giovedì 16 maggio 2019

Il Mezzogiorno moderno. 5. L'Intendenza

L’età napoleonica, soprattutto per il Mezzogiorno d’Italia, è, come spesso abbiamo detto nei nostri post, da considerare un significativo spartiacque caratterizzato, rispetto all’ancien régime, dall’avvio di una nuova stagione politico-istituzionale-amministrativa, che vide protagonista sul campo un’intera generazione, attivamente impegnata anche nella costruzione di un percorso di cultura e pratica politica alla base dell’articolato, ma solido, processo di formazione della stessa identità nazionale.
Una dimensione d’insieme, questa, fortemente significativa per la provincia di Basilicata che, rideterminata, nel Decennio napoleonico, nella sua veste territoriale e riconfigurata nei suoi spazi e nei suoi luoghi più alti della vita istituzionale-amministrativa, dal suo capoluogo Potenza ai capoluoghi di distretto (Matera, Lagonegro, Melfi), si andò configurando, come del resto nelle altre province, come una società i cui valori primari divennero la proprietà fondiaria, la ricchezza, la gerarchia degli uffici.
Con la legge dell’8 agosto 1806 si provvedeva, poi, alla ripartizione del territorio in tredici province ed alla loro suddivisione in distretti aventi ognuno una «capitale», mentre con la legge dell’8 novembre 1806 venivano abolite le vecchie contribuzioni e sostituite con l’imposta fondiaria, principale e quasi unica imposta diretta, riscossa con criteri di certezza e stabilità sulla base di catasti geometrici già esistenti in Lombardia e così avviati rapidamente anche nel Mezzogiorno. Tale catasto fondiario, per il quale in tutta fretta si prepararono gli stati di sezione, che servirono poi di base al catasto descrittivo, portò in molti casi a divisioni erronee, determinando in alcune aree non pochi problemi nella riscossione del tributo. Il principio dell’imposta unica, calcolata sul prodotto netto dei terreni in base alla loro rendita, calcolata a sua volta in base ai proventi degli ultimi dieci anni, inoltre, non poté essere applicato in via esclusiva: infatti, per far fronte alle spese crescenti dell’amministrazione e dell’esercito fu necessario mantenere molte contribuzioni indirette. 
Di non minore rilievo fu il nuovo assetto dell’amministrazione provinciale e comunale. In particolare, innovazione fondamentale fu la netta separazione dell’amministrazione civile dal potere giudiziario, la cui confusione aveva in passato reso spesso ingovernabili le realtà locali. Nel Mezzogiorno, a capo delle province fu introdotta la figura chiave dell’Intendente, scelto talvolta tra «militari per le particolari difficoltà di ordine pubblico», vero e proprio intermediario fra realtà locale e governo centrale. Tale innovazione andava ad inserirsi in un contesto in cui esisteva una pregressa situazione di disordine amministrativo alla quale occorreva provvedere: non a caso, infatti, diversi intellettuali, ed in particolar modo Giuseppe Zurlo, avevano criticato l’incapacità degli organi collegiali e giudiziari, insediati nella capitale e gravati dalla grossa mole di lavoro, affermando, altresì, che con il sistema vigente non si riusciva ad assicurare «la buona elezione degli amministratori».
La legge dell’8 agosto 1806, con l’istituzione delle Intendenze e il riordinamento dell’amministrazione comunale e provinciale, pose fine a questa situazione e “liquidò” la Camera della Sommaria, organo amministrativo, giurisdizionale e consultivo dell’antico regime, che, a parere proprio dello Zurlo, era ormai da tempo arcaica e inefficiente nella sorveglianza delle elezioni dei sindaci e delle istituzioni. Così, grazie alla formazione della fitta rete legislativa comunale e provinciale, che ebbe come base decisionale i consigli, si poté andare sempre più verso una più netta difesa della collettività.
Fin dall’inizio, come già accennato, l’amministrazione periferica fu affidata in prevalenza a funzionari napoletani scelti tra elementi fidati, anche se già coinvolti nella Rivoluzione del 1799, ma significativa fu anche la presenza di militari e generali francesi nell’impianto della nuova amministrazione civile. Anche quando le Intendenze cominciarono a funzionare con sufficiente regolarità, non furono rari i conflitti con le autorità militari, che, in un regime più o meno di occupazione e di fronte alla minaccia di sbarchi inglesi ed al dilagare del brigantaggio, conservavano un potere rilevante.
L'intendente era subordinato al Ministro dell'Interno, esercitava l'amministrazione attiva e di tutela sui Comuni, era funzionario di polizia, disponeva della guardia provinciale e dell'esercito. Alla diretta dipendenza dell'intendente era il segretariato, a sua volta suddiviso in vari uffici che trattavano di affari interni, dell'amministrazione provinciale e dei lavori pubblici, dell'amministrazione comunale, di polizia generale, di guerra e marina, di finanze e contabilità, di giustizia e di affari ecclesiastici.
Nella nuova struttura organizzativa dell’amministrazione pubblica gli Intendenti furono posti a capo delle province del Regno, con compiti molto delicati, come il controllo della vita locale, dall’istruzione pubblica alla polizia, alla vigilanza sui Comuni. Essi dovevano avere cura di pubblicare le leggi e i decreti reali assicurandone l’adempimento; erano autorizzati a disporre, per l’esercizio delle proprie funzioni, della forza provinciale e, nel bisogno, di quella militare. Avevano, inoltre, il dovere di compiere ogni due anni la visita alle province «al fine di conoscere e proporre al Governo i mezzi di promuoverne la prosperità».
Per quanto riguardò l’organizzazione degli uffici delle Intendenze, non fu agevole trovare un manipolo di uomini destinato a dirigerli e, salvo qualche eccezione, le scelte caddero su personalità di rilievo e sempre con precedenti rivoluzionari. Ad esempio, Raimondo di Gennaro, Intendente della provincia di Napoli, era già stato rappresentante del sedile di Porto, quindi componente il Governo provvisorio della Repubblica e del Comitato dell’Interno. O ancora, Francesco Conforti, impegnato nell’organizzazione delle poste e in talune direttive del ministro dell’Interno, che aveva fatto parte della Commissione Legislativa. 
Tre furono i compiti essenziali, come detto, tra le molteplici funzioni attribuite alle Intendenze: la polizia e l’ordine pubblico, l’amministrazione civile e l’amministrazione finanziaria. «Lo sforzo di garantire dei rapporti efficienti fra il centro e la periferia […] conciliando l’autonomia e l’adeguata articolazione dell’amministrazione col più rigoroso centralismo è evidente, oltre che nel testo della legge», nelle istruzioni che il ministro dell’Interno Miot emanò nell’ottobre del 1806. 
Il primato della nuova amministrazione non significò, tuttavia, unicamente il distacco dall’amministrazione precedente e la conseguente istituzione di nuovi apparati, ma anche, e soprattutto, la definizione di nuove funzioni, di nuovi compiti e uffici. 
Problemi gravi e spesso insolubili si presentarono quando si dovettero riempire i quadri intermedi dell'amministrazione e, soprattutto, quando si dovettero costruire ex novo le amministrazioni comunali. Il reclutamento del personale, che doveva essere omogeneamente presente sul territorio, fu, infatti, molto spesso faticoso e non meno la liberazione delle relazioni sociali dalle vecchie pratiche di governo. Gli attriti e le difficoltà che attraversarono il decennio napoleonico dipesero, sostanzialmente, dalla convivenza di aspetti militari/repressivi con quelli amministrativi/legislativi e dalla presenza, nel campo dell’amministrazione, non solo di amministratori, ma anche di militari che tendevano, con l’esercizio della pubblica autorità, ad agire con i modi della repressione nei confronti soprattutto degli ordini religiosi regolari e della feudalità, ovvero di quegli istituiti che più avevano contribuito a disciplinare e inquadrare, nell’antico regime, l’intera società meridionale.
I risultati amministrativi che si ottennero con tali modifiche furono tali che, nel 1815, quando Ferdinando IV tornò sul trono, si astenne da ogni atto di ostilità nei confronti di chi aveva servito i due Napoleonidi, evitando, in tal modo, di dare un carattere “traumatico” al cambiamento, che, dunque, se pure ci fu, non risulta essere stato nella forma di epurazione dei funzionari murattiani. Infatti, coloro che si trovarono a esaminare ciascuno dei settori in cui era stato suddiviso lo Stato ebbero modo di apprezzare la razionalità dell’impianto e, soprattutto, le mire di normalizzazione che avevano guidato le autorità francesi.

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