lunedì 16 dicembre 2013

Il sacco di Vaglio del 1861

Quelli che avevano fatto la Rivoluzione del 1860 erano uomini abituati ad agire e pronti ad intraprendere la difesa dei propri progetti in una vera e propria guerra civile, nella quale gli interessi e gli odi di parte si mescolarono ad “imprese” efferate, che di nobile e di patriottico non avevano nulla e che nella stessa, ampia, documentazione sono indicate come compiute da «evasi dalle carceri o portati dalla violenza e ferocia a comandare gli altri». Una naturale smitizzazione del brigantaggio, dunque, fondata su una solida e seria ricerca sui documenti che, soli, possono restituire l’immagine oggettiva ed obiettiva del “fenomeno brigantaggio”, aldilà delle scritture romanzate e romanzesche e di inopportune mitizzazioni di figure e sfondi.
Fenomeno che, come ricostruito da Maria Antonietta De Cristofaro in un suo recente libro sul sacco di Vaglio del 1861, assunse forme convulse, come risulta dal tam tam di lettere tra i sindaci dell’area dell’hinterland del capoluogo della provincia di Basilicata e dello stesso Prefetto De Rolland: dalla lettera del 7 novembre 1861, con cui il sindaco di Vaglio si rivolgeva a quello di Pietragalla, descrivendogli l’attacco dei briganti a Trivigno e il successivo massacro, alla missiva del Prefetto di Potenza, del 15 novembre, contenente l’informativa della sconfitta, a Grassano, dei briganti, diretti verso i boschi di Lagopesole, che dovevano essere presidiati dalla Guardia Nazionale pietragallese.
Il Racioppi, a tal proposito, ricordava sgomento quanto aveva visto come Segretario generale della provincia:


In questo eccidio sarebbero stati coinvolti tutti gli attori della rivoluzione vagliese: feriti o comunque gravemente colpiti molti componenti la famiglia del sindaco De Mattia, uccisi durante la strenua resistenza Giuseppe Iannelli e il sacerdote Nicola La Capra.
Lo stesso Crocco avrebbe ricordato con toni simili questo vero e proprio massacro, affermando, nella propria autobiografia:

Attacchiamo Vaglio paese a sei miglia da Potenza che resiste con ammirabile valore al nostro attacco. La minaccia di distruzione, se non si arrende, non fa che accrescere nei cittadini l'ardore della difesa; i nostri parlamentari sono accolti a fucilate; abbiamo diversi morti. Divisi in quattro colonne attacchiamo contemporaneamente da quattro parti, ed occupiamo il paese mentre nel convento, fortemente occupato, si continua a resistere. I nostri, inferociti dall'inaspettata difesa, uccidono quanti incontrano per via, uomini e donne, e danno fuoco al convento. Il paese è posto a saccheggio, chi più può più ruba. Lasciamo il convento in fiamme.

Eventi convulsi, così come avrebbe ricordato la pubblicistica qualche anno dopo, ricostruendo con sgomento una cronaca che non si era ancora fatta storia e che avrebbe lasciato ricordi indelebili nella memoria culturale basilicatese, come avrebbe ricordato Carlo Levi ancora settant’anni dopo, dall’altro lato della provincia di Basilicata.
Una memoria che, tramandata da cronisti e storici coevi, aveva a tal punto impressionato la coscienza nazionale che il deputato lucano Francesco Lovito, anch’egli tra i protagonisti del 1860, avrebbe affermato, il 9 dicembre dello stesso 1861, in Parlamento, che lo Stato era pressoché assente, nel generale tormento delle popolazioni. Anzi, l’esempio di Vaglio e di numerose battaglie sostenute dai locali contingenti di guardie nazionali stava a dimostrare che, nonostante l’esiguità delle forze, le popolazioni basilicatesi continuavano ad organizzare da sole la propria difesa, non dimenticando, ad appena un anno e mezzo dalla rivoluzione unitaria, di aver organizzato, diretto, reso possibile una rete associativa che continuava, di fatto, ad esistere.
Risulta utile, a tal proposito, citare uno stralcio del discorso del Lovito:




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