giovedì 16 dicembre 2021

Il Mezzogiorno moderno. 20. Il Catasto Onciario

 Il catasto onciario (dall’unità di misura fiscale, l’oncia, che equivaleva a 6 ducati), che doveva censire i beni dei sudditi connuovi e più razionali criteri di accertamento patrimoniale per una più equa distribuzione del carico fiscale, fu voluto dal sovrano del Regno di Napoli, che asseriva: «Che i pesi sieno con uguaglianza ripartiti, e che il povero non sia caricato più delle sue deboli forze, ed il ricco paghi secondo i suoi averi» (Carlo di Borbone, 17 marzo 1741). Il catasto Onciario fu ordinato da Carlo di Borbone con dispaccio del 4 ottobre 1740 e regolato da una serie di disposizioni emanate dalla Regia Camera della Sommaria tra il 1741 ed il 1742, per un totale di 12 Prammatiche riunite tutte sotto lo stesso titolo Forma censualis, et capitationis, sive de catastis, la prima delle quali è del 17 marzo 1741, l’ultima del mese di settembre 1742. Accanto alle precise istruzioni relative alla formazione degli Onciari venne disposto, fra l’altro, che anche i feudatari dovessero esibire le rivele di tutti i loro beni, affinché questi potessero essere accatastati rispettando tutte le formalità stabilite dalle Prammatiche
stesse. 

Nelle “Prime Istruzioni” erano contenute le prime indicazioni riguardanti solo il procedimento di catastazione, di competenza delle Università: modalità di compilazione degli atti preliminari, dell’apprezzo e delle rivele. Mancavano quelle relative alla procedura di formazione dell’onciario vero e proprio, inizialmente di competenza dell’amministrazione centrale. Con le “Seconde Istruzioni”, anche la compilazione dell’onciario venne affidata alle Università del Regno. Con concordato stipulato con la Santa Sede furono regolarizzate le modalità di tassazione dei beni ecclesiastici: per intero quelli acquisiti posteriormente al Concordato stesso, per metà quelli posseduti prima del 1741.

Nella società del tempo alcuni soggetti non erano tenuti a subire accatastamento o a causa di norme privilegiate (la Chiesa e i feudatari, ma solo in parte) o per inesistenza o eccessiva esiguità del reddito. Nonostante le buone intenzioni l’obiettivo di una maggiore equità fiscale, come vedremo, non fu mai raggiunto del tutto e anzi rimase d’attualità ancora negli anni a venire se Domenico Caracciolo, vicerè di Sicilia, nel 9 ottobre 1783, soleva sostenere: «Certamente l’affare porta qualche difficoltà, ma è possibile di guarire piaghe vecchie di due secoli senza dolore, senza gridi, senza alcuna difficoltà?», mentre il cardinale Fabrizio Ruffo, vicario generale del regno di Napoli, il 23 marzo 1799, ancora affermava: «Desidero riformare l’unciario come quello che è ingiusto e formato per cabala dei ricchi».

L’onciario non descriveva gli immobili, rustici o urbani, riportati negli atti notarili del tempo, ma offriva molti altri dati: la composizione delle famiglie del dichiarante, la determinazione delle fonti di reddito (da terreni, da case, da lavoro, da capitali, da rendite, da animali, ecc.) ed eventuali debiti contratti.

L’immenso fondo dell’onciario quindi, conservato nella sala catasti dell’Archivio di Stato di Napoli, rappresenta forse la fonte documentaria più rilevante per la ricostruzione storica della vita socio-economica del Mezzogiorno d’Italia, prima del risorgimento.

Il documento conclusivo dell’onciario era corredato da una serie di atti preliminari che ne erano alla base, rivele dei dichiaranti, apprezzi delle autorità accertanti, che integravano gli atti finali. 

Nello specifico, sulla base della prammatica istitutiva del catasto, dovendosi ripartire i tributi fra i cittadini, ogni comune invitava ciascun capofamiglia a dichiarare la composizione del suo nucleo familiare, i redditi in godimento e gli immobili tenuti in proprietà, con la descrizione di ciascun cespite e delle partite passive (rivela); successivamente l’autorità comunale provvedeva a una propria valutazione dei redditi e dei pesi in contraddittorio con l’interessato (apprezzo, ecc.); alla fine si stabiliva il reddito imponibile, secondo la valutazione dei redditi annui effettivi o con vari tassi di capitalizzazione per le proprietà, e si determinava in once (antica moneta di conto) il gravame fiscale. 

I dati che si possono trarre dai documenti sono di natura demografica (vero e proprio stato di famiglia), con indicazione, per ciascuna famiglia, di sesso, età e attività lavorativa dei membri, e con l’aggiunta dei conviventi, se pure estranei alla parentela. Per gli immobili urbani, la descrizione è sommaria con pochi dati catastali, per cui non è difficile una ricostruzione del quadro urbanistico-abitativo. Più completi sono invece i dati per individuare le case in fitto o in proprietà sul totale degli edifici, come anche la determinazione delle strutture architettoniche: case a un solo piano, a due piani, con o senza orto contiguo, “palaziate”, “solarate”, ecc. Per i fondi rustici, i dati catastali, anche se approssimativi, consentono in parte la ricostruzione del paesaggio agrario e dei rapporti sociali. È possibile ricostruire il quadro delle colture prevalenti, il livello di sfruttamento e di resa, e la proporzione con l’incolto produttivo; vengono anche chiariti i rapporti sociali nelle campagne, i rapporti tra le classi (proprietari, fittuari, massari, coloni, braccianti) e le contemporanee forme di reddito: lavoro dipendente, impresa diretto-coltivatrice, proprietà coltivatrice, affittanza. Accanto agli immobili urbani e rustici, usati in proprio o concessi a terzi a titolo oneroso (fitti, canoni ed estagli colonici, contratti vari), e all’attività personale (industria), vi è poi la gestione di capitali con i relativi proventi, poi l’industria zootecnica e il possesso di servitù attive, infine i debiti per le cause più diverse (capitali ottenuti, maritaggi, censi passivi).

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