domenica 21 ottobre 2018

Personaggi. 20a. Giovan Battista Scalfati (Claudia Pingaro)

La lunga vita di Giovan Battista Scalfati – novantadue anni intensamente vissuti – fu in gran parte dedicata alla riflessione illuministica e riformatrice che nel corso del secolo XVIII coinvolse gli studiosi nel dibattito filosofico e culturale tout court. Molti tra gli esponenti dei ceti dirigenti europei – con gradualità e modalità differenti da Stato a Stato, da regione a regione, da provincia a provincia, da città a città – grazie all’impegno profuso da un lato nell’attività speculativa e dall'altro nella pratica politico-amministrativa, sovvenzionarono, spesso, anche la produzione letteraria contribuendo alla propria “metamorfosiˮ e rimuovendo, via via, l’idea dell’arbitrarietà legata al privilegio. Nell’evoluzione tutt’altro che facile, piuttosto complessa e articolata, del protagonismo nobiliare europeo nel XVIII secolo Giovan Battista Scalfati occupa un ruolo non marginale. Riuscì, fuor di dubbio, ad essere protagonista di un mondo in cui le trasformazioni e i mutamenti rappresentarono il prodotto di un tempo storico “illuminato” dalla ragione e intriso del desiderio, da parte di molti, di concorrere efficacemente allo sviluppo di quell’universo culturale. La vicenda intellettuale e umana di Scalfati, dunque, percorre l’intero arco temporale del XVIII secolo e ha il sapore di una traversata conradiana in un mare denso di difficoltà e contraddizioni dove si rincorrono i motivi di un’esistenza segnata sia dalle vicissitudini famigliari, sia dall’amore per gli studi. La biografia di Giovan Battista Scalfati è simile a quella di tanti “intellettualiˮ e riformatori meridionali che elaborarono un “progetto politicoˮ analizzando dapprima la realtà economico-sociale del Mezzogiorno, aderendo poi alla fiorente stagione riformatrice degli anni Ottanta del secolo XVIII e condividendo, infine, la scelta rivoluzionaria del 1799. Per Scalfati e per molti di questi protagonisti l'adesione alla Repubblica Napoletana del 1799 e le funzioni politico-amministrative svolte all'interno delle neonate istituzioni rivoluzionarie (le Municipalità erette in tutte le Università meridionali) rappresentò il superamento della linea d’ombra verso la consapevolezza di una più compiuta maturità politica. 
Giovan Battista Scalfati nacque, da illustre ed influente famiglia, a Nocera de’ Pagani, in Principato Citeriore, il 13 maggio 1712 e vi morì il 24 ottobre 1804. Figlio del Magnifico don Bartolomeo e di donna Prudenza Scalfati, alla nascita gli fu imposto il nome di uno dei sette fratelli del padre che insieme a don Giuseppe, don Nicola, don Gennaro, don Fabio, don Domenico e donna Angela, componevano la numerosa prole di don Francesco Scalfati e donna Francesca Ferrigno. Primo di quattro figli, Giovan Battista – “patrizio nocerino” per diritto di primogenitura – ebbe un fratello, don Matteo, e due sorelle, donna Teresa e donna Felicia. A soli diciassette anni, il 13 settembre 1729, Giovan Battista insieme al fratello Matteo, venne nominato erede universale dell’intero asse patrimoniale del magnifico don Giuseppe Scalfati, fratello del padre morto senza lasciar figli. Benché fosse dottore in Legge, Scalfati stesso affermava che “l’economia della famiglia era da me amministrata, e per tale motivo non mi si è dato luogo di esercitare alcuna professione”. Si occupò, infatti, della gestione dei beni di famiglia rappresentati da notevoli possedimenti terrieri, case in città, vigne, oliveti, campesi, selve, una cava di pietra e l’intera montagna di Fiano, nei pressi di Nocera, demanio dell’Università di Pagani, “di circa 36 moggia […] verso il distretto di Sarno”. Il ruolo preminente della famiglia Scalfati nella società nocerina era sinonimo di influenti relazioni sociali, di funzioni determinanti all’interno della struttura organizzativa del potere cittadino e dei relativi centri decisionali della politica locale. Scalfati era, dunque, espressione del sistema patrizio cittadino e figura di spicco nello spazio politico urbano. Fu il maggior contribuente dell’Università di San Matteo: prestavano servizio presso la famiglia un Cappellano privato, un precettore per i figli e un cocchiere; i beni erano costituiti dalle proprietà di cui innanzi si è detto. Vari legati pii obbligavano la famiglia: primo fra tutti il beneficio di San Carlo eretto nella Chiesa di San Matteo e altri addetti alla Cappella di San Carlo “situata sotto la casa palaziata dei Signori Scalfati”. Le attività economiche relative alla gestione delle cospicue proprietà, garantivano notevoli guadagni: dalla vendita di legname della montagna di Fiano al vino e agli altri prodotti agricoli, oltre alle rendite annuali derivanti dai possedimenti demaniali. Dal matrimonio con la nobildonna di origine spagnola donna Antonia d’Açevedo […] nacquero “molti figli, cioè cinque maschi, e cinque femine”: Bartolomeo, primogenito, Tenente aggregato nel Battaglione degli Invalidi; Gennaro; Luigi, sacerdote secolare e cappellano della Real Cappella; Domenico, frate  dell’ordine dei Padri Predicatori e Maestro di filosofia nel Seminario di Benevento; Francesca e Teresa, religiose coriste nel Monastero di Sant’Anna di Nocera; Rosa, corista nel Monastero della Carità. Altre due figlie morirono “in età adulta” dopo aver preso i voti; una di esse “ha finito i suoi giorni nello stato di pazzia” sei mesi dopo la professione. Tra i beni dotali della moglie, Antonia d’Açevedo, vi era una casa palaziata composta da più appartamenti a Napoli, nel quartiere della Taverna Penta (nei Quartieri Spagnoli, a ridosso di via Toledo, attualmente via Emanuele De Deo al quale fu intitolata la strada sul finire del secolo XIX). 

Nella Capitale del Regno Giovan Battista dimorò con la propria famiglia nella casa alla Taverna Penta allorquando i figli “avevan bisogno di educazione [e] si giudicò savio consiglio di situare in Napoli tutta la mia famiglia”. A Napoli Scalfati si misurò con il dinamismo intellettuale e con l’effervescente clima culturale della Capitale dando prova del proprio talento di saggista, di riformatore e di cultore della storia del Regno come è annotato dall’editore Gravier nella ristampa della cinquecentesca Istoria delle Cose di Napoli di Gregorio Rosso. Nella Capitale lo studioso nocerino pubblicò le proprie opere sul “Giornale Enciclopedico del Regno di Napoli”, mensile fondato e diretto da un altro intellettuale meridionale, originario di Piaggine, Giuseppe Vajro Rosa. L’impegno riformatore di Giovan Battista Scalfati, l’attitudine agli studi filosofici, giuridici ed economici rappresentarono l’essenza della propria esperienza umana, il valore aggiunto alla crescita intellettiva poiché “l’educazione […] procede con maggiore lentezza, ed incontra maggiori ostacoli, trattandosi di poter rendere abili gli uomini all’adempimento dei doveri sociali, specialmente tra le famiglie distinte, gl’individui delle quali debbono cavalcare impieghi della civil società, per i quali si richiede non solamente la volontà emendata, e perfetta, ma parimente l’intelletto culto, ed illuminato. E chi mai ignora quanto sia ardua impresa l’acquisto delle scienze, le quali sono di assoluta necessità per l’esercizio degli impieghi sociali”. In ossequio a tali princìpi, Scalfati si adoperò per garantire un’adeguata istruzione ai propri figli: “con questi principj io ho procurato con tutto l’ardore di rendere i miei figliuoli scienziati; e per far eseguir questo disegno ho procurato di far loro apprendere non solamente la scienza propria per ciascuna professione, ma primieramente quelle, che sono necessarie per la perfezione dell’uomo sociale”. Le traversie famigliari rappresentarono per Giovan Battista Scalfati ricorrente motivo di meditazione e di apprensione. Bartolomeo, suo primogenito, entrato nel corpo dell’Artiglieria “il quale essendo corpo facoltativo richiede la cognizione di molte scienze”, si distinse come “uno de’ migliori officiali di detto corpo, e giunse a cavalcare il grado di Tenente” di stanza a Gaeta prima, successivamente a L’Aquila e a Palermo. Ottenuta una promozione al grado di Capitano, “senza poterne penetrar la ragione, egli il ricusò. E come tale rinuncia fu giudicata effetto di pazzia, e scempiaggine del medesimo: per tal motivo si dovette giuridicamente esaminare dal comandante del corpo lo stato di questo soggetto, e dopo quattro mesi di informo, e di esame fu sollecitamente decretato, che egli era inatto, e perciò escluso dal corpo dell’Artiglieria, e destinato nel Battaglione degli Invalidi, ritenendo l’istesso grado di Tenente col soldo di docati nove al mese, i quali furono dati per mera grazia, mediante le mie suppliche presentate al Re, ed i meriti di mio fratello”. Sconfortato per la triste vicenda che coinvolse il primogenito, Scalfati manifestava la propria amarezza ammettendo che “Don Bartolomeo è destinato a menare una vita oscura, la quale è oggetto di compassione per ogni uomo che considera le vicende umane”. Significativi e controversi nella vita di Giovan Battista Scalfati furono, inoltre, i rapporti con il fratello Matteo. Luigi Scalfati, discendente della famiglia nocerina, nella sua Storia della Famiglia Scalfati. Ramo di Casal del Pozzo. Ramo del Borgo. Ramo di San Matteo. Dalle origini al 1972 (pubblicato a Roma nel 1972) riporta i fatti in modo dissimile rispetto a quanto è emerso dall'esame della documentazione archivistica. In primo luogo la figura di Matteo risulterebbe, per quel che afferma Luigi Scalfati, molto più degna di considerazione rispetto a quella del fratello Giovan Battista. In particolar modo – certamente a causa di contrasti relativi a questioni patrimoniali – i rapporti tra i due fratelli furono oggetto di accese controversie nell’ambiente domestico. Luigi Scalfati riferisce addirittura di una condotta moralmente riprovevole di Donna Antonia d’Açevedo. Afferma, perfino, Luigi Scalfati che “la condotta, pare, non del tutto irreprensibile di Antonia, peraltro neanche contrastata col dovuto rigore dal marito Giovan Battista, sempre immerso nei suoi studi scientifici e filosofici, produsse un intiepidimento dei rapporti tra la famiglia di costui e quella del fratello Matteo, sì da consigliare una divisione financo dei beni terrieri notevolissimi”. A ciò si aggiunga il fatto che Luigi Scalfati ignorasse l’esistenza della numerosa prole di Giovan Battista e Antonia tanto che nella sua Storia riferisce semplicemente che Giovan Battista “sposò la nobile Antonia d’Açevedo di stirpe spagnola ed ebbe un unico figliuolo Bartolomeo, col quale si estinse il suo ramo”. Queste considerazioni farebbero propendere per un ridimensionamento della vicenda umana e intellettuale dell'Autore nocerino quasi che la sua figura e la sua complessiva vicenda, fossero state intenzionalmente consegnate all'oblio dai suoi stessi congiunti. Il Testamento di Scalfati, redatto dal notaio Francesco Antonio Caso, conduce in un’altra direzione e rivela particolari inediti relativi ai rapporti famigliari, alla gestione delle proprietà e ai propositi di Giovan Battista maturati durante il corso della sua esistenza. Nell'atto contenente le ultime volontà, l'Autore affermava che “convien confessare che donna Antonia mia moglie era una donna timorata di Dio, ed in tale stato si ha fatto un preciso dovere di educare con tutta l’esattezza, e rigore le figliuole femine al numero di cinque”. Giovan Battista, come già detto, governò l’economia della famiglia, mentre Matteo “per non essere peso alcuno […] giudicò si dovesse impiegare, come realmente fece con applicarsi da principio alla professione di Paglietta, e quindi mutato pensier rivolse l’animo allo stato militare, e si comprò l’impiego di Capitano di Fanteria, nel quale impiego, par che la cultura de’ suoi talenti rimaneva inutile: fu per mio consiglio indotto a passare nel corpo dell’Artiglieria. Questo passaggio ebbe il suo effetto per opera mia, impiegando i maneggi dello spirito e della borsa”. Le esigenze economiche di Don Matteo Scalfati furono, pertanto, sempre sostenute dal fratello che, secondo il costume dell’epoca, provvedeva al “decoro del suo mantenimento, giacché così la carrozza, come la servitù era a lui consagrata”. L’ingente patrimonio della famiglia Scalfati, in sostanza, era interamente gestito da Giovan Battista in quanto primogenito. Tuttavia, il 13 febbraio 1765 “esso Don Matteo chiamò la divisione del patrimonio, e prese per moglie [Donna Anna Elisabetta]” figlia del Maresciallo Giuseppe Von Schörn e della nobildonna nocerina Maria de’ Vincenzi. In seguito alla divisione del patrimonio, si verificò in famiglia una temporanea difficoltà finanziaria dovuta al concreto dimezzamento del patrimonio determinato dall’‟operazione degli stessi miei Domestici, i quali per i loro proprj vantaggi mi avevano voltata la spalla; sicché debbo esclamare: altitudo divitiarum sapientia et scientia Dei”. In realtà, l’anzidetta divisione del patrimonio non impedì a Giovan Battista Scalfati di continuare a mantenere un tenore di vita elevato per sé e per i congiunti, sia per sostenere dignitosamente i figli maschi e garantire loro un'appagante collocazione sociale, sia per le monacazioni e le relative quote dotali a favore delle figlie. All’interno della struttura sociale nocerina d'ancien régime, Scalfati si distinse per la sua manifesta autorevolezza: importante punto di riferimento culturale, osservatore scrupoloso della realtà locale, sostenitore di idee innovative, esperto di diritto, di filosofia e di economia, coinvolto, dunque, a pieno titolo nella temperie culturale del suo tempo e del suo spazio. Sentì forte l’esigenza di scrutare il mondo per ascoltare e condividere le parole del “signor Hume”; comprese la necessità di spaziare nell’universo culturale europeo per coglierne gli elementi innovativi potenzialmente utili alla realtà nocerina e sinceramente ispirati ai principi dell’interesse generale e della pubblica utilità. Ottantatreenne nel 1799, nei sei mesi repubblicani a Nocera de’ Pagani, fu attivista, collaboratore delle Municipalità, referente locale del Governo Provvisorio di Salerno. Nella sua abitazione nocerina, difatti, si davano convegno i municipalisti che avevano aderito alla Repubblica e suo figlio Gennaro ricopriva incarichi amministrativi in città insieme agli altri esponenti filorepubblicani. Giovan Battista Scalfati finì i suoi giorni nella casa natale, all’età di novantadue anni, il 24 ottobre 1804. Il 20 maggio 1802 aveva provveduto a redigere le sue ultime volontà, sigillate e consegnate al notaio Francesco Antonio Caso. Il 16 novembre 1804, ad un mese circa dalla sua morte, il figlio Gennaro, nella “casa palaziata Paterna sita in ristretto di questa riferita città di Nocera, luogo chiamato casa Scalfati”, richiese l’apertura del testamento. Don Gennaro Scalfati era stato designato erede universale e particolare di tutti i beni della famiglia di qualunque natura e qualità; la semplice legittima spettava, invece, agli altri figli maschi e vari vitalizi erano assegnati alle figlie monache. L’elencazione puntuale dell’asse ereditario era stato trascritto, per volontà di Giovan Battista Scalfati, “mediante istromento rogato per mano di Notar Don Rogiero Benevento nel giorno 28 febbraio corrente anno 1802”. Ancora in vita, Scalfati dispose che “seguita sarà la mia morte, il mio corpo sia seppellito nella sepoltura gentilizia di mia famiglia esistente nella chiesa di San Francesco de’ Padri conventuali di questa Città di Nocera e che le mie esequie siano fatte senza alcuna pompa, ma come sogliono pratticare i poveri cittadini di questa Città”. Per l’Autore nocerino nulla costituiva certezza maggiore della morte, nulla di più incerto riguardo alla sua ora. 
Come ogni uomo della sua epoca, aveva affidato l’anima a Dio con enfasi maggiore di quanta ne utilizzasse per trasmettere i propri beni agli eredi. In realtà, ambiva a gestire il proprio trapasso dalla vita terrena a quella eterna con i conforti della religione, circondato dall’affetto della famiglia e dal rispetto dell’intera comunità, affinché dopo la morte l’anima raggiungesse l’agognata pace. Il mondo culturale di Scalfati percepiva ancora la morte come il momento più solenne dell’esistenza umana, grande egualizzatrice, un’anticipazione del giorno del giudizio. La meditazione del de cuius circa la certezza cristiana che l’anima fosse più degna e più nobile del corpo, emergeva a chiare lettere in tutti gli atti mortis causa esaminati dalla studiosa. Anche Scalfati, immaginando il proprio trapasso, rifletteva sull’immortalità dell’anima e sulla caducità della vita terrena: “la filosofia m’insegna, che l’anima umana è immortale, ed il Vangelo mi rappresenta in quel gran giorno Gesù Cristo, che chiama i buoni a godere il Regno eterno, e condanna i malvagi al fuoco eterno. Questi pensieri io l’applico a me stesso e considero questa gran vicenda, alla quale debbo essere destinato io medesimo, come vi è destinato tutto il genere umano; e tal pensiero mi riempie di spavento. L’Apostolo Paolo dicea: mihi nihil conscius sum, sed non in hoc justificatus sum”. 
Sgomento come ogni uomo al pensiero della morte, Giovan Battista Scalfati ha, tuttavia, consegnato alla Storia la testimonianza di una vita coerente, intensa, consacrata agli studi, alle riflessioni sul suo tempo storico e sul suo mondo. Esponente di un ceto – quello patrizio cittadino – legato al privilegio di nascita, seppe condividere le scelte coraggiose che le contingenze imponevano e, convinto che un nuovo corso politico-istituzionale avrebbe spianato la via al progresso, approvò le scelte repubblicane nei sei mesi rivoluzionari del 1799. La sua biografia, di cui si è dato brevemente conto, rivela le angosce e gli affanni di un uomo che mise principalmente in gioco se stesso e la propria credibilità di studioso, affinché restasse di sé qualcosa di significativo e apprezzabile.

BIBLIOGRAFIA
Sulla figura e sul ruolo svolto dall’Autore nocerino rimando a C. PINGARO, Il filosofo profondo. Giovan Battista Scalfati, patrizio di Nocera (1712-1804). Cultura e dibattito riformatore nel regno di Napoli, Libellula Edizioni Universitarie, Tricase, 2010.

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