Il primo Novecento costituì un momento di passaggio fondamentale verso la modernità per la Basilicata: proprio nei primi anni del nuovo secolo, infatti, si posero le basi da cui spiccò il volo (al netto delle guerre mondiali e, in parte, del periodo fascista) la nazione. Proprio nel limitare della crisi di fine secolo, iniziarono a delinearsi nuovi assetti, in una fase politica che tentava l’avvio dello sviluppo capitalistico e industriale del Regno.
Rispetto ad altre aree del paese, comunque, la Basilicata manteneva tratti di arretratezza, con un senso di perenne emergenza che aveva avviato un deciso impegno dell’élite politica lucana che, dall’interno delle istituzioni centrali, operò affinché si avviasse qualcosa per riscattare dalla miseria la Basilicata. Perciò, in tale direzione, tra fine Ottocento e primo Novecento, si erano moltiplicate le indagini che tentavano di inserire la realtà lucana all’interno della questione meridionale e nazionale. Gli studi più significativi del tempo furono in primo luogo, dopo l’indagine di Enrico Pani-Rossi, La Basilicata libri tre. Studi politici, amministrativi e di economia pubblica (Coi tipi di Giuseppe Civelli, Verona 1868), l’inchiesta del senatore Jacini, I risultati dell’inchiesta agraria: relazione pubblicata negli atti della Giunta per l’Inchiesta Agraria (con la Relazione Branca sulla Basilicata del 1883) e la relazione dell’ingegnere Sanjust, Relazione a Sua Ecc. il Cavaliere Giuseppe Zanardelli, Presidente del Consiglio dei Ministri sopra i provvedimenti da adottarsi a favore della Basilica. Si assistette, quindi, ad una notevole fioritura di analisi, ricerche e inchieste che, per un verso, partivano dal bisogno manifestato dalle istituzioni centrali di conoscere più approfonditamente una provincia posta ai margini dei processi di sviluppo economico, mentre dall’altro verso riconoscevano, per la Basilicata, la necessità di provvedimenti straordinari.
Le difficili condizioni del territorio e, di conseguenza, della viabilità erano l’espressione più evidente delle precarie condizioni socio-economiche della regione, determinate innanzitutto da vincoli ambientali che Giustino Fortunato aveva sempre indicato come causa primaria di una sorta di «genetica» inferiorità.
L’impervio territorio lucano, dominato in prevalenza dalla montagna e dalla collina, come detto, segnava, dunque, inevitabilmente ogni possibile ipotesi di sviluppo. La ridotta e difficile infrastrutturazione della regione è prevalentemente imputabile proprio agli ostacoli rappresentati dall’impenetrabilità del territorio: infatti, la dorsale appenninica che taglia quasi a metà la regione tra le due porzioni di occidente ed oriente demarca una sorta di barriera sostanziale tra la zona montana e quella più collinare della provincia materana, digradante progressivamente a sud-est per esitare nella piana del Metapontino.
La provincia di Potenza, al contrario del Materano (più prossimo alla realtà pugliese), rappresentava il vero punto debole della regione; fatta eccezione per l’area collinare interna e per quella del Melfese (fin nelle sue propaggini in territorio di Lavello), il paesaggio lucano, nella prima metà del Novecento, presentava tratti di estrema povertà, con modesti insediamenti abitativi isolati, dato che le barriere naturali costituite dai monti rappresentavano, in uno scenario in prevalenza spopolato, ostacoli insormontabili alle comunicazioni: sicché bene Pietro Lacava, in un suo scritto pubblicato nei primissimi anni del Novecento, aveva descritto questa condizione naturale del territorio e dei paesi che «gli uni agli altri [sono resi] estranei».
E sarebbe stato Giuseppe Zanardelli che al termine del celebre viaggio del 1902 avrebbe sintetizzato in poche battute la dura realtà lucana:
Si correva per ore ed ore senza trovare una casa, ed al desolato silenzio dei monti e delle valli succedeva il piano mortifero dove i fiumi sconfinati scacciarono le culture e, straripando, impaludarono. E vidi ad esempio il letto dell’Agri, e l’acqua vagante non avere quasi corso in quelle sterminate arene.
Proprio la fisiologia del territorio lucano, pertanto, e l’azione dell’uomo erano all’origine dello sfascio legato all’instabilità geologica e della conseguente irregolarità dei corsi d’acqua. Anni di dissennato disboscamento (che, per ragioni diverse, sarebbe andato avanti fino al secondo decennio del Novecento), avevano prodotto un innaturale assestamento dei terreni e compromesso la loro tenuta: donde la facilità, per i corsi d’acqua, di eroderne gli argini naturali e provocare inondazioni e allagamenti proprio in quelle poche porzioni di piano dove le coltivazioni potevano essere più facilmente praticate. Le esondazioni dei fiumi, inoltre, erano state e continuavano ad essere causa principale dell’impaludamento dei terreni, soprattutto nelle zone attraversate dai fiumi lucani. Per tali ragioni si sarebbero aperte varie stagioni di intervento pubblico (con la legge speciale del 1904 e con i provvedimenti del periodo fascista) per l’esecuzione dei lavori di bonifica. Nella prima metà del Novecento, infatti, per arginare i contagi malarici, si misero in atto strategie di contrasto alla diffusione della malattia che andavano dagli interventi sanitari di profilassi (mediante l’impiego del chinino) ai tentativi di risanamento e disinfestazione in prossimità dei centri abitati.
Già il consigliere provinciale Nicola Salomone aveva osservato, comunque, come il dato relativo alla popolazione riferisse dei limiti e delle povertà del territorio lucano, soprattutto riguardo alla dimensione abitativa, che in Basilicata aveva una densità dimezzata rispetto alla media delle altre regioni meridionali e di circa un terzo rispetto allo stesso dato delle province settentrionali.
Le dinamiche evolutive della popolazione lucana, in effetti, risentivano della morsa costituita dalla significativa mortalità (soprattutto infantile e i cui effetti erano in qualche misura «mitigati» dalla elevata natalità) e dall’esodo migratorio che inferse un colpo durissimo ad una già prostrata provincia del Regno: dopo aver registrato una leggera ma costante crescita dall’Unità agli anni Ottanta dell’Ottocento, l’andamento della popolazione fece registrare un trend decrescente e altrettanto progressivo che sarebbe durato fino al primo dopoguerra.
Ovviamente, le considerazioni fatte finora sono applicabili ad un quadro di sintesi riferito alla regione, mentre le due province di Potenza e Matera come anche alcune aree interne ove risultava più agevole la coltivazione e che risentivano di influssi esterni che determinavano maggiori dinamismi economici (Vulture-Meflese, piana di Lavello o della collina materana), presentavano una configurazione demografica di tipologia differente: a fronte della contrazione della popolazione dell’8% tra il 1881 e il 1931 nella provincia di Potenza, infatti, si registrò un aumento vicino al 10% nella provincia di Matera.
Nessun commento:
Posta un commento