giovedì 4 agosto 2022

Potenza. 5b. Le tradizioni dei mestieri


Una volta raggiunta l’età per poter lavorare, il ragazzo in base al proprio stato badava o alla coltura dei campi, ad un mestiere o all’amministrazione dei beni e dell’industria campestre. Sul finire del XVIII secolo Potenza aveva ancora un aspetto medioevale, con rimasugli di signoria comitale e reggimento di Università, clero numeroso con ricchi monasteri, vita campagnola accompagnata da una forte credenza. La popolazione era suddivideva nei ceti di galantuomini, di massari, degli artigiani e dei bracciali. Non c’erano persone appartenenti al ceto gentilizio, ma taluni che si distinguevano tramite il titolo di Don. 

Dopo il governo francese e la politica anticlericale, che prevedeva la vendita dei beni ecclesiastici, nel nostro caso dei beni di S. Francesco e i successivi mutamenti di ordinamenti dopo il 1860 le cose cominciarono a cambiare. 

Nelle case dei possidenti, dei massari e dei contadini agiati si trovava tutto il necessario per la vita grossolana dell’epoca. La campagna costituiva l’unica fonte di ricchezza. 

Per trovare o dare lavoro ci si recava davanti alle chiese, perciò uscire nant a la chiesa significava mettersi a disposizione per chi ne avesse bisogno. Se la buona sorte era dalla loro parte si stringeva il patto o prezzo, quando poi un bracciale accettava il lavoro offerto si diceva promettere, mentre spromettere lasciare l’uno per aiutare l’altro; con la parola aiutare si intendeva offrire il proprio lavoro in cambio di merce, ma esprime anche la libertà del lavoratore e al contempo lo scopo sociale. 

Il prezzo era meschino, solitamente dai dodici ai tredici grani e spese, ma si poteva percepire anche di meno, variando in base all’importanza e alla stagione. Il lavoro più pesante era la semina, di qui il detto seminant in lacrymis. Nel periodo della mietitura invece, c’era un continuo via vai di gente, da formare una chiassosa ammuina; nel mese di luglio, i campi si riempivano di torme di braccianti, abbigliati con camicia e mutande oppure con ‘n cauzonette a petto nudo. Nel corso della giornata mangiavano sei o sette volte: la fedda (zuppa di pane, vino, cipolla), la culazione (soffritto, baccalà con carosiell’ o finocchi spigati) magnà (minestra con salame o legumi con pasta) mezzeo o boccone (pene, biscotti e vino), merenna (formaggio con verdura) e per la sera un’insalata con cipolla o qualsiasi altra cosarella. Ma ad allietare le fatiche era l’immancabile fiasca alla quale si beveva a cannedda o a lu cannett’, che si passavano di mano in mano. 

Giorno felice era quando si faceva trebbiatura, dove Monte Reale diventava un vero villaggio di frumento. 

Ma il giorno di vera e propria festa era il giorno della vendemmia, animata dalla presenza delle vendemmiatrici, o meglio delle vagnardedd’ che si chiamavano l’un l’altra per poter godere di buona e simpatica compagnia; infatti venivano escluse le giovincelle considerate brutte, vecchie, noiose, antipatiche, o che sdegnavano di stare cu la moffa del vecchiume. La vista delle flotte di giovani prisciannuole (giulive) che si avviavano verso la vigna, leggiadre e pulite, con i loro sottanielli e faccioletti ed una volta arrivate in fila cantavano in coro, allietava l’animo dei giovani vignaiuoli che, specie quando era culandriedd’ allegro, prendeva di mira le più belle, paffute e vivaci ragazze, che però si mostravano sdegnate e manesche verso il giovanotto. 

Per colazione bastava nu truopplo di pane, na chiappa di puparulo fritto, o all’aceto, o na cicoriella colta strada facendo nella vigna. A mezzogiorno, il pasto non era dissimile da quello del mattino: seduti per terra davanti sullo spianato della casa o in giro, con un piatto di cavatelli verdi cu la cirasella

A Potenza la vigna era un bene di lusso per via della costosa cultura, ma costituiva un bene primario perché capace di allietare le fatiche dei campi e di rallegrare i giorni felici con una gradita, spesso desiderata mbriacatura. 

Con il dominio francese e soppresso l’antico e ricco monastero dei Conventi di S. Francesco, sorsero i primi grossi proprietari terrieri e con la spartizione delle terre demaniali del Comune si crearono i piccoli proprietari. Ma dopo il 1860 per via delle ingenti tasse e la mancanza dei braccianti, la tenuta divenne difficile da mantenere diventando motivo di ingenti spese e di continui fastidi, inducendo molti o a lasciarla deserta oppure a farla diventare terreno per il seminato. Ma non dimentichiamo, come scrive lo stesso Riviello, che anche prima di questi cambiamenti, la proprietà privata era gravata da incensi e di canoni alla quale non ci si poteva sottrarre. 

Poi c’erano gli allevatori, che nel mese di maggio facevano pascolare per le verdi campagne le pecore, capre, buoi, giumente e vacche. Nei casoni i massari lavoravano le ricotte, muzzarelle, butirri, provoloni e caciocavalli, che pare avessero un ottimo sapore. 

Di artigiani, artieri o mastr’ non c’erano molti, predominavano li ferrari che forgiavano strumenti indispensabili per l’agricoltura e per il bestiame, un esempio comune è il ferro di cavallo. Per poi seguire: li mastridasc’, scarpari, cuscirori, fabbiarori, barbieri scarpillini, ‘mmastari e fornasciari, che rappresentavano meno di un quarto dell’intera popolazione. 

Le botteghe erano molto modeste, e spesso vi lavoravano insieme artigiani di diverso mestiere per mancanza di soldi, quali barbieri e scarpari. 

Ma coloro che conducevano una vita più agiata erano sicuramente gli artieri, famosi per la loro vanità e boria di classe. Se si avevano più di due figli maschi solo uno si casava, cioè sposava, mentre l’altro era destinato a diventare prete, anche se non mostrava una particolare propensione o vocazione per la carriera ecclesiastica. Il prete era cardine di speranze e di credito, segno di uno stato sociale prospero e civile, da qui il detto beata quella casa che ha la chierica rasa. Appena il giovane indossava l’abito talare o la zimorra gli veniva accreditato il titolo di Don, dominio oppure di Signore. Alle figure sacerdotali venivano accreditate caratteristiche insite come operosità d’interessi e spirito di vita cittadina, che derivavano della formazione tradizionale che questi ricevevano e dagli statuti delle innumerevoli chiese ricettizie, le cui associazioni e guadagno si ottenevano per diritto di cittadinanza e dal principio dello iure famulatus.  Quasi tutti i terreni potentini appartenevano allo stato della chiesa, che usualmente fittava “fondi” e masserie; così le famiglie in forza al legame di parentela che li univa a uno o più preti riuscivano ad ottenere un pagamento più facile e sicuro del fitto o dell’estaglio, con le porzioni che questi avevano dalla chiesa. Così prosperò la classe dei massari, che poi si trasformò nella classe dei ricchi e dei possidenti. Questi a loro volta o seminavano per conto proprio, oppure fittavano le terre ai bracciali. Ma una volta venduti i beni della Chiesa, resi i terreni privati e in mano a pochi, l’agricoltura ebbe un grosso collasso in quanto i bracciali erano stanchi e i proprietari delle terre senza la rendita tanto desiderata. 

Il sistema venutosi a creare rendeva i contadini quasi «schiavi alla romana e servi della gleba alla medioevo»: pertanto in cerca di più agiatezza e di fortuna cominciarono a emigrare verso le Americhe. 

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