giovedì 25 febbraio 2021

Il Mezzogiorno moderno. 14. Donne in campo tra Sette e Ottocento (Luisa Rendina)

Il sistema dell’istruzione pubblica era ancora lontano dall’offrire alcunché di innovativo, specie per l’istruzione secondaria. L’istruzione della donna, nella letteratura e nella precettistica sul tema, era dominata qua-si senza soluzione di continuità dall’apologetica cattolica, peraltro diffusa in modo sempre più capillare da predicatori e catechisti, la cui metodologia pastorale poteva contare ora su una maggiore specializzazione operativa, acquisita grazie alla frequenza delle Congregazioni sacerdotali e alla crescente diffusione del libro religioso. Di fatto, le donne erano escluse dai circuiti dell’istruzione. 
Anche nell’ambito dei riformatori napoletani era proprio nei confronti della donna che emergevano le maggiori zone d’ombra. Genovesi e Filangieri ritenevano che essa andasse comunque esclusa dai piani di istruzione pubblica e, anche di fronte a progetti di più ampio respiro, non si andava al di là di una esaltazione del suo ruolo di madre ed educatrice delle nuove generazioni. 
Su questo contesto rifletteva, nel 1792, la commedia di Francesco Mario Pagano, Emilia, appunto dedicata al tema dell’educazione della donna. In questa direzione riflessivo-pedagogica, come ormai assodato, va letto l’intero teatro di Francesco Mario Pagano che, lungi dall’essere puro ‘teatro giacobino’, riassume in forma dialogica le sue convinzioni etico-politiche. In effetti, come già notava Solari, «il Pagano scriveva [...] negli ozi che la professione forense gli concedeva, sotto lo stimolo di circostanze esterne, senza preoccupazione di successo, per finalità non teoretiche, ma di educazione». Se gli Esuli Tebani sono la più riuscita ed organica delle tragedie, gli elementi di riflessione etica non mancano, sia pure in forma più discontinua nel Gerbino (riuscita, ancorché fredda, messa in scena dell’opposizione tra tiranno ed eroe, ma indice dell’evoluzione del Pagano verso l’uso di un teatro “pedagogico”) e, in modo più organico, nella stessa Emilia, definita da Benedetto Croce il miglior lavoro drammatico dell’autore. 
Il tema dell’opera riguarda la protagonista, una ragazza buona donna di casa e, cosa piuttosto problematica per l’epoca, colta, piena di pensieri e sentimenti nobili. La completa il suo innamorato, il militare Leandro, che vorrebbe sposarla, nonostante l’opposizione del padre di lei, il conte Argiro, uomo all’antica e pieno dei pregiudizi di antico regime, che invece vuole per Emilia il cavaliere Artemio, nobile senza patrimonio e infatuato delle mode francesi. Emilia, in questa lotta contro il padre, ha il sostegno dello zio Anselmo e della cameriera Lisetta. 
Il lieto fine, d’obbligo, si pone al termine di un intreccio assai lieve, fondato essenzialmente sul dialogo e sulle scene farsesche; tuttavia quello che interessa di questa commedia è proprio il tema dell’educazione e delle mode, in una modernissima contrapposizione tra uomo e donna, laddove l’uomo, ossia il cavaliere Artemio, è il classico uomo alla moda, quello che all’epoca si sarebbe definito come “uomo di spirito”. 

Dunque, la caratteristica di una donna “filosofa”, ancora all’inizio degli anni Novanta, era una sorta di mostruosità nel panorama dell’epoca, in cui la donna era, e restava, una buona massaia, al limite con una buona infarinatura poetica, ma non una testa pensante. Un tracciato percettivo e di rappresentazione, questo, che neanche in Età napoleonica, con tutto il decisivo avvio di modernizzazione di idee ed istituzioni, avrebbe avuto uno sviluppo diverso. 
Donne come la principessa Faustina Pignatelli, che intratteneva gli ospiti del suo salotto con dissertazioni di fisica e matematica, o come la poetessa Eleonora Fonseca Pimentel, sono pur sempre da considerarsi delle anomalie. Proprio a proposito di quest’ultima, ne vanno rilevati, oltre che i talenti poetici, gli indubbi interessi di tipo economico e giuridico, poi riflessi nella grande fatica del «Monitore Napoletano»: intorno al 1786 aveva scritto un libro su un progetto di Banca Nazionale, non pervenuto e il trattato-traduzione Niun diritto compete al sommo Pontefice, mandato alle stampe nel 1790 con il falso luogo di  Alethopoli e preceduta da una disamina sui precedenti storico-giuridici della questione della “chinea” ed arricchita da varie note esplicative a piè di pagina. 

Né solo arcade, né solo riformatrice, né solo «Camilla giacobina», la Fonseca Pimentel risulta, dall’analisi del suo percorso di vita e di cultura politica, rilevante conferma di quella “crisi di coscienza” che contraddistinse la sofferta maturazione di molti dei riformatori napoletani da “moderati” a repubblicani. 
Non solo arcade, in quanto già nelle poesie “arcadiche” ella aveva utilizzato l’ormai topico rivestimento mitologico-allegorico per veicolare il progetto di uno sviluppo del Mezzogiorno d’Italia attraverso l’implementazione dell’agricoltura e delle arti. 
Non solo riformatrice astratta, come apparirebbe dalla ripresa dell’anticurialismo giannoniano o dalle lodi per San Leucio: infatti, come Francesco Mario Pagano, la Pimentel si connota come esponente di una cultura inizialmente ancora progettuale, ma destinata a maturare la convinzione di una necessaria “rifondazione etica” del Regno in base all’azione riflessiva ed all’educazione del popolo. La progressiva chiusura della Corona al dialogo stava, infatti, dando nuovo impulso all’affermazione di un modello operativo di tipo fattuale, legato, dunque, all’azione contro il governo borbonico che, rinunciando al dialogo ed ai propri doveri di garante del bene comune, si andava ponendo, via via sempre più, sulla strada dell’illegalità e dell’immoralità. Fallito il progetto di una collaborazione con la Corona sulla base delle direttrici indicate dal Genovesi, anche la Pimentel sarebbe giunta alla conclusione che una rigenerazione totale del Regno avrebbe potuto avere concretizzazione innovando in primo luogo il progetto di cultura politica e le strategie della sua attuazione. 
Non solo giacobina, infine, perché ella, lungi dall’entusiastica ed incondizionata esaltazione dei valori repubblicani, aveva ben compreso il ruolo critico dei giornali per la veicolazione delle “direttive culturali” dirette al popolo, vero perno della Repubblica napoletana. 
Il «Monitore Napoletano», infatti, oltre ad informare, segnalava, attraverso i suoi precisi e lucidi editoriali, la necessità di coinvolgere in una riflessione globale sulla società napoletana tutti i “patrioti”, in primis i Governi della Repubblica, reclamando una radicale rigenerazione della società, evidenziando la necessità di correggere il tiro nelle scelte, confuse e spesso contraddittorie, da parte di quei patrioti che avevano come propria “bandiera” una concezione della democrazia da costruire e da praticare ricordando gli errori borbonici. Cosicché il giornale, diretto da una donna, voleva essere non solo strumento d’informazione, ma anche e soprattutto di formazione, affinché i cittadini della neonata Repubblica potessero esercitare appieno i diritti che derivavano dalla cittadinanza. Si voleva che essi divenissero partecipanti attivi e consapevoli della vita politica e per fare ciò era assolutamente necessario avvicinare il popolo alle idee repubblicane e fargli comprendere il valore della libertà acquisita. Per avvicinare il popolo alle idee repubblicane, la Pimentel proponeva, tra l’altro, che si tenessero delle civiche allocuzioni «destinate particolarmente a quella parte di esso che chiamasi plebe, proporzionata alla costei intelligenza, e ben anche al costei linguaggio» e, poiché il popolo minuto non comprendeva che il dialetto, ella credeva fosse di giovamento la pubblicazione di un giornale in «vernacolo napoletano» da doversi leggere pubblicamente. La Pimentel svolgeva con estrema serietà il proprio compito di cronista e, nonostante la sollecitazione ad agire con maggiore prudenza, ella sosteneva: «Incarico mio è di riferire le publiche notizie ed i publici fatti», anche quando tali notizie gettavano discredito sui “liberatori” francesi. Al riguardo, in più di un’occasione ella denunciò ruberie compiute a danno di privati, nonostante la prudenza suggerisse il contrario. Con il progressivo declino della parabola politica della Repubblica napoletana risulta via via più politicamente accentuato il ruolo soggettivo della Fonseca Pimentel, che, fra l’altro, cominciò a firmare alcuni dei suoi “pezzi”, quasi a voler testimoniare un’ufficiale distanza politica dagli indirizzi governativi. 
Una figura, dunque, quella di Eleonora Fonseca Pimentel, il cui percorso può certamente dirsi una “vita culturale”, ossia da sottrarre al topos accomodante di «Camilla» o «marchesa» giacobina, improvvisamente trasformatasi da poetessa fuori dal tempo in accesa democratica, per collocarla, più correttamente, nella graduale, sofferta, lacerante maturazione di un’intera generazione ormai cosciente del fatto che la rinascita socio-economica e politica del Regno di Napoli doveva passare per un consapevole e mai avventato progetto politico. Il cui valore continuò ad essere fermamente sostenuto fino alla tragica conclusione della parabola della Repubblica napoletana, alimentandone solida “memoria” per i posteri, proprio attraverso un più intenso ed alto richiamo ai più rilevanti esempi rivenienti dall’antichità. Proprio l’antichità, con i suoi stereotipi femminili di mogli e madri, perpetuò l’immagine di una donna confinata, di un sapere “velato” limitato alla sfera individuale e, per quanto concerne l’elemento pubblico, presentato come moglie e madre. Nel «Corriere di Napoli e Sicilia» del 23 marzo 1799, a tal proposito, si riportava una declamazione di Domenico Sgambati nella Sala d’Istruzione Patriottica, in cui si affermava: 

«Le donne sono nella società ciocché son i fiori in un giardino: ma essendo spesse volte assai pericolose per l’uomo, si potranno per mezzo dell’educazione ridurre ad Esseri degni di partecipar degli allori di quello, dirigendo verso il retto scopo gli sforzi delle loro passioni. Educandole repubblicanamente, diverranno esse l’ornamento più prezioso delle nostre feste Nazionali». 

Né preziosa come l’Emilia di Pagano, né ignorante, la donna educata sarebbe stata la sposa e madre di “buon senso”, moderatamente istruita, la cui destinazione restava solo quella della cura e delle responsabilità domestiche. Si spiegano, così, in quest’ottica “monolitica”, per così dire, i richiami della stessa Eleonora Fonseca al ruolo di Luisa Sanfelice, involontaria scopritrice di una congiura anti-giacobina, come “madre della patria”, o l’immagine di donne impegnate per il bene della Patria, rapportate alle Spartane che presentavano ai figli lo scudo col celebre «torna o con questo, o su questo», nonché alle ragazze desiderose, come le Sannitiche, di «esser per mano della patria dat(e) in premio al più forte».  Ciò con precisi richiami a Plutarco, nel primo caso, e a Strabone, per mostrare il ruolo forte della donna nel contesto familiare, non in quello sociale. Anche nella simbologia repubblicana restava questa separazione dalla sfera dell’azione pubblica. Si pensi alle allegorie repubblicane presenti sulle carte della Repubblica: una donna classicamente abbigliata, con il seno scoperto ad indicare il suo ruolo materno, ma scarsamente armata, se non di simboli di pacificazione. Di contro, la sessualità esagerata ed anomala della regina Ma-ria Carolina divenne un topos politico ricorrente con ossessività mania-cale nella pubblicistica rivoluzionaria del 1799. Ossessività spiegabile alla luce dell’interesse morale e pedagogico per la figura del sovrano ideale mostrata dall’élite pre-giacobina nel decennio precedente e alla luce dell’impressione profonda che aveva fatto l’atteggiamento decisionista della sovrana nei fatti della congiura giacobina del 1794, di fronte alla passività di Ferdinando IV. O ancora, la sirena Partenope, figura eponima della capitale, che va intesa interpretazione di un antico simbolo piegato agli usi letterari e, soprattutto, politici: le virtù morali dei mitici fondatori diventavano virtù politiche, segno tangibile ab initio della lealtà politica di un corpo civile direttamente geminato dal suo fondatore. 

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