzione della S.S. Trinità come chiesa sepolcrale dei primi Altavilla, la «foresteria» dovrebbe risalire, nella sua forma odierna, a due fasi costruttive. Nella prima fase, attribuibile all’epoca di Roberto il Guiscardo (1085), sarebbe stato costruito il nucleo dell’edificio destinato a ospitare gli Altavilla quando si recavano in visita all’abbazia. Nella seconda fase costruttiva, attribuita al XIII secolo, l’edificio sarebbe stato modificato e allargato, e solo allora esso avrebbe assunto la funzione di foresteria, nel senso di «ospizio» per i pellegrini. Le recenti indagini archeologiche hanno messo in evidenza come la chiesa (anteriore) della SS. Trinità di Venosa, poi trasferita in altro luogo (cioè in corrispondenza dell’odierno castello allora non ancora esistente), fu oggetto di numerosi restauri promossi da Drogone di Altavilla alla metà dell’XI secolo .  
Il primo importante contributo descrittivo e critico sull’abbazia della Trinità deve essere indicato nell’opera di Heinrich W. Schulz, che accanto ad una sintesi delle vicende storiche del monumento, derivate dalla letteratura precedente e dalle fonti epigrafiche, pubblicò per primo una planimetria del complesso (tuttavia incompleta e imprecisa) ed alcuni notevoli disegni di capitelli e di uno dei portali. Secondo lo studioso tedesco, le residue strutture della chiesa incompiuta, cioè l’impianto planimetrico con deambulatorio e cappelle radiali, di chiara derivazione francese, dovevano essere ritenute il frutto di una ricostruzione progettata alla fine del XIII secolo; mentre la chiesa anteriore rappresenterebbe ancora l’edificio innalzato dai primi normanni.  

giovedì 1 luglio 2021

Materiali didattici. 55. La Basilicata nelle Descrizioni del Regno di Napoli

In Età moderna sono le descrizioni a restituire, più che l’autorappresentazione interna, la percezione che della Basilicata si aveva da parte di Napoli. E ciò soprattutto perché le descrizioni del Regno ebbero carattere di ampia interferenza tra storie locali e storie “definitive”: le descrizioni, accanto a questi grandi modelli generali, fungevano, il più delle volte, da manualistica più “spicciola”, in quanto nate con uno scopo ben definito, quello di mostrare al lettore i vari aspetti sociali, economici e geografici del Regno, giungendo infine in maniera compiuta ad autoregolamentarsi come un genere analitico e propositivo, sfaccettato nei caratteri, ma fondamentalmente unitario nello scopo perseguito, ben oltre l’apparete intento di semplice periegesi che ancora caratterizzava le opere umanistiche.

a. Descrizioni generali


In realtà, di descrizioni generali specificamente dedicate all’intera Basilicata non si può parlare in senso stretto, a differenza di altre province vicine, come Principato Ultra o Terra d’Otranto, perché la tradizione umanistica, appunto, nonché quella politico-istituzionale, non presentava caratteri unitari. Solo la zona dell’antica Lucania, compresa tra il Vallo di Diano e la zona del Potentino, conservò caratteri di unitarietà tali, in entrambi i campi, da permettere, tra Sei e Settecento, la redazione di opere dedicate. 
In primo luogo, l’opera dell’agostiniano Luca Mandelli, La Lucania (L. MANDELLI, La Lucania, ms., trascrizione del 1792, in BNN, Manoscritti, coll. X-D-1/2.), con eruditi riferimenti al diritto romano e agli autori periegetici classici ed umanistici, trattava, in due parti, della zona compresa tra Cilento e Vallo di Diano, utilizzando, come detto, il modello periegetico delle descrizioni del Regno. Essa, nonostante, o proprio per il suo carattere di serbatoio erudito, ebbe notevole influenza sul medico Costantino Gatta e sul barone Giuseppe Antonini. 
Il Gatta, medico, autore delle Memorie topografiche-storiche della provincia di Lucania (C. GATTA, Memorie topografiche-storiche della provincia di Lucania, compresa al presente nella provincia di Basilicata, e di Principato Citeriore, colla genealogia de’ serenissimi principi di Bisignano dell’illustre famiglia Sanseverino, Napoli, Stamperia del Muzio, 1732; II ed., postuma ed accresciuta, a cura del figlio Gherardo Saverio, con il titolo Memorie topografiche-storiche della provincia di Lucania, colle notizie dell’antico e venerabile tempio dedicato alla ss. Vergine, nel territorio della città di Saponara, e d’un sepolcro de’ gentili presso l’antica città di Consilina, in Napoli, Stamperia del Muzio, 1743.), una puntigliosa presentazione dello stato naturale e civile dell’antica Lucania, con particolare attenzione al Vallo di Diano. La zona subprovinciale del Principato Citra, lungi dall’essere presentata solo sulla scorta delle autorità classiche, veniva descritta con attenzione alla storia politica, con dettagli rilevanti di carattere sociale ed economico ed un particolareggiato elenco genealogico delle famiglie nobili.
Di simile impianto, ancorché non esente da notevoli errori e tendenziosità, la Lucania (G. ANTONINI, La Lucania. Discorsi, in Napoli, nella Stamperia di Raffaello Gessari, 1745) di Giuseppe Antonini, avvocato e feudatario di San Biase e Regio Auditore di Basilicata e Abruzzo Ultra. Antonini, utilizzando il metodo corografico-antiquario tipico delle descrizioni, esaminava, in nove Discorsi, la geografia e la storia antica del Cilento e del Vallo di Diano, soffermandosi, altresì, su parte della Basilicata, pur rimanendo nell’ambito della storia antica e della descrizione erudito-periegetica, compilando, fondamentalmente, uno zibaldone di schede geografiche, con dati spesso non documentati e non collegati in organica sintesi come nel mosaico del Gatta.

b. Descrizioni della Basilicata nel Regno

Se queste “descrizioni generali” restituiscono l’immagine, erudita e distante, dell’antica Lucania, per avere un’idea di come davvero fosse percepita la Basilicata in età moderna bisogna ricorrere ai più volte citati descrittori del Regno, ponendo particolare attenzione a Scipione Mazzella e a Giambattista Pacichelli, rispettivamente apripista e “snodo” del modo di fare descrizione delle province.
Mazzella iniziava la sua descrizione spiegando che «una parte de’ luoghi di Montagna, già detta Lucania, un’altra di Puglia, furono anticamente sotto un sol nome chiamate Basilicata». Tale toponimo potrebbe essere derivato dal fatto che il territorio della Lucania, di dominio bizantino, fu dato da un imperatore di Costantinopoli come dote a una sua figlia o che il nome potrebbe essere derivato da Basilio, «huomo già fortissimo in arme, che possedé in quei tempi tutti questi luoghi, e da essa Regione, e da terra d’Otranto con sua industria, e valore discacciò i Greci,e i Cartaginesi, che la possedevano».
Poi passa alla descrizione dei confini e all’origine del popolo lucano che deriverebbe da un capitano di nome Lucano capitano, che «con una Colonia de’ Sanniti, venne in quello luogo ad habitare».
Dopo le necessarie trattazioni sul nome della provincia, si prosegue con la descrizione dal punto di vista del territorio e dell’economia locale: 

È questa Regione la maggior parte montuosa, ma però molto fertile d’ogni sorte di biade, e produce buonissimi vini, peroche crescono le viti in ampissima grandezza, il che aviene per l’amenità dell’aere, e del terreno dove sono piantate […] Fioriscono […] due volte l’anno gli alberi, e le rose, dove per tutto si vede abondanza grande di diversi saporiti, e dolci frutti; sonovi bellissimi giardini, […] producono bellissimi cedri, aranci e limoni.               

La descrizione comincia «dalla bocca del fiume Sile, ove mette capo nel mare, infino al fiume Lavo, ove sbocca nella marina» e continua con la descrizione di varie città, a ciascuna delle quali l’autore dedica poche righe, per conclude con la descrizione degli abitanti, presentati secondo un topos di rusticità e forza di carattere legata all’asperità dei luoghi che abitano e dell’attività di contadini e pastori e con l’insegna della provincia, «una mez’Aquila fulva chiara coronata con tre ondi di sotto di color azurro, tutto il resto del campo è d’oro», a simbolo della vittoria dei lucani. Infine elenca le «torri che tengono guardata la presente provintia di Basilicata» che sono sette, e l’elenco dei «nomi delle città, terre, e castella […] con la nota de’ fuochi che ciascuna di essa fa, e delle terre di Dominio, che vi sono, e dell’imposizioni, che alla Regia Corte pagano». L’immagine che emerge della Basilicata non è quella di una terra propriamente connotata dal punto di vista amministrativo o culturale, quanto, piuttosto, di una provincia di raccordo tra nord e sud del Regno di Napoli, una sorta di territorio selvaggio e senza grande storia contemporanea, ma, piuttosto, legato agli antichi fasti dei Lucani e della Magna Grecia. Tanto è vero che molte parti della descrizione di Mazzella sono, di fatto, la traduzione di passi del geografo augusteo Strabone, che nel V libro della sua Geografia aveva dedicato spazio alla Lucania: non a caso, i luoghi descritti della Lucania sono gli stessi della rappresentazione straboniana. 
Mazzella aveva, quindi, armonizzato la breve descrizione delle città più importanti della provincia nel tessuto di quella dell’intero contesto provinciale, introducendo, di fatto, un modo di descrivere la Basilicata che sarebbe rimasto pressoché invariato nei suoi epigoni, come Enrico Bacco e Ottavio Beltrano. La descrizione di Pacichelli, invece, si poneva non tanto nel solco delle descrizioni secentesche, ridotte a puri manuali popolari, quanto, piuttosto, le superava in uno sforzo di osservazione più diretta, meno mediata dall’erudizione e dal principio di autorità che erano stati alla base di precedenti descrizioni. Il Regno di Napoli in prospettiva superava l’impostazione manualistica, quasi da almanacco “corografico”, basata su schemi ripetitivi, ma andava a esaminare in modo capillare, con l’ausilio della rappresentazione cartografica e di numerose incisioni delle più importanti cittadine del Regno di Napoli, il quadro politico-istituzionale delle province facendo, altresì, perno non solo su tale canonico schema, ma anche sulle potenzialità economiche del territorio e sulle peculiarità geografiche dei singoli centri. La canonica tradizione di descrivere origine e sito della città, dunque, si trasformava in un’analisi che, ancorché non definibile “scientifica”, puntava a focalizzare, in un contesto geografico, i caratteri più originali della realtà locale, facendo leva non più, o non soltanto, sulle autorità classiche, relegate, per così dire, alle note, quanto soprattutto su costruzioni e coltivazioni, con una particolare attenzione ai segni delle reti dei poteri locali.Nella consueta sezione relativa al toponimo “Lucania” o “Basilicata”, l’autore inizia con le diverse ipotesi, aggiungendo, a quelle già citate da Mazzella e dai suoi epigoni, le teorie di Alberti e Pontano, basate su paretimologie. paretimologie. Tale consuetudine, di origine antica e medievale, si fondava sul principio del carattere non arbitrario dei nomi, della possibilità di trovare con l’etimologia l’origine e il senso delle cose, laddove tacessero le fonti. Il legame tra nome e felicitas del luogo era evidenziato, ad esempio, nel caso di Matera, dalla falsata derivazione greca di Matera da metéoron o da Quinto Metello, che, fuggito da Roma, scelse il sito per la sua «inespugnabilità» dando alla città il proprio nome (Metello> Mateola> Matera), o ancora dal fatto che la città traesse origine dalle «reliquie» di due colonie distrutte, rispettivamente, Metaponto e Heraclea e che i cittadini sopravvissuti, non sapendo scegliere tra l’uno o l’altro nome, avessero chiesto una soluzione a Pitagora, il quale, prese tre lettere da entrambi i toponimi, avrebbe composto il nome di Mat-Hera, da cui Matera.
Rispetto alle descrizioni seicentesche, poi, Pacichelli decide di dare più spazio alle singole realtà urbane, scegliendo quelle che, a suo dire, risultavano maggiori per caratterizzazione economica e politica, con una netta prevalenza della prima sulla seconda, ovviamente per i fini fiscali della Capitale del Regno. Sicché, le città descritte sono, a parte la sede della Regia Udienza, Acerenza, Lavello, Marsico “vecchio”, Melfi, Montepeloso, Muro, Potenza, Rapolla, Tricarico, Tursi, Venosa, la Certosa di San Lorenzo di Padula, Anzi, Atella, Bernalda, Colobraro, Ferrandina, Forenza, Francavilla, Laurenzana, Lauria, Maratea, Moliterno, Montemilone, Montescaglioso, Oppido, Picerno, Ruvo, Salandra, Saponara, Spinazzola, Stigliano, Trecchina. 
Risulta interessante il fatto che le prime dodici cittadine descritte siano sedi vescovili e, quindi, con un’importanza notevole dal punto di vista politica, vista la già citata incidenza delle realtà ecclesiastiche nel contesto di una provincia interna come la Basilicata. Nel prosieguo della selezione delle realtà urbane, Pacichelli mostra di descrivere le cittadine di passaggio, che sicuramente deve aver toccato quando «egli girava pel nostro Regno, (e) raccolse le più mirabili memorie di ciascheduna città, e terra principale, co’ prospetti delle medesime, e co’ piani topografici delle provincie […] e l’opera cominciò a manipolarsi nel principio del 1695». Quindi, Potenza e realtà vicine come Picerno o la Certosa di Padula o Laurenzana e Anzi e, di seguito, quelle della Val d’Agri e del Lagonegrese, come Saponara, Lauria, Maratea, Moliterno, Francavilla. Una notevole sezione è, ancora, dedicata alla zona di passaggio ed economicamente assai rilevante del Vulture-Melfese, con Atella, Forenza, Montemilone, Ruvo, Spinazzola, mentre ben poco spazio riceve una realtà decisamente eccentrica come quella del Materano, con pochi cenni a Montescaglioso, Ferrandina, Salandra, Bernalda, Colobraro.
Di peculiare rilevanza è il corredo cartografico, finora mai utilizzato nelle descrizioni, che quindi eleva quella di Pacichelli su un piano un po’ più alto rispetto alla schematicità popolare di Bacco e Beltrano. Non si può parlare di una sorta di “guida” per il turista o il viaggiatore, ma del desiderio dell’autore di approfondire delle realtà che gli sembrano più rilevanti dal punto di vista socio-economico. Le incisioni, eseguite da Francesco Cassiano da Silva, oscillano tra il vedutismo abbastanza preciso, come nel caso di Matera o Montepeloso, e la schematicità, spesso grossolana, di vedute come Acerenza, Lavello, Potenza, di cui vengono riprodotti gli elementi urbani fondamentali. Si può ipotizzare che Cassiano dedicasse particolare attenzione alla città più grandi come Matera, Montepeloso, Melfi, Moliterno, che avevano una posizione ed un’economia tale da giustificarne non solo un’ampia descrizione, ma anche una veduta. Fa eccezione Trecchina, che Pacichelli deve aver visitato rapidamente ma che aveva una posizione strategica tra basso Lagonegrese e Tirreno. 

c. Descrizioni “di servizio”


A parte si situano, infine, due descrizioni nate senza intenti divulgativi, tra l’altro entrambe poste quasi a inizio e fine del ciclo della modernità, quali quella di Camillo Porzio e quella di Rodrigo Maria Gaudioso.
Porzio scrisse una relazione sul Regno dopo l’arrivo a Napoli, nel 1575, del viceré Iñigo López de Mendoza, marchese di Mondejár. Si tratta di una descrizione accurata della posizione geografica, della divisione in province, delle condizioni economiche e di alcune annotazioni storiche riguardanti il Regno, fino alla «disposizione degli animi de’ regnicoli verso il presente dominio». Sulla Basilicata egli si sofferma molto brevemente:

La provincia di Basilicata é quasi tutta dentro di terra, fralla Calabria, Terra di Otranto, e di Bari, ed ha solamente verso l'oriente nel Golfo di Taranto, dove finisce la Calabria, un piccolo spazio di mare. Abitarono già in essa Greci e Lucani. Abbonda di grano, di bestiame grosso, e di formaggi.
I paesani vivono e vestono grossamente; sono più inclinati all’agricoltura e ad altri servigi personali, che al maneggiar l'armi; e non potendo per mare cavar fuori della provincia tutto il loro frumento, insieme cogli uomini di Principato lo portano a schiena di mulo a’ popoli vicini che ne hanno bisogno, e conducono anco in Terra di Bari di molte some di galle che di là si navigano a Venezia per tingere i panni.
Questa provincia per esser dentro di terra è senza gran città e senza uomini guerrieri. I Re di Napoli non pensarono mai di farci delle fortezze; sì che sarebbe preda di qualunque esercito che fosse padrone della Campagna.
Corrono per essa il fiume Vasento sino [...] 
È numerata dalla Regia Corte in fuochi 38743.
II Re vi possiede due piccole terre di Demanio, Lagonegro e Tramutole.
Vi ha fanti del Battaglione 1537.
I Vescovati sono Potenza, Venosa, Anglona, Tricarico, Montepeloso, Muro, Melfi, Marsico. A nominazione del Re è Potenza.
I Baroni titolati di questa provincia sono il Principe di Melfi, il Principe di Stigliano, il Principe di Venosa, il Marchese di Lavello, il Marchese di Riolo, il Marchese di Turso, il Conte di Potenza, il Conte di Saponara.
Il Governatore di Basilicata é l’istesso di Principato Citra.

In questo solco si situa quella “relazione” che Carlo di Borbone commissionò al Tanucci dopo una rapida sosta nella zona del Materano e della fascia jonica nel lungo viaggio con l’armata per raggiungere Palermo, sede dell’incoronazione sul trono di Sicilia. 
Il Tanucci, a sua volta, incaricò, come già detto, il segretario della Regia Udienza basilicatese, il marchese di Camporeale Rodrigo Maria Gaudioso, di stendere una relazione dettagliata che informasse il sovrano delle tipologie abitative delle Università e, soprattutto, delle caratteristiche e degli introiti derivanti dai feudi laici ed ecclesiastici e dagli enti ed istituzioni religiose. Il voluminoso dossier inviato dal Gaudioso a Napoli, con il titolo DESCRIZIONE DELLA PROVINCIA DI BASILICATA fatta Per ordine di Sua Maestà, che Dio Guardi, da Don RODRIGO MARIA GAUDIOSO Avvocato Fiscale Proprietario della Regia Udienza di detta Provincia, è conservato nella Biblioteca Nazionale di Napoli, nella sezione Manoscritti ed è una testimonianza notevole non solo del modus operandi di un funzionario provinciale, come da più decenni era noto attraverso la pubblicazione della relazione propriamente detta ma, soprattutto, apre uno spiraglio notevolissimo sulla situazione delle Università della Basilicata, i cui ceti dirigenti furono responsabili della compilazione dei resoconti da inviare al Gaudioso e che contengono una mole maggiore rispetto a quanto abbreviato e, in più parti, omesso dall’avvocato fiscale materano. 
Come emerge dalla “relazione Gaudioso”, la crescita della popolazione e il senso generale di espansione che emergeva nella stessa Basilicata spingeva alla rivendicazione, contro lo strapotere economico della “casta”, dei terreni comuni e all’estensione delle terre coltivabili, in mano a ristretti gruppi di feudatari e alle onnipresenti ricettizie. Le stesse tipologie urbane in ridefinizione, specie nelle aree della Basilicata più in comunicazione con le province contermini e gli snodi commerciali, indicano che la Basilicata che emerge nella nuda relazione dell’avvocato fiscale Gaudioso era un territorio variegato, ricco di potenzialità, un mare magnum e decisamente “incognito” che il sovrano aveva appena toccato e che, probabilmente, era curioso di conoscere a livello fiscale per avere un’idea di come procedere nel “resettaggio” e riavvio della complessa macchina tributaria. 
Quale immagine della Basilicata emerge da queste pagine? Una rappresentazione, tutto sommato, molto meno stereotipata di quanto si possa pensare. Infatti, pur con tutti i limiti evidenti di un’inchiesta condotta sostanzialmente a tavolino, senza adeguati strumenti di rilevazione, l’indagine del Gaudioso ebbe l’indubbio merito di essersi avvicinata a restituire un’immagine più realistica della Basilicata. 

L'antica Lucania. 20. La villa romana di Marsicovetere (Donato Donnino)

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