giovedì 19 dicembre 2019

La Puglia. 2. Spinazzola napoleonica

Spinazzola, fino al 1806 in Basilicata, sarebbe nata come semplice stazione militare (oppidum) e come parte integrante di una colonia romano-venosina; in seguito divenne un castrum (fino a tutto il XII secolo), quindi rientrò nel novero delle Terre (fino ai primi decenni del XVIII secolo), ed infine nel 1735 – per grazia ricevuta dal re Carlo di Borbone – fu elevata al rango di città, ovvero un soggetto giuridico vero e proprio investito di potestà civili e istituzionali; in questo stesso periodo viene menzionata come «Spina aurea o Spinazzola» dal vescovo Pietro Antonio Corsignani nelle sue costituzioni sinodali del 1728. 
La cittadina si trovava in una posizione rilevante, estendendo il suo agro tra il territorio del Tavoliere, quello lucano e la Murgia barese: infatti essa distava 15 miglia da Gravina e da Montepeloso, sei da Minervino e 24 dalla zona adriatica, su una collina che dominava, altresì, la vallata sulla quale si affacciavano Monteserico, l’abbazia di Banzi e Palazzo. 
Spinazzola era, inoltre, direttamente collegata a Venosa tramite una strada che, oltrepassando la fiumara venosina, conduceva a Candela, per una lunghezza complessiva di 12 miglia. Tale strada coincideva con parte del «Regio Tratturo» da Melfi a Castellaneta, che «comincia dal territorio di Spinazzola, e finisce sopra le terre di Melfi» e «incominciando dalla strada che viene da Gravina, e proprio dove detta strada si parte in due. Una delle quali rivolta a mano destra a Spinazzola, et a mano sinistra per dirittura di Melfi». Nel reintegro settecentesco da parte del Governatore della Dogana di Foggia Ettore Capecelatro, su questo tratturo fu rinvenuta un’epigrafe del 1631, che testimoniava un tentativo di rifacimento “comunale” da parte dei marchesi di Spinazzola. Sicché, a livello di collegamenti viari,

confina con la Capitanata, et Bari distante dalla città di Napoli m. 96. Distante dalla Regia Audienza di Matera m. 40 da Gravina m. 18 da Montepeloso m. 14 da Gensano m.6 da Palazzo m. 4 da Venosa m. 12 da Montemilone m. 6 da Lavello m. 14 per il curso, e per la strada della carrozza m. 18. Dalla Cerignola dove da le lettere il Procaccio, et va il Procacciuolo a pigliarle m. 14 da Canosa m. 14 da Barletta, dove è la Marina m. 24. 

Dominava la Terra spinazzolese un castello, di probabile origine normanna, costruito proprio per dominare la piana, ricostruito verso la fine del XIX secolo dai principi beneventani e andato completamente distrutto nel 1936; sul costone di un piccolo pianoro a mo’ di sella di cavallo che si affaccia su ampi valloni, si ergeva, poco maestosamente, questo castello, che doveva apparire più un «palazzaccio» che un vero castello e che era rapidamente andato in decadenza in quanto non abitato dai locali feudatari.
Ulteriore elemento distintivo della struttura urbana di Spinazzola, similmente alla sede diocesana di Venosa, erano le numerose chiese nel territorio, evidenziate dal sinodo diocesano del 1589, che registrava le cappelle e le chiese visitate dal vescovo tra il 5 e l’8 maggio:

[5 maggio] Confraternitas Corporis Chiristi; postea cappella Sancti Antonij de Padua; deinde cappella Santae Luciae; Cappella Sancti Rocchi; cappella Sanctae Mariae de Costantinopoli; Cappella Sanctissimae Trinitatis; Cappella Sancti Blasij etEligij.
[6 maggio] Ecclesia Sanctae Mariae de la Civita; Cappella Sancti Lucae; Ecclesia Sancti Leonardi.
[7-8 maggio] Ecclesia Sanctissimae Annuntciationis; Cappella Rosarij; Cappella Sanctae Mariae della Coronata; Cappella Sanctae Mariae del carusino; Cappella Sanctae Mariae de li martiri; Cappella Sanctae Mariae della gratia; Ecclesia Sancti Sebastiani; Ecclesia Sancti Jacobi; Ecclesia Sancti Johanni Baptista; Ecclesia Sanctae Caterinae. 

Dai Capitoli di Spinazzola, per quanto concerne il territorio dell’hinterland, risulta che Alfonso I d’Aragona avesse concesso l’uso del bosco per il pascolo dei boves aratori, nonché il diritto di legnare e pascolare nei boschi di Banzi, Montemilone, Palazzo previo pagamento di una modica somma di 2 once all’anno. Ma soprattutto va ricordato Ferrante d’Aragona, che cedette nel 1477 il feudo di Muro a Mazzeo Ferrillo, capostipite della casata che nel 1495 sarebbe diventata feudataria anche di Spinazzola, ma, altresì, concesse numerose “grazie” alla locale Università, come quella relativa al procedimento giudiziario e alla pubblicità dei processi, le norme rivolte alla tutela del capitale e dei prodotti agricoli, l’abolizione delle esenzioni tributarie a favore di preti, il principio della equa ripartizione dei tributi in rapporto alla capacità contributiva di ogni cittadino, la soppressione delle immunità e dei privilegi per tutti quei chierici che fossero ammogliati o che comunque non attendessero esclusivamente alle incombenze religiose. Sono pure da menzionare le disposizioni normative riguardanti l’azione di rivendica – da parte delle Università – delle foreste e dei pascoli pubblici usurpati dai baroni, la facoltà di trattare liberamente la compravendita delle proprie derrate, il diritto di cittadinanza concesso a tutti i forestieri che volessero abitare in Spinazzola; infine, le “bollette di viandante”, che permettevano ad ogni lavoratore di spostarsi liberamente da un luogo all’altro. In effetti, a proposito dei boschi, va ricordato come la cittadina sorga su una terrazza circondata da scarpate affacciata sulla valle del torrente Locone. Nelle pendici delle scarpate sgorgano numerose sorgenti che facevano di Spinazzola un paese ricco d’acqua, in contrasto con la generale scarsità tipica della regione murgiana. Ad ovest del centro abitato, inoltre, vi erano proprio dei boschi latifoglie prevalentemente di roverelle: «sta edificata ad un sito piano nel intrare con uno poco di pendentia verso bascio, per la quale si mantiene asciutta d’inverno».
Tale peculiare e fruttuosa posizione, unita, appunto, al suo essere centro di interscambio tra tre subaree regionali comportarono una crescita costante, che mostra che essa partecipava del trend vulturino, come Melfi e, almeno fino a metà Seicento, Venosa. In tutto l’arco della Puglia murgiana, elementi sociali e culturali analoghi e talora equivalenti a quelli dei maggiori centri cittadini
erano tutt’altro che difficili a ritrovarsi, in quanto Spinazzola, sia pure politicamente in Basilicata, partecipava all’espansione di quel «terzo fronte urbano» della riviera barese dopo il litoraneo e il cosiddetto «osso», ossia la realtà della montagna alla quale apparteneva gran parte delle Terre basilicatesi, assai più soggette di Spinazzola a paurosi cali demografici e oscillazioni socio-economiche.

BIBLIOGRAFIA:

A. Capano, Venosa Lavello Spinazzola Minervino in età moderna, Melfi, UNLA, 1998. 
A. Capano, Venosa Maschito Atella Spinazzola Lacedonia Palazzo S. Gervasio in età moderna, Melfi, UNLA, 1999.
G. D'Angola, Spinazzola nella storia. Uomini e cose di un antico centro murgiano tra Basilicata e Nord-Barese; dalle origini fino al 1860. Monografia storica, Palo del Colle, Cassa Rurale ed Artigiana di Spinazzola, 1986.
G. Rossi, Vicende antiche della proprietà territoriale in Puglia (Spinazzola), Trani, Tip.Ed. Vecchi & C., 1907.
E. Sollazzo, Spinazzola e i suoi uomini, Lavello, Finiguerra, 1997.


giovedì 12 dicembre 2019

La Basilicata moderna. 33. Il Regolamento di Polizia di Potenza

Nel momento in cui Ferdinando IV di Borbone tornò al potere, nel 1815, fu obbligato dagli Austriaci, in cambio del loro appoggio, ad accettare condizioni specifiche: concedere l’amnistia generale, riconoscere le alienazioni dei beni demaniali ed ecclesiastici e i titoli concessi da Murat, conservare nei loro impieghi tutti i funzionari e gli ufficiali in servizio durante il Decennio. Tutto ciò significò accettare tutte le profonde trasformazioni che erano avvenute in quegli anni. In effetti, Ferdinando prese atto dei sostanziali mutamenti che erano avvenuti nel suo Regno e che era impossibile ripristinare lo status quo ante; mantenne la stessa divisione del regno, apportando modifiche non sostanziali, le stesse istituzioni e paradossalmente portò a compimento molte delle cose che i suoi nemici francesi avevano posto in nuce.
Il 12 dicembre 1816 venne emanata la Legge organica sull'amministrazione civile (in «Bollettino delle leggi e decreti del Regno delle Due Sicilie», n. 570 (12 dicembre 1816), pp. 423-502) in cui si confermavano le istituzioni già esistenti, apportandovi piccole modifiche. 
Vi si prevedevano come “mezzi per provvedere alla polizia amministrativa” i regolamenti, che diventarono lo strumento di controllo di ogni ambito della vita collettiva, espressione della progettualità politica ed esempio di pratica istituzionale-amministrativa.
Al riconfermato impianto istituzionale francese a “piramide” corrispondeva, a livello legislativo, un identico assetto piramidale e, come alla base delle istituzioni era il Comune, così alla base delle leggi c’erano i regolamenti, che andavano ad incidere in modo diretto la vita dei cittadini. I Decreti e le leggi emanate dallo Stato contenevano norme più generiche, mentre erano i regolamenti, scendendo nello specifico e disciplinando ogni ambito della vita sociale, a rendere effettiva l’applicazione della legge. 
«Dalla esistenza de’ regolamenti di polizia urbana e rurale, e dalla osservanza de’ medesimi può giudicarsi senza tema di errare dello stato in cui trovasi una popolazione.(…) Dove esistono buoni regolamenti di polizia amministrativa, e sono eseguiti, non han luogo disordini» (GIORNALE DEGLI ATTI DELL’INTENDENZA DI BASILICATA, (2° uffizio), 1831, Si sollecita la formazione de’ Regolamenti di Polizia urbana e rurale, pp. 229- 231): così scriveva il Segretario Generale d’Intendenza Chiarini, in un dispaccio del 12 agosto 1831 ai Sindaci della Provincia di Basilicata per invitarli a redigere o a rivedere i regolamenti.
Erano redatti dai Decurioni ma richiedevano l’approvazione degli Intendenti e rimanevano in vigore per cinque anni, scaduti i quali, o si deliberava la continuazione nella sua integrità, oppure si apportavano modifiche sottoposte nuovamente all’approvazione della longa manus dello Stato.  Essi avevano come obiettivo la «conservazione della tranquillità e dell’ordine pubblico; la legittimità ed esattezza de’ pesi e delle misure; la vigilanza sull’annona e su i venditori di generi annonarj; la vigilanza sulla conservazione e la nettezza delle strade, delle piazze e de’ pubblici stabilimenti; e la pubblica salute. Quelli di polizia rurale si propongono la salubrità, la sicurezza e la custodia delle campagne, degli animali, degli strumenti, e de’ prodotti di esse; la ripartizione e l’uso delle acque pubbliche, e degli acquedotti addetti al pubblico comodo». 
Alcune piccole realtà locali, comunque, emanarono regolamenti riproponendo antiche consuetudini, invece altre, presentarono nuove regole, figlie dei nuovi tempi ed espressione dei mutamenti avvenuti. 
La città di Potenza fu una di queste ultime: infatti il Regolamento di Polizia Urbana e Rurale non faceva nessun riferimento agli antichi statuti e alle vecchie consuetudini.
Il Regolamento potentino, pubblicato sul Supplemento del Giornale degli Atti dell’Intendenza di Basilicata nel 1817 (in GIORNALE DEGLI ATTI DELL’INTENDENZA DI BASILICATA, n. 2 (1817), Supplemento pp. 17-32), andava a regolamentare la vita dei cittadini, disciplinando in modo più capillare il centro urbano, meno il contado.
Era composto da quattro capitoli: 
Primo capitolo: conteneva 26 articoli e regolamentava il commercio e la vendita dei beni alimentari e prevedeva i requisiti e gli obblighi dei bottegarj;
Secondo capitolo: prevedeva 22 articoli e stabiliva norme igienico-sanitarie.
Terzo capitolo: aveva 9 articoli e disciplinava la vita rurale, la protezione dei poderi, degli animali e delle culture.
Quarto capitolo: 4 articoli e specificava a chi spettava l’obbligo di fare rispettare quanto previsto.

Il regolamento, come si legge in una delibera decurionale del 1824, fu approvato il 7 giugno 1817 e fu sottoscritto dai decurioni sua manu , quindi i firmatari erano tutti alfabetizzati, infatti non ci sono segni di croci. Rimase in vigore fino al 1831 quando venne redatto uno nuovo, ma quello del 1817 fu il modello sul quale si elaborarono tutti gli altri e che venne preso ad esempio per tutti i comuni che non avevano provveduto ad approntarlo. 
Tutto ciò grazie all’apporto dei nuovi funzionari pubblici e della nuova classe dirigente, di quegli uomini, di quella “generazione napoleonica” che dal 1799 al 1820-21, aveva trasformato e innovato il paese per idealità, azione politica e pratica istituzionale.
Molti dei programmi risalenti al Decennio napoleonico furono attuati più tardi ma previsti e disciplinati nel regolamento del 1817, come il progetto del 1812 dell’ingegnere Olivieri, che prevedeva vari interventi urbanistici - tra cui l’eliminazione di scale sporgenti sulla pubblica via – e che fu regolamentato dall’art. 12 Cap. II; in questo articolo si imponeva ai singoli cittadini, a proprie spese, l’eliminazione delle scale, pena una multa di sei ducati, a chi non adempiva all’obbligo, ciò al fine di rendere le strade “libere” e permetterne a tutti l’utilizzo. 
I cittadini erano coinvolti in prima persona nel decoro e nella trasformazione della città, con l’onere di pulire le strade davanti alla loro abitazione, di liberarle dal ghiaccio e dalla neve, di non occupare i pubblici spazi con cose private, di tenere in modo decoroso le proprie abitazioni e di sistemarle lì ove minacciavano rovine. Quest’articolo, come altri del medesimo capitolo e dell’intero regolamento, dava forma a quella che era l’idea napoleonica di città, trasformata in modo funzionale, con necessaria progettazione, pianificazione e regolamentazione di ogni intervento, con dotazione di sistemi stradali rettilinei, di piazze, di mercati, di opere di igiene pubblica come lavatoi, fontane, di cimitero fuori dell’abitato, di macello, di ospedali, ma anche di luoghi di educazione civile come teatri, musei, ecc. Il carattere strutturale della città derivava dai codici, dalle leggi e dai regolamenti e sotto questo aspetto la codificazione napoleonica segnò una rottura con le città dell’Ancien Regime.
Grande importanza fu data anche alle norme igienico-sanitarie in ossequio sempre all’impostazione francese garante dell’igiene e della salubrità. 
Il tema dell’igiene e della salute diventa uno strumento di controllo sociale e per questi motivi vennero consentiti usi diversi degli spazi pubblici: fu vietato, ad esempio di macellare gli animali nella piazza, (fino a quel momento gli animali venivano macellati a Largo Beccheria, adiacente alla piazza del Sedile e, poi, in un locale sottano di proprietà della chiesa di San Michele situato nel medesimo rione), ma evidentemente i macellai non rispettarono il divieto, se in alcune delibere decurionali (una del 7 settembre 1826 e un’altra del 24 agosto 1836) si vietava di macellare gli animali negli stessi locali di vendita o sulla pubblica piazza. Il «mandrone per lo scannaggio degli animali da macello» venne poi progettato nel 1854 dall’architetto Antonio Ferrara e come sito fu scelto uno esposto a nord, vicino al seminario, ma solo il 30 marzo 1876 fu approvata la costruzione del macello, prevedendo la somma di 167.590 lire per la sua realizzazione e il luogo scelto fu Santa Maria.
Era vietato anche introdurre greggi in città o detenere animali nelle abitazioni; era però permesso di avere i “neri”, cioè i maiali nelle stalle in città, da agosto a gennaio, per uso proprio, dato che il consumo di maiale era molto diffuso ed i potentini lo consideravano un asciament’, cioè un’agiatezza, poiché serviva da provvista per tutto l’anno. 
Anche il commercio dei “commestibili” era disciplinato per tutelare i cittadini da frodi alimentari e da truffe sui pesi. I commercianti alimentari, che dovevano essere muniti di autorizzazione sindacale, erano obbligati a tenere in negozio alcuni generi ritenuti beni di prima necessità a cui era imposto il prezzo. In una delibera decurionale del 22 agosto 1824, i decurioni facendo esplicito riferimento al Regolamento di polizia urbana del 7 giugno 1817, obbligavano i negozianti a tenere sempre in bottega questi alimenti e ne calmieravano i prezzi. Esisteva un mercato dei commestibili che si svolgeva in piazza del Sedile ma, dopo la realizzazione della piazza dell’Intendenza, il mercato della domenica si svolgeva lì e per questo motivo la piazza fu denominata inizialmente “piazza del Mercato”.
Si obbligavano tutti i titolari di pubblici esercizi a rimanere aperti fino alle due di notte e ad apporre davanti al loro uscio un lume, appare singolare che, prescrizioni simili, si trovano anche nel Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza del 1931 n. 773 tuttora in vigore.
Pochi articoli erano dedicati alla protezione dei poderi, ma improntati al rispetto della proprietà altrui e del bene pubblico.
Nell’ultimo capitolo all’art. 3, era previsto che gli introiti delle contravvenzioni servissero al mantenimento della polizia stessa. 
Il Regolamento di Polizia del 1817 fu precursore della modernità, figlio di quei tempi, specchio della realtà potentina, strumento di controllo della società; servì da modello a tutti quelli che si susseguirono, anche se nella seconda metà dell’Ottocento furono redatti due regolamenti: uno di polizia urbana (1869) e uno di polizia rurale (1868). In quello del ’17 si dà più importanza al centro urbano perché si deve dare l’impostazione delle regole di civile convivenza: utilizzo delle aree pubbliche, rispetto dell’igiene, tutela per il commercio. Nel momento in cui ci si rende conto dell’importanza della campagna proprio per la sussistenza della città, si avverte l’esigenza di regolamentare, in modo più profondo, la vita del contado, l’utilizzo del demanio comunale, il rispetto dei fondi altrui e delle norme igieniche.   

mercoledì 11 dicembre 2019

Dopo sei anni: LA MISSIONE DI UN BLOG

La passione per la ricerca, per la rilettura e l’analisi delle proprie radici è un tema che negli ultimi anni è stato coltivato con impegno costante da storici di professione e dilettanti. Tanto più importante questo tema si situa in una terra come la Basilicata, ormai definitivamente sottratta allo stereotipo di territorio chiuso e immobile di leviana memoria, soprattutto perché, una volta messa in correlazione con la grande storia meridionale e italiana, nel lungo periodo, essa risulta di peculiare interesse. Infatti, nell'ambito del più generale contesto storiografico inerente il complesso sistema delle realtà locali del Mezzogiorno d’Italia in età moderna, di particolare interesse risulta lo studio delle piccole e medie città del Regno di Napoli nella loro variegata realtà istituzionale-amministrativa ed economico-sociale.
Si trattò, in effetti, di realtà diversificate, vitali, spesso molto dinamiche rispetto anche al contesto provinciale, profondamente legate al loro contesto territoriale e con un rapporto spesso conflittuale con i rappresentanti del potere centrale, con fasi in genere altalenanti.
Si tratta forse di microstoria nel senso negativo del termine? Risulta difficile dirlo... Quella nota con questo nome fu una pratica storiografica nata in Italia a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta del XX secolo: sul piano metodologico, la microstoria seria ha prodotto indagini di lunga durata che si concentrano su aree geografiche molto circoscritte, per offrire una ricostruzione minuziosa e analitica della storia di piccole comunità locali: avvenimenti, personaggi e atteggiamenti mentali che inevitabilmente sfuggono alla storia di vasta scala, fatta di grandi processi storici analizzati per mezzo di categorie generali (Stato, ordini sociali, sistemi economici ecc.) e periodizzazioni convenzionali (Età medievale, moderna e contemporanea). I maggiori contributi forniti da questo indirizzo di ricerca (per cui è stata avanzata la proposta di autonomo genere storiografico) sono la capacità di cogliere elementi di continuità e mutamento nascosti dietro i modelli sociali tradizionali (che in tal modo vengono stimolati all’aggiornamento, alla correzione e alla sintesi), e l’introduzione di fonti e metodi nuovi (da un lato la quotidianità, i piccoli dettagli di biografie minori, dall’altro la dimensione dei comportamenti, delle strategie, del ricordo, della memoria, delle credenze, delle paure e dei dubbi collettivi). I contributi degli esponenti più rappresentativi della microstoria, come Ginzburg, Grendi, Cerutti ed altri, sono confluiti nella collana Einaudi Microstorie, che dal 1981 ha affiancato il dibattito promosso dalla rivista Quaderni storici (1976-83). 
Da questo tipo di storia nasce il progetto Di Storia, di storie, avviato nel febbraio del 2013 e che, partendo da quanto detto, si è sviluppato con cadenza settimanale per pubblicare fonti, materiali didattici, lavori originali di studenti liceali e universitari, segnalazioni di libri ed eventi, link a opere rare, bibliografie tematizzate relative alla Basilicata e al Mezzogiorno d’Italia. Il blog è gestito dal sottoscritto, con la collaborazione di due redattori/segretari e di diversi collaboratori occasionali, per un totale di 482 post pubblicati, con cadenza settimanale e, laddove ci siano eventi e temi di particolare rilevanza, con pubblicazione domenicale, spesso riservata a collaboratori free lance che inviino alla redazione pezzi di interesse scientifico peculiare.
Esso è diviso in vari temi: Editoriali (su eventi e temi di attualità per studiosi e studenti), Documenti, Materiali didattici, Territorio, Personaggi, Storia generale, Storie locali
Proprio a proposito di queste ultime, si è partiti dal più recente dibattito sulla storiografia locale dei regni di Napoli e di Sicilia lungo tutto il percorso della modernità, che indica la necessità, da parte degli studiosi, di comprendere appieno un discorso vario e complesso nelle sue diversificazioni e stratificazioni, in passato liquidato dalle istanze positivistiche e "modernizzanti" e solo da pochi decenni pienamente rivalutato nella sua giusta prospettiva, come evidente risultanza di una necessità, da parte delle comunità del Regno di Napoli, di autorappresentazione verso la Capitale e nei confronti di se stessa, divisa tra modalità comunicative visibili a tutti - rappresentate dalle dimore signorili - e modalità di comunicazione verso l’esterno, nell’ottica, sempre, di un costante riferimento alla cultura ed alla rappresentazione della comunità. Non un monolito, comunque, è questa storiografia locale, ricca di generi storiografici, ma allo stesso tempo saldamente imperniata su tali grandi direttrici tematiche. Le "storie di città", ad esempio (riprodotte con appositi link a portali come Internet Archive o Internet Culturale) riflettono il legame tra patriziato e territorio nell'ampio periodo delle riforme dei seggi cittadini e dell'emergere, come si è detto in precedenza, di famiglie "rampanti" che vogliono la nobilitazione e cercano di realizzarla anche tramite la figura dello storico "di mestiere". Si evidenzia la presenza di temi che, ferma restando la necessità di cadere in tipologie eccessivamente schematiche, puntano ad un "pubblicismo apologetico", in cui l'opera storiografica tende a farsi discorso di seggi e famiglie, quindi con un forte richiamo al passato come origine e perno della costituzione presente ed allo stesso tempo tronco su cui si innesta la fedeltà verso i regnanti. La necessità di salvare dall'oblio i fasti patrii, così presente e diffusa nelle introduzioni, diviene dunque discorso politico, riassunzione di un'antichità che non è solo modello esemplare, ma origine di tutto quello che la città ha di peculiare. 
Strettamente intrecciati, nel blog, sono, poi, i post relativi al rapporto tra storia generale e il territorio. Nel primo caso, la sezione Storia generale intende offrire non solo spaccati della storia della Basilicata, spesso ignoti al grande pubblico o disinvoltamente manipolati in siti non sufficientemente informati, ma soprattutto propone anche riassunti, utili a studenti e insegnanti, di periodi fondamentali per la storia del Mezzogiorno, con particolare attenzione a snodi politico-istituzionali ed amministrativi altrimenti relegati a manuali specialistici difficilmente raggiungibili al pubblico e, laddove consultabili, poco comprensibili per i tecnicismi ivi presenti. Un autore guida, per i centri lucani, è stato Lorenzo Giustiniani, di cui sono riprodotte le schede del suo Dizionario geografico ragionato relative ai singoli paesi, volte a fornire l’ubicazione e una breve descrizione del luogo; la riproduzione delle schede vuole aiutare appassionati e studiosi a tracciare anche un profilo storico con notizie relative allo status giuridico-amministrativo, alla provincia di appartenenza, alla diocesi, agli elementi tipici del territorio e dell’economia, all’evoluzione demografica secondo uno schema standardizzato ma al contempo flessibile, che può occupare poche righe o intere pagine.
I documenti, in questo senso, vanno a completare l’operazione di recupero, valorizzazione e fruizione degli elementi identitari, con la trascrizione o la riproduzione fotografica di testi rari o poco conosciuti che possano essere letti direttamente dagli appassionati per costituire una sorta di traliccio non solo per la conoscenza storica, ma anche, in alcuni casi accertati, dell’operazione di scrittura e analisi di eventi e problemi legati alle realtà locali. Ulteriore rilevanza, in questo contesto, assume la sezione relativa ai Materiali Didattici, che raccolgono mappe concettuali, schemi, riassunti utili a studenti universitari e delle secondarie superiori, nonché ai docenti di storia, per costruire percorsi e progetti a carattere storico.
La sezione Personaggi non intende riproporre l’ormai obsoleta storia per medaglioni, tanto cara all'erudizione locale, quanto piuttosto offrire all’attenzione del grande pubblico personalità che, in un modo o nell’altro, da artefici o da oppositori, contribuirono alla costruzione dell’identità della Basilicata: in tal senso, sono stati privilegiati non tanto – o non solo – i grandi, quanto soprattutto personaggi di spicco nella cultura lucana e nazionale, come Francesco Lomonaco o Francesco Mario Pagano, o uomini di cultura ingiustamente dimenticati dal pubblico e dagli studi, come gli illuministi Onofrio Tataranni e Nicola Fiorentino. Ad ognuna di queste personalità è stata dedicata una serie di post biobibliografici, con appositi link alle opere (ove reperibili), per consentire una lettura il più diretta possibile del loro pensiero. Altrettanta cura è stata dedicata ai cosiddetti patrioti, dai più celebri e studiati, con riproposizione di studi anche di rilievo, come quelli del Dizionario Biografico degli Italiani o dei vari dizionari del Risorgimento, a quelli “di seconda fila”, che contribuirono, spesso da posizioni radicali, alla costruzione dell’Unità e dello Stato italiano. 
Fortemente legato, a complemento, per così dire, di quest’operazione di divulgazione su solide basi scientifiche è la pagina Facebook, gestita altresì in modo collettivo, dove vengono pubblicati link alle pagine recenti e articoli storici di vario genere, con una prevalenza delle pagine della rubrica “Basilicata Storica” ospitata sul quotidiano locale “La Nuova del Sud”, al quale collaborano diversi dei redattori del blog. Rispetto al blog, la cadenza dei post sul social è varia e rispetta più lo sviluppo di una sorta di “blog parallelo” a carattere di news ed eventi, con collaborazioni di vario genere con Enti e Istituti di Ricerca, quali l’Università della Basilicata, oltre a varie associazioni storico-culturali presenti sul territorio regionale e dell’intero Mezzogiorno d’Italia. 
Il pubblico dei lettori e fruitori del blog è composto soprattutto da italiani, con circa 60.000 visualizzazioni, seguiti da statunitensi (con circa 10.000 visualizzazioni), che si connettono essenzialmente tramite pc e raggiungono il blog tramite Google e Wikipedia. 
Dunque, l’operazione di public history perseguita da Di Storia, di storie è quella del recupero della memoria storica, tra identità sommerse e identità svelate lungo questi sei anni di vita. Il blog si propone, oggi più che mai, di stimolare alla valorizzazione, recupero e condivisione degli elementi identitari non le grandi istituzioni centrali, quanto, piuttosto, le associazioni, le Società Storiche e delle Deputazioni: l’ancoraggio sul territorio, il legame con le tradizioni e l’identità locale, in rapporto con i contesto più generali, permettono, infatti, a queste istituzioni di recuperare una dimensione civile della Storia. La progressiva attenzione verso le province operata dalle istituzioni locali, in effetti, corrisponde all’allargarsi del rapporto tra centro e “patria locale” e restituisce una dimensione più ampia alle appartenenze regionali. È questo, dunque, il senso di Di Storia, di storie, ossia l’uso politico della Storia nel senso più nobile: contribuire a ricostruire l’identità nazionale attraverso il coinvolgimento, una volta ancora, delle piccole patrie locali, dei “mattoni” base dello Stato, i cittadini. Uscire dal chiuso dell’Accademia e parlare, ancora una volta, ai cittadini con un linguaggio più accessibile potrà permettere al mestiere di storico di avere ancora un senso civico.


La cultura meridionale. 7. Contadini del Sud di Rocco Scotellaro

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