Il sottosistema Italia si presentava, all’interno del Sistema Imperiale Spagnolo, scisso a sua volta in vari domini, ognuno contraddistinto da un proprio assetto di governo.
La Spagna non poteva quindi uniformare la gestione delle suddette specificità politico-territoriali mediante l’applicazione dello stesso indirizzo di governo e aveva a tal fine predisposto con la nomina di appositi funzionari accanto alla promozione di personale locale, il controllo di ciascuna parte, con la creazione di organi di governo con funzioni esecutive.
La Spagna quindi non incorse nell’errore di delegittimare la struttura istituzionale indigena al momento del suo impianto in Italia, ma al contrario salvaguardandone il rispetto e la legittimità riuscì a guadagnarsi la base per il consenso, intrecciando una fitta rete di compromessi tra vari protagonisti della scena politica del tempo.
Secondo Musi, i tre compromessi alla base della lunga durata del governo spagnolo nel Mezzogiorno sono identificabili innanzitutto in quello esistente tra Monarchia e capitale del Regno, tra Monarchia e aristocrazia feudale e infine tra sistema fiscale e finanza privata.
Il legame tra Napoli e la Corona, già ampiamente illustrato più addietro fondava la sua struttura portante sul ruolo egemonico riconosciuto alla Capitale tra gli altri domini soggetti agli spagnoli, di cui si riconoscevano immunità, privilegi fiscali, una relativa indipendenza amministrativa per la capacità di difendere proprie leggi e consuetudini nonché sulle funzioni svolte in ambito economico (importante snodo per il mercato di consumo fondato sullo sfruttamento delle risorse provenienti dalla periferia), politico-amministrativo – non solo per la presenza della Corte e lo sviluppo della burocrazia ma anche per la promozione di quelle professioni legate alla macchina statale per le quali soltanto Napoli poteva offrire una formazione più qualificata – per la sua essenza di corpo privilegiato (sia per il reale potere di contrattazione con la Corona in forza di quell’insieme di immunità che le erano state concesse, sia in quanto sede di servizi essenziali come l’annona, l’assistenza, la tutela della povertà strutturata) e per la non meno importante funzione militare (secondo quando enunciava la teoria di Riley).
Riguardo al secondo compromesso messo in luce da Musi, occorre innanzitutto inquadrare il peso politico della nobiltà meridionale all’avvento degli spagnoli. Con il sopravvento del sovrano spagnolo si realizzò un cambiamento della figura del barone, che dovette rientrare suo malgrado in un nuovo ordine gerarchico per cui, abbandonata la veste quasi regale del suo dominio fino a quel punto esercitato, cominciò a vedersi declassato al ruolo di mero funzionario del re.
Come ricordato anche da Galasso, i baroni dovettero dunque rinunciare alla pretesa di trattare alla pari con la monarchia, accettando di diventare cortigiani, uomini della Corte del sovrano, sudditi privilegiati e titolati rispetto a tutti gli altri, minoranza eletta e legata al sovrano da un vincolo personale di fedeltà, ma pur sempre sudditi
continuando ad esercitare nei rispettivi feudi il potere a loro delegato dal sovrano, che tuttavia continuava a crescere nel complesso delle giurisdizioni a essi spettanti, sebbene non potessero più usarlo come avevano fatto in passato contro il sovrano, dotato ormai di un potere di controllo inoppugnabile.
Venne a crearsi quindi «uno schieramento monarchico-feudale, fondato sul rispetto reciproco di limiti, obblighi, di interessi».
C’è anche chi ha inteso sottolineare altri spazi della dialettica Monarchia-feudalità, evadendo dal principale impianto meramente politico, quali ad esempio gli esiti sul fronte economico-sociale, come mostra la ricerca ad opera di Gerard Délille che concepisce il sistema feudale del Mezzogiorno come «un sistema di redistribuzione della proprietà» non determinato solo da obiettivi di natura economica, ma popolato di attori di primaria importanza come il potere monarchico, quello baronale, la Chiesa dopo il Tridentino.
Délille è interessato a quei meccanismi legati alle strategie patrimoniali, matrimoniali, alla legislazione ecclesiastica, ai vincoli culturali dell’aristocrazia feudale, alla risposta baronale al controllo sui propri feudi in base ai dettami delle costituzioni federiciane del 1231, che avevano privilegiato la linea sul lignaggio garantendo alla Monarchia il diritto di devoluzione. Per “sistema di lignaggio” si intende la divisione del patrimonio all’interno di una famiglia numerosa e il matrimonio delle figlie femmine ereditiere a circuito chiuso internamente al lignaggio, prevalente tra XV e XVII secolo. Tale meccanismo, in linea con la dinamica del compromesso, costituiva una strategia che cercava di ottenere un duplice effetto: da un lato la conservazione del feudo all’interno del lignaggio, dall’altro la difesa del controllo regio come garanzia per i beni posseduti.
Va detto che sia la legislazione ecclesiastica che quella regia favorivano, nei secoli considerati, la liberalizzazione del mercato dei feudi; per difendersi dal sopravvento di tale eventualità si fece ampio ricorso all’istituto della primogenitura e del fedecommesso e tali tattiche permisero all’aristocrazia di mantenere pressoché intatta la propria composizione almeno fino alla fine del XVIII secolo.
Si può affermare in conclusione che i termini fondamentali del compromesso tra Corona spagnola e baronaggio non furono intaccati neppure dall’affermazione del ceto togato e dall’egemonia del potere ministeriale che andò affermandosi a metà del XVI secolo, che risultò anzi «funzionale al dominio del potere feudale nelle province del Mezzogiorno tra la metà del XVI e il XVII secolo».
Erano però mutati i termini di confronto tra la Corona e i baroni che divennero nient’altro che «i primi e i più eccellenti tra i sudditi del re» ridotti «da potenza a uno dei poteri della società».
Tutto questo ebbe delle dirette ripercussioni sulla parte più debole del Regno, ossia sulle periferie su cui i baroni estendevano il loro dominio, spesso sotto forma di veri e propri abusi che comprendevano l’usurpazione di terre comuni delle Università, maltrattamenti di persone, evasione fiscale, accanto al venir meno del controllo della monarchia riguardo alle periferie del reame; e proprio la nobiltà che aveva abusato delle sue prerogative sarebbe divenuta il bersaglio di varie rivolte, come la celebre rivolta di Masaniello, moto antifiscale e antifeudale di cui si è già trattato più addietro.
Per quanto concerne, infine, il terzo compromesso, relativo al quadro finanziario, gli Spagnoli non effettuarono interventi significativi all’interno delle istituzioni finanziarie napoletane se non per l’introduzione di banchi pubblici e fiere di pagamento, per l’ampliamento del mercato monetario con un vistoso movimento di somme sulla base della circolazione fiduciaria che portò alla creazione di nuovi strumenti di credito come il mutuo a breve e lungo termine (il primo riguardava anticipi di reddito fatti alla monarchia da esattori privati, mentre il secondo concerneva l’impegno preso in misura maggiore da corporazioni di città di pagare attraverso rimborsi annuali per un certo periodo di tempo e al tasso prefissato) e sul forte intreccio esistente tra finanza pubblica e finanza privata, se si pensa che da un punto di vista generale, a partire dal secolo XIV, cominciavano a circolare articolati strumenti di gestione finanziaria del credito come la girata, la lettera di cambio.
Fino alla metà del XVII secolo Napoli conobbe un notevole sviluppo della finanza regia che si espresse mediante il ricorso all’aumento della pressione fiscale con l’incremento di imposte dirette e indirette nonché straordinarie (tra cui rientravano i donativi, contribuzioni che il Regno offriva al Re su sua richiesta), sebbene il fulcro del prelievo fosse costituito sempre più dal gettito ottenuto tramite l’aumento di imposte indirette che non fecero altro che impoverire il Regno, con il diretto aumento del debito pubblico.
In aggiunta ai suesposti compromessi ve ne era certamente un quarto, che opponeva la parte laica del Regno alla gerarchia ecclesiastica. Dunque, accanto al baronaggio, al potere assunto dalla Capitale del Regno e alla preponderante funzione della finanza stretta tra sfera pubblica e privata, vi era un altro potere, impersonato dalla Chiesa che con il Concilio di Trento visse una fase di riforma ecclesiastica, riaffermando la centralità del pontefice a capo della comunità cristiana e fondendosi sempre più con la gerarchia laica del potere per cui se lo Stato acquisì una veste sempre più confessionale, accrescendo la componente rituale delle proprie funzioni di governo, la Chiesa dal canto suo, prese a politicizzarsi, assumendo caratteristiche proprie di un corpo laico. Alla luce delle precedenti considerazioni si può affermare che la realtà storica che venne costituendosi nel Mezzogiorno italiano, nutrita da quegli elementi di modernità introdotti dalla politica carolina prima e filippina poi, fu tutt’altro che «bloccata» da fattori sociali, economici, giuridici, culturali e al contrario caratterizzata da un’accentuata mobilità delle strategie politiche, del sistema dei rapporti, dal difficile equilibrio tra dominio, consenso, compromesso, «pactismo» attraverso una riorganizzazione strutturale del potere pubblico per cui i ceti dominanti passano da ruolo di potenze dotate di un grado elevato di concentrazione politica al ruolo di poteri nella società alla luce di una prospettiva rivisitata che al secolare e radicato pregiudizio sfavorevole nei confronti della dominazione spagnola in Italia, della sua politica economica e sociale, del suo fiscalismo, delle sue alleanze con i ceti privilegiati, cui corrisponde la visione di una società segmentata e articolata in “ordini” e “corpi”, incapaci di esprimere aggregazioni più ampie di obiettivi ed interessi, alla completa mercé dei dominanti stranieri.
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