giovedì 31 dicembre 2015

La Basilicata moderna. 21. L'inizio del Settecento

Compresa tra il Principato Ultra a Nord-Ovest, Capitanata e Terra di Bari a Nord-Est, Terra d’Otranto e mar Ionio ad Est, Calabria Citra a Sud, mar Tirreno e Principato Citra, rispettivamente a Sud-Ovest ed Ovest, la Basilicata all’inizio del Settecento contava una popolazione complessiva di circa 250.000 abitanti, distribuiti in 116 luoghi abitati, solo 16 dei quali regi, non soggetti cioè a giurisdizione feudale, che ancora riguardava l’86% della popolazione . La città di Matera contava circa 13.000 abitanti ed era il centro abitato più popolato della provincia, mentre Rionero (ancora casale di Atella) ne contava 3.000 e Avigliano e Potenza rispettivamente avevano una popolazione di circa 6.000 e 8.000 abitanti.
La Basilicata, inoltre, era la più gravata, fra le dodici province del Regno, dal sistema feudale e dal fiscalismo. Oltre ad un’incisiva rete feudale, notevole era la presenza ecclesiastica, con 2.377 chiese “ricettizie”, di origine e carattere laicale, fulcro della locale attività agricola, con una composizione sociale prevalentemente costituita da braccianti e contadini, pastori, artigiani, piccola e media borghesia professionale legata alla terra.
In quest’ampia provincia, i Ripartimenti borbonici avevano una consistenza piuttosto omogenea. 
Quello di Tursi comprendeva 31 centri abitati e si spingeva da Montescaglioso e da Ferrandina, sino ai confini della Calabria e da Terranova del Pollino sino a Gallicchio . Quello di Maratea comprendeva 30 centri abitati e comprendeva le zone dalla costa tirrenica fino a Viggianello, a Miglionico e a Corleto Perticara . Quello di Tricarico, con 29 centri abitati, comprendeva Potenza e i paesi del basso Potentino, estendendosi sino a Pietrafesa e da Sasso sino ai centri dell’alta valle dell’Agri, da Montemurro a Tramutola. Il Ripartimento di Melfi, infine, comprendeva 28 centri abitati, a nord di Potenza . 
Oltre a questi centri. Risultavano quasi delle énclaves i feudi di San Basile e Policoro, situati nel Ripartimento di Tursi.
I 116 centri abitati distribuiti nei 4 Ripartimenti della Basilicata erano, comunque, piccoli nuclei abitati con una popolazione inferiore ai mille abitanti. Oltre a Matera (13382 abitanti), Potenza (8000), Lauria (6000) soltanto tre centri superavano i 5000 abitanti: Melfi (5523) , Avigliano (5500) ; Ferrandina (5000) . 
Sette superavano i 4000 abitanti: Laurenzana (4800) ; Pisticci e Tursi (4200) ; Muro, Rivello, Tricarico e Viggiano (4000).
Sei i 3000: Calvello e Venosa (3700) ; Moliterno (3500) ; San Fele (3200) ; Montepeloso (3071) ; Rionero (3050).

martedì 29 dicembre 2015

Francesco Mario Pagano. 5. L'Agamennone (trascrizione di Giuseppe Ricciardone e Ambrogio Quinto)

L’AGAMENNONE

MONODRAMMA

LIRICO



Tant’ empietà falsa pietà produce.



A L  L E T T O R E .

Il celebre Gian-Giacomo Rousseau, raro ingegno, diede alla luce, come è noto a ciascuno, la scena lirica del Pigmalione ; nuovo, e maraviglioso genere drammatico, in cui la semplice declamazione vien interrotta dal pantomimo, accompagnato dalla musica strumentale, la quale continua l’azione, ed esprime le diverse situazioni dell’ affetto, nelle quali ritrovasi l’Attore. Felice invenzione, che la musica alla declamazione in nuova guìsa innesta, dandole così un indicibile forza, onde l’animo più profondamente riceve le vive, e tenere impressione degli affetti.
      Ma in cotesta bella invenzione al filosofo Ginevrino precedè di mol-to l’italiano Giuseppe Malatesta, che nel 1677 impresse in Roma il suo Rodrigo , monologo a tre atti, che l’Allacci nella Sua Drammaturgia chiama unico in suo genere .
Sì fatto monologo però venne interamente cantato, essendo diviso in recì-tatìvo, ed in arie, onde vien intitolato Dramma per musica. Per essere volgarmente ignoro l’italiano monologo, il Rousseau è da tutti l’inventore di tal melodramma riputato. I Tedeschi emulando la gloria della scena francese, hanno arricchito il di loro teatro di due somiglianti monodrammi, uno, che ha per titolo l’Arianna, lavoro del Signor En-gel , e del Signor Brandes, e l’altro, che è d’assai più pregevole, opera del Signor Gotter, che contiene la favola di Medea .
//74//  Or volendo io nella mia padria trasportare una bellezza, na-ta in suolo straniero, o volendo piuttosto coltivare un germe, che allignò prima tra noi, presento all’Italia l’interessante azione di AGAMEN-NONE IN AULIDE in quello mio monologo, scritto non già in prosa, come il Pigmalione, ma bensì in verso sciolto. Poiché mi è sembrata sconvenevole cosa ricercare l’esterior soccorso della musica, trascurando il nativo, e l’interno dell’armonia de’ versi. Io non Fo qui l’apologia del monodramma. Alle opposizioni, che se gli fanno in iscritto, risponde il fatto. L’esperienza ci fa vedere, che quando somiglianti produzioni sia-no ben eseguite, l’ Uditore s’ interessa, e si commuove. E tutto ciò, che sulle scene interessa, disprezza la fredda critica, e vien applaudito da coloro, che accoppiano mente e cuore. Ma di ciò nulla di più, avendone diffusamente ragionato nel discorso sul teatro, che non è per anche im-presso. Soggiungo soltanto, che hammi animato a dar fuora questa mia quaisiasi produzione una pruova, che in un picciol teatrino ne feci. Ben-chè mi fossi valuto di un centone di musica, non fu però recitato senz’ alcuno effetto. Mi voglio quindi lusingare, che se verrà ben eseguito, sull’italiane scene, meritar voglia il compatimento almeno del publico. Del resto, se questo mio Dramma non ha potuto tener dietro alla gloria di quelli, che in tal genere vennero finora dati alla luce, non mi si potrà per certo negare il pregio almeno, di essere stato in Italia il primo a ten-tare cotesto nuovo genere Dram- //75// Drammatico, ad eccitare gl’ Italiani ingegni a coltivarlo con quella felicità medesima, con cui finora han prodotto i capi d’opera in ogni parte della letteratura. Io son con-tento appieno, se comunicar potrò qualsiasi picciolo moto al profresso del gusto nel mia patria.














//76// La scena rappresenta il Campo de’ Greci in Aulide, nel qua-le veggonsi molte tende de’ Greci Duci; e avanti di tutte le altre la ten-da maggiore di Agamennone. Nel mezzo del Campo si mira un’ ara con simulacro di Diana; dalla parte opposta dee comparire veduta di mare con molti legni.




























//77//

( Agamennone, durando ancor la notte, ritrovasi seduto avanti la pro-pria tenda, appoggiato ad un tavolino, su cui arde picciol lume: giace per qualche tempo nell’atteggiamento di una profonda meditazione, e di un’ intenso dolore, quindi si leva, esprime l’interna agitazione, e guardando il Cielo, e intorno intorno il campo, dice )

L
ontano è ancor il dì. Regna nel Campo
Profonda notte, e placido riposo.
Ma le palpebre tue chiuder non puoi,
Agamennon, d’Atreo funesta prole,
Afflitto padre, e misero Regnante.
( Dà pochi passi verso le tende degli altri Duci, esprimendo il duolo, ed indi lo sdegno )
Ah riposate pur in dolce pace,
Superbi Duci, e voi feroci squadre,
Mentre il tradito amor paterno in feno
Mi squarcia il core, e mentre ognor m’appella
Il più spietato Genitor crudele.
Col sangue mio comprate le tranquille
Placide notti, e lo spirar de’ venti,
Onde approdare alla Troiana Terra.
( Esprime, che non permetterà il sacrifizio d’Ifigenia, poi si attesta in atto di pensare, addita, che il Cielo lo domanda, e rimettendosi al di-vino volere )
Del Ciel si adempia il gran decreto eterno.
( Dal dolore fa passaggio ad un fisso pensiero, ed all’orrore )
  //78//
Vittime umane, e di mia figlia il sangue
Il Ciel domanda per placar suo sdegno!
Di un Nume irato la ministra calma
I Greci legni si gran tempo arresta
Qui d’ Aulide nel mar, immobil refo,
Che più non ponno alle Trojane rive
Recar la gran vendetta un dì giurata.
Di cruda Deità sull’ ara atroce,
Su l’ ara di Diana ei vuol svenata
Ifigenia mia figlia, e chiede ancora
Di un parricidio il Genitor ministro!
( Sentimento misto di orrore, e di sdegno. )
E a questo prezzo il veleggiar concede!
( Afflizione, e rimprovero )
Io stesso, oimè, vergar dovei quel foglio,
Che ne’ finti caratteri l’inganno
Fatale ascose. In Aulide la figlia
Col pretesto chiamai delle bramate
Nozze di Achille, per svenar fu l’ara
L’infelice da me delusa. Oh Dio!
Della natura i più secrati nomi
Ho profanato.
( Inorridendo, e rimproverandosi. )
           E nel vergar quel foglio,
Che in se raccolse il tradimento orrendo,
Non si arrestò la scelerata mano ?
Inorridita non fuggì la penna ?
( Dimostra di nuovo la risoluzione di opporsi alla morte della figlia, quindi rivolge nell’ animo il potere e il comando de’ Numi )
Il Ciel parlò. Chinar convien la fronte.
( Riflessione )
//79//
Ma qual mortale nel consiglio eterno
Di Giove siede, e svela i gran decreti ?
( Passa in un sentimento d’ incredulità, e di disprezzo )
Il superbo Calcante, a cui se togli
Le sacre bende, e la Tiara augusta,
Con cui del volgo al cieco sguardo impone,
Il più vil de’ mortali in lui ravvisi,
Un ardito impostor, e fortunato,
Fabro di frode, e di felice inganno.
Sol di natura e di ragion costante
Coll’ infallibil voce a noi favella
Della natura, e di ragion l’Autore.
Questi dell’alma mia teneri sensi,
Di padre, e di conforte il dolce affetto,
E la pietà, che del mio sangue io sento,
Sono voci del Ciel, sono di Dio
Le volontà, che mai mutar non ponno.
( Si risolve a scrivere un foglio per far ritornare indietro la figlia, e si accosta al tavolino. )
L’ empio comando si rivochi. Un foglio
L’arcan di morte a Clitennestra sveli,
Onde da quest’ orribile soggiorno
Di morte, e di terror il piè rimeni
Colla mia figlia nell’Argivo suolo.
( Si siede a scrivere ondeggiando sempre tra la tenerezza, che lo deter-mina a compiere la lettera, e la gloria, che l’arresta, e gli fa sospendere più volte la mano )
Sovrano ingiusto, e cittadino ingrato
Che penso mai, che fo ?
//80//
( Si alza, fa alcuni passi, poi pensoso si arresta )
                    Quell’empio inganno
La cara figlia a consacrar mi sforza.
Ma ben da folli, ed adorati errori
Sovente pende il gran destin de’ Regni.
Al par che le tempeste son le calme
Della natura stabili vincede.
Ma il cieco volgo, a cui l’ordin s’asconde
Dell’ universo, i lieti, o tristi eventi
Ripete dal favor, o dallo sdegno
De’ Numi; e fu l’error fonda la base
Dell’ empio Regno l’ impostor felice.
Incresperà del mar gl’ immensi campi
Tra pochi giorni il mobil vento. Intanto
Se al cieco error m’oppongo, a’ patrj lidi
Gli stanchi Greci volgeran le prore;
E per mia colpa l’alta impresa spenta
Al volgo sembrerà.
( Si arresta avanti un tavolino, sul quale vi ha lo scettro, e la corona, e considerando que’ cari oggetti )
               Dell’ Asia doma
Abbandonar dovrò l’eccelso Impero !
E de’ crescenti allori i miei rivali
Fregiando il crine, io rimarrò negletto !
( Sentimento di gloria a rimprovero misto )
La gloria Argiva, e ‘l ben comune al mio
Privato affetto consacrar vedranno
Le Greche genti, e le Città dell’ Asia ?
( L’ istesso eroico sentimento )
Dal Barbaro soffrir scorno, e vergogna
//81//
Dovrà la Grecia per viltà del figlio
Del glorioso Atreo ?
( Sentimento di rimprovero, e di vergogna )
                 Che mai diranno
I posteri di me ? Qual onta eterna
La luce covrirà del nome mio ?
( Si accosta al tavolino, prende il foglio, e lo lacera in più pezzi. )
Della mia gloria tu fatal nemico,
O monumento di viltà, perisci,
Perisci infame foglio, che m’ involi
Dell’ atto generoso il merto.
( Pentimento, e vergogna. )
                      Covra
La mia viltade sempiterno oblio.
( Compiacenza figlia della immaginata futura gloria. )
Nella più tarda età fra le contrade
Dell’alma Grecia da pudiche spose
Lode il mio nome avrà. Crudel vendetta
Fece il gran Re del nostro offeso onore;
Dell’ impudico adultero le fiamme
Nelle fiamme di Troja il forte spense:
Festose elle diranno; e l’ ombra mia
Ne andrà superba tra famosi eroi.
( Passa di nuovo alla riflessione, indi con orrore s’ intenerisce rappre-sentandosi il sagrifizio. )
E intanto il Genitor la propria figlia
Sospinge all’ara, e il bel candido seno
Suppone ei stesso al già cadente ferro !
E dispietato ascolta lei, che fioca.
Gli dice: O Padre, ah per pietà m’ aita;
//82//
La man paterna in mio soccorso stendi,
Salvami padre. Dalla moglie ascolto
Rimproverarmi il mio furor: Son queste
Le sacre tede? Il genitor le appresta?
E presente farà la Madre ancora
All’imeneo di morte? O mesta voce,
Che mi rimbombi flebile sul core!
( Venendogli al pensiero le antiche paterne tenerezze, esprime un sen-timento misto di piacere, e di afflizione )
Dolce figlia, dal cui bel labro intesi
La prima volta nominarmi padre,
Tu pargoletta un dì sulle mie braccia
Lieta poggiando mi stendevi il volto
Le tenerelle mani, e carezzavi
Con innocente riso le mie guance;
Ed al mio labro cari baci impressi
Eran dal labro tuo, disnodando
I primi accenti, il genitor chiamava.
( s’immagina le felicità sperate e svanite )
Soave speme ( ah lusinghiera, e vana! )
Allor nutriva il cor, che un giorno unita
Nel fior dè tuoi begli anni a degno sposo
Trà più potenti Re di Grecia eletto,
Tu rinnovar dovevi né tuoi figli
Il viver mio al tramontar vicino.
( Dalla tenerezza passa ad un soffocante dolore )
Ma si non piacque al Cielo. Ecco tu mori;
Ed io del tuo morir son la cagione.
Trafitta il petto già spirar ti veggio.
Veggio sgorgar quel puro sangue; e miro
Sul tuo pallido viso abbandonata
  La
//83//
La tradita consorte un mar di pianto
Versar, Ahi qual terrore? Oh Dio! Non posso
Soffrìr l’aspetto di sì sera imago.
( Contrasto del paterno amore coll’ambizione )
Ah non mi regge il cor; paterno affetto
Vincesti alfin
( Si siede di nuovo al tavolino, e scrive la seconda lettera. Indi suggel-landola, si porta a svegliare lo scudiero )
Sorgi Cleon, ti sveglia.
Del tuo Signor la voce è che ti desta,
Dell’infelice tuo Signor, che teco
Or cangeria destin, che van fallace
Splendor al volgo fa sembrar beato:
Ma il regio serto, ed il purpureo ammanto
Asconde spesso a chi l’esterno mira
Il più dolente, e misero mortale.
( Il servo si scuote dal sonno, Agamennone gli consegna la lettera )
Odi: da te la fedeltà domando,
E l’usato tuo zelo; in questo istante
Parti ben tosto, e di volar t’ingegna.
Incontra sul cammin la mia consorte,
E questo foglio nella man sua porgi.
( Accompagna il Servo cogli occhi, esprime l’agitazione )
Già dalle Greche tende esser lontano
Dovrà Cleone.
( Continuano le smanie, e la sospensione di Animo )
      O quale affanno, oh Dio!
Corri, t’affretta, o tu, donde dipende
Di
//84//
Di mia vita il destin.
( Guardando verso la via presa dal servo si agita, poi tranquillandosi )
                Mio cor, tranquillo
Esser già puoi. Da questo fiero campo
Lontana e già la mia diletta figlia
( Si ferma a pensare, dimostra il sospetto, e L’agitazione. )
Ma se diversa via? Se il crudo Ulisse,
Ingombro ognor di rei sospetti, il servo
Arresti in sul cammin? Mio Dio, che sento!
Lo strepito di un cocchio.
( Si reca verso le scene, e smanioso guarda Dentro )
              Ah no: m’immagino.
Fallaci oggetti il mio timor dipinge.
( Si Conforta )
Speriamo pur. Non son gli Dei già quali
Li finge l’impostor di sangue ingordi,
E di vendetta. La bontà dè Numi
E’ l’alto pregio, che maggior li rende.
L’empio mortal, i vizj suoi ferini
In quell’idol dipinse, che sua mente
Cieca formò. Nel Ciel ira, e furore
Non hanno albergo, e sol pietà vi regna.
( vede nascer la nuova luce, si rallegra, e rivolgendosi all’oriente si compone in atto d’uom, che adora )
Già spunta in Cielo il matutino raggio.
Santa luce, per cui nel mondo piove
Il benigno valor de’ sommi Dei,
Col nuovo più lieta forte arreca
A un
//85//
A un Re, che opprime l’empia man del Fato.
( Si pone a sedere su di un poggio in un abbandonamento di forze )
Delle tempeste in sen, quale nel petto
Serenità non aspettata io provo!
Tranquilla pace, che al dolor succedi,
Sei tu di un raggio di speranza figlia;
Ovver già stanco il cor perde de’ mali
Per soverchio dolor il senso, e gode
Una fallace calma
( Si alza palesando la speranza, e l’allegrezza nel volto )
  Ah no: gli Dei
Senton di me pietà. Lungi dal campo
La cara figlia è certo.
( Mirando dentro le scene, si arresta, cangia colore, indi alzando la voce )
O ciel! Che vedo?
Un cocchio. E’ Clitennestra, è Ifigenia.
O speranze deluse! O Dei spietati !
( Si appoggia ad un angolo della tenda, Ifigenia sopraggiunge festosa, e lieta, ei la guarda, ed esprime il dolore, ed ella senza avvedersene con gioja da lontano )
IFIGENIA.
Padre:
AGAMENNONE,
O momento!
IFIGENIA
A cenni tuoi la figlia,
Prevenendo la Madre, ecco sen viene.
( Ifigenia si accosta per abbracciare il padre, di qua-//86// Quale nel trasporto del dolore rivolge il mesto Volto, e la respinge. Ella attonita, ed immobile )
Numi! E gli amplessi il genitor mi niega!
Da me rivolge il guardo, e mi rispinge!
Qual fallo, o genitor? . .
( Ifigenia si gitta a’ piedi del padre, egli la Solleva )
AGAMENNONE
Figlia, deh sorgi.
( Agamennone intenerito guarda Ifigenia ed ella sta confusa, ed addo-lorata )
Paterno affetto, ah sì ti sento in seno.
Crudo dover, che alla natura opponi
Dura necessità!
( Vinto dalla tenerezza si slancia per abbracciarla )
Più non resisto.
Figlia. . . ( Si arresta, indi in disparte )
  Che fo! Dal crin mi svello il serto.
( Ondeggiando tra varj affetti )
O regno! O figlia! Qual contrasto, oh Dio!
Nell’agitato sen. Crudel Calcante.
Tanta empietà falsa pietà produce!
IFIGENIA
Gelo d’orror. Mortale affanno il Padre
Ingombra: E che farà? Figlia di Giove.
Tu l’amoroso Genitor difendi.
( Vince l’ambizione, compone il viso, e si sforza di coprire l’interne agitazioni )
AGAMENNONE
Penose cure, figlia mia, compagne
Del
//87//
Del Regno sono, e a dolci affetti il tempo
Froda l’incarco del commesso impero.
Per poco in quella tenda va, mi attendi.
IFIGENIA
Ogni tuo cenno d’ubbidir mi è caro.
( Ifigenia nel partire si rivolge a considerare il mesto volto del padre, che con trasporti di tenerezza la riguarda, e quindi ella prorompe nel Pianto, ed asciugandosi gli occhi, e sospirando parte )
AGAMENNONE.
Fero a morir s’invia, figlia infelice.
( Rimane fisso nel doloroso pensiero della morte della figlia )
Né può donarti il genitor soccorso?
( Rivolgendo varj pensieri; risolve al fine ).
Tutto si tenti; e per salvar la figlia
( S’incammina veso la tenda, ove inviossi la Figlia, e guardando den-tro )
Ahimè! Calcante col crudele Ulisse
Le sono al fianco:
( Pensa un poco, e risoluto )
   A viva forza io solo
La figlia strapperò dall’empie mani.
( Si rivolge ad uno de’ suoi scudieri )
Occorri intanto, e Clitennestra lungi
Dalla tragica scena il piè trattenga.
( Si risolve a difendere la figlia )
Tu non morrai. Finchè di vita, o figlia.
Lo spirto in petto avrò, difesa sia
La paterna ragion, la cara prole,
Su-//88//Su su scudieri. L’armi a me recate
La lancia, fu, correte, e scudo a spada..
E l’elmo. Pria, che il sangue di mia figlia
Tinga l’ara crudel, di Greco sangue
Si versi un fiume, ed al Trojan s’appressi
Grata tragedia
( Veste l’armi, che gli son recate dagli scudieri, indi incamminandosi verso le tende susseguenti alla sua, fa cenno agli Argivi suoi vassalli )
I passi miei saguite,
O si salvi la figlia, o si perisca.
( si veggono molti soldati, che sommessamente parlano tra loro, ma niuno ubbidisce )
Tutto è in tumulto. Reo furor rebelle
Tra miei s’apprese; l’emula Tiara
Della corona nel vantar del Cielo.
Il dritto, crolla i troni, e i regni abbatte.
Serpe l’errore…
( Viene interrotto da una lugubre marcia, della quale si odono poche battute )
Misero! qual suono
Nunzio d’orror, e di delitto! O segno
Di stragge, e sangue!
( Ripiglia la marcia, si veggono comparire Ulisse con gli altri duci alla testa di una schiera armata, indi Calcante seguito da minori Mini-stri, co’ sacri vasi, fuoco, ed altro al Sacrificio appartenente. Dipoi tra guardie Ifigenia )
//89//
Oh vista! Ah quale oggetto
La sacra pompa, i rei ministri, il fuoco,
Le schiere, i duci, e l’infelice figlia….
( Avanzandosi Ifigenia coi capelli sparsi, e colla Corona di fiori in te-sta come vittima, Agamennone la guarda con empito di paterno amo-re )
O troppo dolce, e sventurato oggetto
Del mio tenero amor, mia cara figlia,
O parte del mio sen, viscere mie.
( Cade nel deliquio, sieguono a suon di marcia Altre schiere, Aga-mennone ripigliando la lena, assalito dal rimorso )
O di regnar funesta, ed empia sete,
Che del più caro sangue ognor ti sazj!
Peran d’onor, di gloria i vani nomi,
Che struggon di natura i dolci affetti.
( Vien trasportato dallo sdegno, e dal furore )
Il suo valor nel tormentarmi il fato
Tutto spossò. L’onnipotenza Giove
Contro un mortale di provar si adopra.
( Continuando la marcia, si veggono comparire altri squadroni, A-gamennone si abbandona ad un disperato dolore )
Alla tomba fatal, di morte al Regno,
De’ sventurati estremo, unico asilo
O rio dolore, un infelice spingi.
Affretta il colpo: nell’eterna notte
Del sepolcro trovar la pace io spero.
( Si ordinano le schiere in un semicerchio, Agamennone delirando e smaniando per l’interno dolore, guarda teneramente la figlia )
Figlia, diletta figlia, lieta mori,
Che //90// Che l’empio genitor l’orme tue care
Sul nero fiume seguirà tra poco.
L’acerba doglia prenderà vendetta
Dell’offesa natura. O crudo mostro!
Spietato padre, che a morir la figlia
Trasse dal sen della sua propria madre.
( I Sacerdoti destano la fiamma, preparano i Sacri vasi, e le altre cose necessarie al sacrificio. Agamennone guarda con orrore, e poi )
Il corso indietro volgi, o sol, ricalca
L’antica via, che additò d’Atreo
L’empio furor, del sangue mio retaggio.
A tanto orror t’invola. O sol, nascondi
La cara luce, e ascondila per sempre
Agli occhi miei, di più mirarla indegni.
( Continuandosi a preparare il sacrificio, Ifigenia vien situata su l’ara; il sacerdote prende in mano la scure, e la solleva in aria; Aga-mennone rivolgendo lo sguardo verso la figlia )
Sull’ara è posta, ecco il fatal momento.
L’empio ministro il fiero braccio innalza,
La bipenne crudel, oh Dio! Già scende.
( Agamennone si covre il volto col manto; si turba il Cielo; siegue la tempesta; odesi un tuono preceduto dal lampo, dal quale vien arrestato in aria il braccio del Sacerdote: mirasi una serva, che inimorita si cac-cia tra le squadre ed i Sacerdoti )
CALCANTE
Deh ferma, non ferir. La Dea ricusa
Vittima umana. Il suo voler palesa
Del//91//Della natura l’agitato impero.
Questa, che addita, bianca cerva, accetta
Della Donzella in vece, Il mar, che immobile
Rendea calma fatale, agita il vento,
Che i Greci legni a veleggiar invita.
( Agamennone, che al tuono, ed al parlar di Calcante si è riscosso, con empito di gioja corre verso Ifigenia, e questa verso di lui )
AGAMENNONE.
Ah cara figlia.
IFIGENIA
Ah genitor diletto.
( Formano varj quadri, abbracciandosi insieme, e ringraziando il Cielo, e tutto l’esercito esprime la gioja. )
AGAMENNONE
La gioja… alla parola…. Il varco chiude…
O santi Dei del Ciel, Numi, L’amore
Dell’uomo son caratteri veraci
Della Divina volontà, che adoro.

F I N E .

giovedì 17 dicembre 2015

La Basilicata medievale. 7. Strade e infrastrutture



La via Herculea (detta anche Herculia o Erculea) era, probabilmente, la principale arteria di collegamento della Basilicata medievale. Essa collegava il Sannio alla Lucania. Realizzata alla fine del III secolo per volere di Diocleziano, deve il suo nome a Massimiano Erculio, cesare ed augusto durante la Tetrarchia, il quale ne curò il completamento.
L'arteria si staccava dalla via Traiana nel Sannio meridionale all'altezza della città di Aequum Tuticum, per procedere in direzione sud, verso il cuore della Lucania. Qui toccava i centri di Venusia, dove incrociava la via Appia, Potentia e Grumentum. Ad oggi l'andamento dell'intero tracciato non è stato ancora del tutto svelato. In particolare gli studiosi sono particolarmente incerti sulla direzione presa dalla strada dopo Grumentum. L'ipotesi più condivisa, già a partire da indagini del Ottocento, vedrebbe la via Herculia proseguire verso sud, passando per la stazione di Semuncla, fino alla città di Nerulum, nelle cui vicinanze sarebbe confluita nella Via Popilia, Capua-Regium.
Altri studiosi, invece, credono che, arrivata a Grumentum, l'arteria volgesse ad est in direzione di Heraclea sulle sponde del Mar Ionio. Indipendentemente da ciò, viene considerata la strada di maggiore importanza che percorreva la Lucania in epoca romana visto il diretto collegamento con le vie consolari Appia e Traiana.
 
FONTE: C. CASTRONOVI-P. RESCIO, La Vita quotidiana in Basilicata nell'Età Romana, Potenza, Consiglio Regionale della Basilicata, 2004.

giovedì 10 dicembre 2015

La famiglia Gesualdo e Venosa. 1. Fabrizio Gesualdo

Recenti riattenzioni storiografiche per ricostruzioni e riletture del pur debole sistema urbano del Mezzogiorno e della Basilicata, con specifiche evidenziazioni relative non solo ai luoghi di esercizio del potere, ma anche sugli spazi ed i protagonisti di promozione e diffusione di iniziative e attività culturali fuori dai consolidati contesti, rendono quanto mai  rilevante il ruolo che, in tale direzione, fu svolto, tra la metà del Cinquecento ed i primi decenni del Seicento, dai Gesualdo nell’area al centro di questo volume.
E ciò in particolare a Venosa, che toccava, nel ventennio del mandato del vescovo Andrea Perbenedetti, il suo periodo di massimo splendore, con unincidenza notevolissima del potere feudale dei Gesualdo, che attuavano una politica di laicizzazione culturale in aperto contrasto con la rigida applicazione dei decreti tridentini promossa dalla Chiesa. Del resto, notevole era stato il potere feudale nella città oraziana, fin da quando Pirro del Balzo, duca dAndria, aveva ricevuto dalla moglie, Maria Donata Orsini, figlia di Gabriele, contessa di Montescaglioso, uno Stato ricchissimo, costituito da città e terre, fra cui Acerra, Guardialombarda, Lacedonia, Lavello e appunto Venosa, con il titolo di duca. Qui il del Balzo fece costruire il Castello (dal 1460 al 1470), distruggendo la preesistente cattedrale cittadina, che fece erigere nuovamente - in posizione significativamente decentrata rispetto allabitato - con lavori terminati solo nel 1502.
Incarcerato il del Balzo, coinvolto nella congiura dei baroni del 1485, Venosa era passata al regio demanio, rimanendo città regia fino a quando Ferdinando il Cattolico la concesse a Consalvo de Cordova come premio della conquista del Regno di Napoli contro i francesi del duca di Nemours (1503), finché Luigi iv Gesualdo al titolo di conte di Conza aggiunse, nel 1561, il titolo di principe di Venosa, che trasmise al figlio Fabrizio.
Primo frutto di questo fertile clima culturale era stata l'opera, a metà strada tra descrizione della città e storia cittadina, Discrittione della città di Venosa, sito e qualità di essa, scritta il 28 febbraio 1584 da Achille Cappellano, vicario generale del vescovo Giovanni Tommaso Sanfelice dal 1583 al 1585, primicerio e parroco di San Marco in Venosa nel 1589 e studioso di diritto sotto la guida di Scipione di Bella e di Francesco Gruosso12. Proprio in quellanno, tra laltro, Fabrizio Gesualdo entrava in Venosa per prendere possesso del feudo:

nellanno 1584, del mese di ottobre, a tempo fe lintrata in Venusa, per il possesso del principato lEccellentia di D. Fabritio Gesualdo con lIll.mo et R.mo Cardinale suo fratello, si serui di detto baldacchino, e uolse detta università che dodici gentiluomini della città, nellentrare di detto Principe et Ill.mo Cardinale, se ritrouassero con detto baldacchino nella porta della città vicino la piazza, et accompagnassero quelli fino alla cathedrale, dove si ferno le solennità ordinate nel pontificale, e se recitorno uarii poemi et orationi, tanto per la città dove erano eretti archi trionfali, quanto nella cathedrale, dove detti Signori e Ecc.mi dedero grata audienza a tutti coloro che recitauano. Nellintrare della città fu spiegato detto baldacchino, e Federico Maranta all hora mastro giurato di detta città pigliò le redine del  caualla dell Eccelentia del Principe e Gio. Andrea Costanzo allhora erario pigliò le retine del cauallo di detto Ill.mo Cardinale. Il baldacchino il portorno il Dottore Donato Porfido, il Dottore Ascanio Cenna, il Dottor Gio. Battista Maranta, il Medico Gio. Battista Cafaro, Marco Aurelio Giustiniani, Manilio Cappellano, Gioan Francesco Barbiano, Horatio Caputi, Angelo Solimene, Roberto Piumbarolo, Bartholomeo d Aytardis et Augustino Fenice. E furno dodeci, perché dodeci bastoni retiene detto baldacchino.

Ed allentrata del principe Fabrizio, come duso, il nuovo feudatario aveva soddisfatto alcune richieste del locale patriziato a proposito dellUniversità:

a t(em)po l Eccelentia del Principe Don Fabritio Gesualdo, bona memoria piglio il possesso di detta citta con l Ecc(ellentissi)mo et R(euerendissi)mo Cardinale suo fratello si fe co(n)test(atio)ne tra Lm Vinersita e detto Ecc(ellentissi)mo S(igno)re che l officio di mastro giurato se eligesse ognanno in persona di uno Nobile di detta citta e che li dodeci Eletti ch hanno da gouernar(e) q(ue)lla sei siano Nobili ,e, de nobilm(en)te uiuano ,e, sei altri siano del populo.

mercoledì 2 dicembre 2015

Il Dizionario Biografico degli Educatori presentato a Potenza

Giovedì 26 novembre, alle ore 11, nell'Università degli Studi della Basilicata (sede di Potenza), in occasione della pubblicazione del Dizionario Biografico dell’Educazione (1800-2000), diretto da Giorgio Chiosso e Roberto Sani (Milano, Editrice Bibliografica, 2 voll., 2013), si è tenuto un seminario di studio dal titolo Educatori e istituzioni scolastiche in Italia. Percorsi, bilanci e prospettive d’indagine.
L'apertura dei lavori, coordinati dal prof. Paolo Augusto Masullo (Università degli Studi della Basilicata Direttore Dipartimento di Scienze Umane), ha visto gli indirizzi di saluto della prof.ssa Aurelia Sole, Magnifica Rettrice Università degli Studi della Basilicata, del prof. Claudio De Luca (Università degli Studi della Basilicata, Coordinatore del Corso di Laurea in Scienze della Formazione Primaria), del prof. Antonio Lerra (Università degli Studi della Basilicata Presidente della Deputazione Lucana di Storia Patria) e della dott.ssa Patrizia Minardi (Regione Basilicata, Dirigente Ufficio Sistemi culturali e turistici, Cooperazione internazionale). Agli interventi sono seguiti gli interventi dei proff. Alberto Barausse, Roberto Sani e Anna Ascenzi dell'Università degli Studi di Macerata e della prof.ssa Michela d'Alessio, dell'Università degli Studi della Basilicata. Il "Dizionario", un progetto di ricerca finanziato dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, è nato dalla collaborazione di vari atenei della Penisola e ormai prossimo alla pubblicazione, costituisce, invece, un vero e proprio fiore all’occhiello del lavoro svolto all’interno del Centro. Si tratta, in pratica, di un dizionario cartaceo e su sopporto informatico contenente il profilo biografico e bibliografico di tutti quegli educatori, quei pedagogisti e quegli scrittori per l’infanzia vissuti nel XIX e XX secolo e che hanno influenzato, con le proprie opere, idee e metodi, la storia dell’educazione, la storia della pedagogia e della letteratura per l’infanzia del nostro Paese.
Un interessante seminario, questo, che, si spera, venga implementato anche con la ricerca svolta dalla Deputazione di Storia Patria per la Lucania che, come evidenziato dal suo Presidente, il prof. Antonio Lerra, opera attivamente anche in questo contesto con apposito gruppo di ricerca su scuole ed educatori in Età moderna e contemporanea.

La cultura meridionale. 7. Contadini del Sud di Rocco Scotellaro

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