domenica 13 gennaio 2019

Paesi lucani. 46b. Potenza tra XVIII e XIX secolo

«Per dovunque si giunge, per molto spazio distante questa città con quattro elevatissimi campanili ed una elevatissima torre, che a guisa di superstiti Titani par che minacciano il cielo, maestosa si vede». Così Gerardo Picernese, a metà del Settecento, nelle sue annotazioni ed aggiunte alla Istoria seicentesca del Rendina, descriveva Potenza che, alla fine di questo secolo, si presentava come uno dei centri più importanti della provincia, tanto che l’erudito Emanuele Viggiano, nel 1805, quindi alla vigilia della grande stagione del riformismo napoleonico, scriveva: «Non v’ha in Basilicata città veruna grande e ragguardevole […]. Potenza è fralle poche che tutte le altre sorpassano; e se non toglie il primato a Melfi ed a Venosa, che le migliori sono, si dia in parte la colpa alla mancanza delle strade consolari […] le vince però in popolazione […] e nel numero delle case religiose».
L’agro potentino si estendeva per 40.000 tomoli e, di questi appezzamenti, solo la metà era coltivata per mancanza di manodopera, ed apparteneva alla Chiesa ed al conte Loffredo, peraltro corrispondente ed allievo di Antonio Genovesi; solo pochi lotti appartenevano all’Università e la piccola proprietà privata era gravata da censi e canoni, senza possibilità di affrancamento.
Gli anni compresi tra il 1730 e il 1760, comunque, fecero registrare un discreto incremento demografico: dal Catasto onciario del 1753, infatti, risultano censiti 7721 abitanti, dei quali 2195 erano lavoratori: il 59,5% nel settore agricolo, il 16% nell’allevamento, l’11,4% era composto da piccoli artigiani. Questa situazione iniziò a registrare un trend negativo a partire dagli anni Sessanta, con la cri-si economica che impose, di fatto, un aumento esponenziale dei prezzi dei beni di prima necessità, nonostante l’autorità regia avesse imposto a tutte le Università la provvista annonaria: in effetti, il grano non era sufficiente, anche perché alcuni possidenti avevano sottratto dai magazzini grandi quantità di cereali, imponendo poi il loro pane a prezzo maggiorato. La situazione, dunque, costrinse, a Potenza come in altre realtà del Mezzogiorno interno, la popolazione a soddisfare le esigenze del vitto con un’alimentazione a base di verdure o, in alcuni casi, come documentabile dai registri delle locali chiese, di erbe selvatiche, il che provocò un’impennata di morti tra il 1763 e il 1764, con il decesso di ben 1200 persone. La situazione migliorò solo nel 1765, quando arrivò grano da Lecce a prezzo contenuto, innescando un brusco e deciso calo della mortalità che durò per 15 anni. L’effetto “carestia-mortalità” si reinnescò, infatti, nel 1782, con un raccolto scar-so e la nuova crisi di tutto il sistema annonario, registrata anche nel 1785 e nel cruciale 1799. 
Dai registri parrocchiali dei nati e dei morti delle parrocchie di San Michele e di San Gerardo, comunque, risulta che il saldo nati-morti nella parrocchia di San Michele fosse di stasi, mentre nella cattedrale i nati superarono i morti; ciò si può spiegare a causa dalle diverse condizioni di vita in questi rioni e delle condizioni igienico-sanitarie: infatti, nel rione costituito dalle abitazioni attorno alla chiesa di San Michele abitavano contadini che vivevano perlopiù nei sottani, mentre i ceti privilegiati e il locale patriziato dimoravano nei pressi della cattedrale di San Gerardo.
Anche questa cittadina di provincia, infatti, fu interessata da peculiari dinamiche socio-economiche legate a quella che è definibile “borghesia agraria”, nata all’ombra del feudo e della cattedrale e che a Potenza, nel 1751, durante un pubblico parlamento, si oppose al conte rifiutando di votare i nomi da lui proposti. Questa borghesia era formata per la maggior parte da massari che, attraverso un’intensa attività delle loro aziende agricole, erano riusciti a raggiungere una notevole indipendenza economica (tanto che in alcuni casi erano più ricchi degli stessi nobili). Alcuni esponenti di queste poche famiglie riuscirono, grazie ad accorte politiche matrimoniali, strategie familiari ed investimenti, a inserirsi nel governo della città già a partire dal 1799. La crescita della borghesia agraria potentina è riscontrabile, in effetti, anche dalla crescita della città verso est, cioè verso il cosiddetto Castello e verso palazzo Loffredo, quest’ultimo punto di riferimento per quelle famiglie benestanti che di volta in volta avevano mirato a scegliere o costruire le proprie dimore nei pressi di esso: gli Addone e i Ciccotti abitarono addirittura nella Cavallerizza, mentre numerosi altri avevano potuto stabilire la propria residenza nelle vicinanze del palazzo comitale e del Sedile, caratterizzando quest’area urbana come la parte centrale – anche dal punto di vista sociale – della città.

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