Già durante il 1799 repubblicano si era pensato all'abolizione della feudalità nell'intero Mezzogiorno, c due progetti di legge che si fronteggiarono: il primo radicale, favorevole all’abolizione assoluta e integrale sia dei titoli che delle terre dei baroni; il secondo, moderato, favorevole alla restituzione dei titoli feudali ma non delle terre, che si proponeva di dividere i beni allodiali soggetti alle imposte ordinarie gravanti sulle proprietà private. Alla fine a prevalere fu un terzo progetto definito di mediazione, ma, in realtà, più moderato del secondo. Il testo di legge non divenne subito operativo perché il generale francese McDonald si riservò di concedere la ratifica solo dopo aver avuto chiarimenti dal comitato di legislazione. Apportate le dovute modifiche, il testo venne approvato il 25 aprile e pubblicato il giorno successivo.
«La feudalità era il primo anello della società a dover essere spezzato per dare il via ad un mutamento nelle forme di potere», sosteneva Gaetano Filangieri opponendosi a coloro che giustificavano le funzioni giudiziarie e politiche del baronaggio come unica sicurezza contro il dispotismo.
Essa determinò la caduta di ogni distinzione tra comuni soggetti alla giurisdizione regia e quelli soggetti alla giurisdizione feudale, mentre tutti i cittadini e tutte le proprietà erano uguali di fronte alla legge; da ciò l’introduzione dell’imposta unica. Perché questa potesse essere applicata, però, necessitava di un catasto fondiario attendibile di cui non si disponeva; molti furono gli abusi e la stessa imposta unica non potè essere mantenuta. Di contro, furono reintrodotte molte altre contribuzioni per far fronte alle spese dell’esercito e dell’amministrazione.
Tale provvedimento rispondeva ad una effettiva esigenza di rinnovamento delle antiche strutture socio-politiche, anche per il mutato clima intellettuale, che mal tollerava i diritti e le immunità accordati ai rappresentanti di una istituzione antiquata e oppressiva. Questa legge ebbe fondamentale importanza nel Mezzogiorno, stretto nella morsa della feudalità più di ogni altro; la sua rilevanza crebbe ancor di più nella provincia di Basilicata, dilaniata da baroni assenti ed esigenti oltre che possessori, tra beni burgensatici e feudali, della quasi totalità delle terre adibite a pascolo e coltura. Tali leggi non colpivano solo i nobili feudatari; infatti, con il seguire dei provvedimenti anche il clero venne fortemente colpito. L’azione del decreto non fu rapida, gli ostacoli furono moltissimi perché oltre all’opposizione dei baroni e del clero si doveva affrontare un situazione demaniale irregolare, sia a livello di differenze territoriali, quanto, e di più, a livello di irregolarità amministrative.
La ricognizione dei beni demaniali dovette affrontare numerosi ostacoli che andavano dalle terre occupate con la forza, fino alle richieste delle popolazioni locali, che si appellavano al principio dell’ubi feuda, ibi demania, che trovarono la loro naturale evoluzione nella concessione degli usi civici delle terre. Oltretutto i contenziosi tra i Baroni e le vecchie Università aumentarono a dismisura, obbligando l’amministrazione centrale all’istituzione di una magistratura ad hoc, la commissione feudale.
Il processo di “defeudalizzazione” sarebbe stato tutt’altro che semplice, come evidenziato dalle questioni demaniali irrisolte che si trascineranno per anni, portando spesso a soluzioni dai contorni poco chiari. E alla fine, anche se sottoposta ad un’evoluzione che ne aveva profondamente mutato i caratteri, la feudalità continuò ad esistere nel vecchio regime.
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