E nel presentare, dieci mesi dopo, i risultati lusinghieri di questo piccolo blog, mi sembra doveroso augurare ai nostri "5 lettori" un BUON 2014! Auguri!
Un blog sulle "microstorie" della Basilicata e sulla Storia che ad esse si intreccia.
martedì 31 dicembre 2013
lunedì 30 dicembre 2013
Andrea Federici di Tito, studioso di diritto
FONTE: L. GIUSTINIANI, Memorie istoriche degli scrittori legali del regno di Napoli, Napoli, Simoniana, 1787, t. II, pp. 7-8.
venerdì 20 dicembre 2013
giovedì 19 dicembre 2013
Enrico Pani Rossi e la sua descrizione della Basilicata
Enrico Pani Rossi (Faenza, 1835 – dopo il 1886), sottoprefetto a Melfi ed a Perugia, fu eletto deputato per la XV Legislatura nell'elezione del 29 ottobre 1882 nel collegio di Viterbo. Al termine del suo mandato in Basilicata nel 1866, iniziato due anni prima, Pani Rossi nel 1868 pubblicò il libro La Basilicata libri tre, studi politico amministrativi e di economia publica, in cui faceva tesoro dell’approfondita conoscenza della provincia maturata durante il suo incarico. Nell’introduzione, indirizzata esplicitamente a Gaspare Finali, allora Segretario Generale delle Finanze, l’autore esplicitava l’obiettivo della sua pubblicazione: egli notava come le leggi di governo non considerano affatto le singole diversità regionali, facendo sì che le disparità si acuissero ancor più dato che condizioni diverse venivano trattate allo stesso modo. Pertanto, Pani Rossi sostenne che al governo bastasse non conoscere i problemi delle singole realtà regionali per cancellarli; al contrario, nella sua visione, per unificare ed eguagliare le regioni della penisola italiana era necessario produrre provvedimenti differenti a seconda delle diverse necessità. La sua monografia sulla Basilicata aveva, in tal senso, la funzione di approfondire e denunciare i problemi della provincia, per permettere al Governo d’intervenire in modo oculato sulle questioni da essa sollevate. La descrizione di Pani Rossi spazia in diversi campi: da aspetti geografici ed economici, a quelli amministrativi e sociali, sino ad elementi culturali e sociali.
lunedì 16 dicembre 2013
Il sacco di Vaglio del 1861
Quelli che avevano fatto la Rivoluzione del 1860 erano uomini abituati ad agire e pronti ad intraprendere la difesa dei propri progetti in una vera e propria guerra civile, nella quale gli interessi e gli odi di parte si mescolarono ad “imprese” efferate, che di nobile e di patriottico non avevano nulla e che nella stessa, ampia, documentazione sono indicate come compiute da «evasi dalle carceri o portati dalla violenza e ferocia a comandare gli altri». Una naturale smitizzazione del brigantaggio, dunque, fondata su una solida e seria ricerca sui documenti che, soli, possono restituire l’immagine oggettiva ed obiettiva del “fenomeno brigantaggio”, aldilà delle scritture romanzate e romanzesche e di inopportune mitizzazioni di figure e sfondi.
Fenomeno che, come ricostruito da Maria Antonietta De Cristofaro in un suo recente libro sul sacco di Vaglio del 1861, assunse forme convulse, come risulta dal tam tam di lettere tra i sindaci dell’area dell’hinterland del capoluogo della provincia di Basilicata e dello stesso Prefetto De Rolland: dalla lettera del 7 novembre 1861, con cui il sindaco di Vaglio si rivolgeva a quello di Pietragalla, descrivendogli l’attacco dei briganti a Trivigno e il successivo massacro, alla missiva del Prefetto di Potenza, del 15 novembre, contenente l’informativa della sconfitta, a Grassano, dei briganti, diretti verso i boschi di Lagopesole, che dovevano essere presidiati dalla Guardia Nazionale pietragallese.
Il Racioppi, a tal proposito, ricordava sgomento quanto aveva visto come Segretario generale della provincia:
In questo eccidio sarebbero stati coinvolti tutti gli attori della rivoluzione vagliese: feriti o comunque gravemente colpiti molti componenti la famiglia del sindaco De Mattia, uccisi durante la strenua resistenza Giuseppe Iannelli e il sacerdote Nicola La Capra.
Lo stesso Crocco avrebbe ricordato con toni simili questo vero e proprio massacro, affermando, nella propria autobiografia:
Attacchiamo Vaglio paese a sei miglia da Potenza che resiste con ammirabile valore al nostro attacco. La minaccia di distruzione, se non si arrende, non fa che accrescere nei cittadini l'ardore della difesa; i nostri parlamentari sono accolti a fucilate; abbiamo diversi morti. Divisi in quattro colonne attacchiamo contemporaneamente da quattro parti, ed occupiamo il paese mentre nel convento, fortemente occupato, si continua a resistere. I nostri, inferociti dall'inaspettata difesa, uccidono quanti incontrano per via, uomini e donne, e danno fuoco al convento. Il paese è posto a saccheggio, chi più può più ruba. Lasciamo il convento in fiamme.
Eventi convulsi, così come avrebbe ricordato la pubblicistica qualche anno dopo, ricostruendo con sgomento una cronaca che non si era ancora fatta storia e che avrebbe lasciato ricordi indelebili nella memoria culturale basilicatese, come avrebbe ricordato Carlo Levi ancora settant’anni dopo, dall’altro lato della provincia di Basilicata.
Una memoria che, tramandata da cronisti e storici coevi, aveva a tal punto impressionato la coscienza nazionale che il deputato lucano Francesco Lovito, anch’egli tra i protagonisti del 1860, avrebbe affermato, il 9 dicembre dello stesso 1861, in Parlamento, che lo Stato era pressoché assente, nel generale tormento delle popolazioni. Anzi, l’esempio di Vaglio e di numerose battaglie sostenute dai locali contingenti di guardie nazionali stava a dimostrare che, nonostante l’esiguità delle forze, le popolazioni basilicatesi continuavano ad organizzare da sole la propria difesa, non dimenticando, ad appena un anno e mezzo dalla rivoluzione unitaria, di aver organizzato, diretto, reso possibile una rete associativa che continuava, di fatto, ad esistere.
Risulta utile, a tal proposito, citare uno stralcio del discorso del Lovito:
domenica 15 dicembre 2013
Paesi lucani. 10. Acerenza e i suoi feudatari in età moderna
Sorta sui cigli e nei fianchi di una rupe di tufo calcareo, Acerenza aveva una posizione importante dal punto di vista strategico, che dominava le antiche vie consolari e metteva in diretta comunicazione la Basilicata e la Capitanata.
Oltre alla posizione strategica, la città bradanica si era posta, fin dal X secolo, come centro di aggregazione, grazie al fatto che Alessandro II aveva elevato Acerenza al rango di sede metropolitica, comprendente le città di Venosa, Montemilone, Potenza, Tolve, Tricarico, Montepeloso, Gravina, Matera, Oblano, Turri, Tursi, Latiano, San Chirico, Oriolo. L’arcidiocesi aveva, tuttavia, registrato una fase di crisi tra la fine del XII e l’inizio del XII secolo, nel passaggio dalla dominazione normanna a quella sveva, conclusasi con l’elevazione di Matera a sede arcivescovile di dignità pari ad Acerenza, pur se la città continuava ad essere centro amministrativo della metropolia ed all’arcivescovo acheruntino era concesso il privilegio di decidere le variazioni di numero del collegio dei canonici delle città suffraganee, di effettuare periodicamente visite pastorali e di indire concili provinciali. A questo rinnovamento ed ampliamento di privilegi era seguita una fase di crescita urbana, organizzata intorno ai grandi poli religiosi, anche se molteplici furono anche, nel corso dell’età moderna, gli interventi di riqualificazione e di ampliamento, improntati ad un’efficace autorappresentazione del potere ecclesiastico.
Acerenza, inoltre, era stata Università feudale, possedimento di Covella Ruffo, moglie del duca di Sessa, tra il 1423 e il 1440, per poi passare in eredità al figlio Marino de Marzano tra il 1445 e il 1465. Solo il 18 agosto del 1465 Ferdinando I concesse ai cittadini di Acerenza la liberazione dal pagamento delle dodici onze pro custodia et guardia castri, decretandone la demanialità. La ristrutturazione di Acerenza, in senso autorappresentativo, fu avviata dai nuovi feudatari, i conti Ferrillo, venuti in possesso della città per un caso fortuito, dopo il sisma del 1456, quando la città era stata rasa al suolo ed erano morte circa 12000 persone. Dopo questo catastrofico evento, Sisto IV aveva deciso di dividere, per motivi economici, l’arcivescovado di Acerenza e Matera, mentre, nel 1479, Ferdinando I d’Aragona alienò la città, per 12.00 ducati, a Mazzeo Ferrillo.
La città, comunque, all’inizio del XVI secolo, visse, in occasione del matrimonio di Beatrice Ferrillo con Ferrante Orsini, il non semplice passaggio alla casa Orsini dei duchi di Gravina che, per gravi problemi finanziari, terminò nel 1563, quando il duca di Gravina dichiarò fallimento, vendendo il ducato a Galeazzo Pinelli, di origine genovese, che ottenne, in tal modo, il titolo di marchese di Tursi e duca di Acerenza. Dalle nozze di Galeazzo e Livia Squarciafico dei marchesi di Galatone nacque Cosimo (Napoli 1568-Padova 1602), tra l’altro corrispondente e protettore di Galileo. Con i discendenti di Cosimo Pinelli il feudo cominciò un lento e inarrestabile declino, che coinvolse anche Acerenza. La rotazione feudale, infatti, aveva creato una notevole instabilità economica ed un arresto dei lavori di ampliamento degli edifici e del tessuto urbano, anche a causa della mancanza della notevole committenza feudale.
Il declino dei Pinelli si acuì a partire da Galeazzo Francesco, marito di Giustiniana Pignatelli, figlia di Fabrizio marchese di Cerchiara, che, per sfuggire ai debiti, entrò in convento, mentre suo figlio Cosimo Pinelli junior portò alla completa rovina la proprietà, sicché la sua pronipote Anna Francesca Pinelli (nata a Belmonte nel 1702), principessa di Belmonte e duchessa di Acerenza, unica erede del duca Oronzo Pinelli , reggente della Vicaria, passò il titolo del feudo ad Antonio Pignatelli dei duchi di Belmonte, che l’avrebbero tenuta fino all’eversione della feudalità.
Risorgimento lucano. 13. Un sacerdote patriota: Nicola Mancusi di Avigliano
Cultura e pratica politica non furono le cifre del solo Risorgimento propriamente detto. Gli eventi del novembre 1861 lo dimostrano chiaramente.
Uomini e progetti continuarono ad andare avanti con costanza anche negli anni difficili immediatamente posteriori all’Unità; anni nei quali bisognò riconfigurarsi, non senza dolorose rinunce e non senza disinvolte ricollocazioni politiche e nei quali fenomeni eversivi trovarono in campo, pronti alla difesa di quanto raggiunto, gli uomini della rivoluzione per l’Unità. Oggi l’ampia ed articolata documentazione disponibile negli archivi, pubblici e privati, permette di ricostruire e leggere in modo nuovo fenomeni poco o superficialmente indagati come, appunto, le forme del legittimismo e dell’«antirivoluzione», a partire dai giorni del Plebiscito del 1861. Forme, queste, che sarebbero sfociate in quella vera e propria guerra civile rappresentata dal brigantaggio, che nel territorio di Basilicata ebbe forme endemiche e notevolmente cruente. Basti pensare che, tra il 1860 e il 1863, i briganti fucilati, feriti o arrestati furono ben 6219, colpevoli, di 1154 reati.
E, in questa “guerra di popolo”, gli uomini della rivoluzione del 1860 ebbero un ruolo notevole di trait d’union tra la gloriosa epopea dell’unificazione e la difficile, in questi primi anni drammatica, costruzione dello Stato unitario.
Del resto, erano uomini portatori di una cultura politica affinatasi dopo la rivoluzione del 1848, memore di errori e peculiarità di quell’associazionismo politico che si era radicato, in modi e forme sempre più compiute ed organizzate, durante tale fondamentale snodo. All’inizio del 1860, da Napoli si era progettato che «otto o dieci giorni pria del tempo in cui il Generale avrà determinato, e fatto conoscere, che una poderosa spedizione di armati entrerà nel continente, le Calabrie, le due Province di Teramo, e d’Aquila insorgeranno (…). A questa insurrezione terrà dietro l’insorgere della Basilicata», indicando, tra l’altro, in Albini, De Bonis, Petruccelli e La Capra gli uomini chiave per l’organizzazione dell’insurrezione «d’appoggio».
Infatti, la Basilicata era stata divisa in 12 «sottocentri», in una rete capillare, organizzata in maniera quasi geometrica, comprendente 11 comuni per sottocentro in quelli più ampi e strategicamente rilevanti (Rotonda, Senise, Tramutola, Corleto, Miglionico, Tricarico, Potenza, Avigliano), con soli 7/8 centri per Genzano e Castelsaraceno.
Non era un caso che la “maglia” di cerniera tra il Potentino ed il territorio bradanico fosse affidata al sacerdote Nicola Martinelli Mancusi, che fin dal 1857 aveva stretto rapporti con i circoli liberali napoletani. Ruolo fondamentale del Mancusi nel mantenere la presa su un’area ritenuta fondamentale nel collegamento tra il capoluogo e il nord della provincia.
In tale direzione, infatti, il Mancusi era stato incaricato di mantenere i rapporti tra alcuni altri sottocentri insurrezionali e di organizzare i comitati comunali. Risulta documentata, fin dai primissimi giorni successivi alla costituzione della rete insurrezionale, una sua missione di organizzazione dei subcomitati comunali da completarsi entro il 30 luglio. Infatti, il Mancusi, in una missiva indirizzata al Senise, riferiva dei suoi spostamenti nell’area del sottocentro di sua competenza: sembrerebbe che alcuni centri gravitanti su Potenza, tra i quali Acerenza e Pietragalla, vere porte verso la Puglia, dovessero essere di fatto inclusi nel sottocentro di Avigliano.
domenica 8 dicembre 2013
Giuseppe Forlenza, l'oculista di Napoleone (G. Salinardi)
Nato da Felice e Vita Pagano, Giuseppe Forlenza proveniva da una famiglia di medici: suo padre e i suoi zii Sebastiano e Giuseppe erano barbieri-chirurghi e flebotomisti di fiducia dei baroni Capece Minutolo di Ruoti. Venne mandato a frequentare il catechismo a Ruoti, in una scuola fondata dalla nobile famiglia e qui conobbe il principe Ferdinando Capece Minutolo, che ammirò l'interesse del giovane per gli studi.
Qualche anno dopo, a causa di problemi economici familiari, il principe gli assegnò un vitalizio per poter continuare gli studi a Napoli, frequentando corsi di chirurgia e, una volta terminati, fece viaggi d'istruzione in Sicilia, Malta e alcune isole della Grecia. Successivamente, Forlenza emigrò in Francia, divenendo allievo di Pierre Joseph Desault. Soggiornò due anni in Inghilterra, maturando esperienze presso il St.George's Hospital di Londra, diretto da John Hunter, e viaggiò anche in Olanda e Germania. Di ritorno in Francia, fu proprio Desault a sollecitarlo nella specializzazione in oculistica e, ben presto, Forlenza intraprese una brillante carriera.
Importanti furono soprattutto le sue osservazioni sui ciechi nati, sulla pupilla artificiale e sulle cataratte. Nel 1797, praticò un intervento oculistico presso una casa di riposo di Parigi, davanti ad una commissione nominata dall'Istituto e alcuni membri del governo, oltre alla presenza di studiosi francesi e stranieri. Nel 1798, ricevette l'incarico di chirurgo-oculista presso l'Hôtel des Invalides e l'Hôtel-Dieu di Parigi, curando i soldati napoleonici che avevano contratto malattie agli occhi durante la Campagna d'Egitto. Nel 1801, chiese ed ottenne il permesso del Ministero degli Interni francese di poter girare i vari ospedali della repubblica, operando per tutte le malattie della vista.
Inoltre insegnò prevenzione e cura delle patologie oftalmiche agli "Ufficiali di Salute", membri delle commissioni ospedaliere autorizzati alla professione medica senza aver conseguito un titolo accademico. Nel 1806, con decreto del Segretario di Stato, Forlenza venne nominato chirurgo oculista dei licei, delle scuole secondarie, degli ospizi civili e di tutti gli stabilimenti di beneficenza dei dipartimenti dell'impero francese. Morì il 22 luglio 1833 a Parigi.
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La cultura meridionale. 7. Contadini del Sud di Rocco Scotellaro
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