giovedì 6 ottobre 2022

Potenza. 6. La "Parata dei Turchi"

 Il collante di aggregazione di tutti gli abitanti del capoluogo della Basilicata è, fondamentalmente, la festa di San Gerardo, con la “Parata dei Turchi”, evento sentito dai cittadini e (spesso oziosamente) dibattuto dagli studiosi e dai cultori locali. Si tratta senza dubbio del momento intorno a cui, più di ogni altro, si manifesta ed esplicita il rapporto tra richiamo alla tradizione e processo di costruzione dell’identità potentina, a livello laico (come festa di popolo) e religioso (come benedizione del Santo alla sua città predisposta alla fioritura estiva). 


La festa ha subito diverse trasformazioni, a partire dall’epoca del cronista tardo ottocentesco Raffaele Riviello, che per primo l’ha descritta nella sua Cronaca Potentina e nei Ricordi e note su costumanze, vita e pregiudizii del popolo potentino, definendola come «la festa più rumorosa, più lieta e più caratteristica» della città. Sarebbe nata dopo la proclamazione di San Gerardo a principale protettore del capoluogo, scalzando il precedente patrono Sant’Aronzio. 

A suo fondamento erano la questua (detta “cerca pe’ S. Girard’”); la novena; la preparazione di vestiti e ornamenti per la processione; i giri delle compagnie “di li tammurr’” e delle bande musicali; le luminarie nella “Chiazza” (Piazza del Sedile) e in via Pretoria; la “Machina”, ossia la rappresentazione di un alto tempio, posta di fronte alla Casa Comunale e in cui, «presso l’altare, si posava la statua di S. Gerardo in argento, insieme agli altri Santi, quando, dopo il giro della processione solenne, si sparava il fuoco di batterie». E ancora, le iaccare, «cioè grandi falò, fatti di cannucce affasciate attorno attorno ad una trave sottile e lunghissima, per divozione di qualche bracciale possidente, di proprietario vanitoso, o per incarico dei Procuratori della festa», innalzate nelle piazze e negli slarghi, accese il giorno della vigilia (29 maggio) e che venivano fatte ardere per tutta la notte. 

Ma secondo Riviello «la parte più originale, brillante e fantastica della festa popolare», era la parata dei Turchi, che, già negli anni in cui Riviello la descriveva aveva subito, secondo lui, «parecchie ritoccature»: si era, infatti, arricchita di valletti e scudieri, ma erano ormai soprattutto i ragazzini che si vestivano da turchi, invece dei contadini di un tempo, mentre la nave non era più «la barca, o tartana», bensì un «bastimento col fumaiuolo a vapore, e con boccaporti e cannone a pittura». Sempre gli stessi erano invece il Gran Turco (oggi detto “Civuddin’”), «con la barba di stoppa e la grossa e lunga pipa» che, «lisciandosi con maestà i baffi», si lasciava «tirare in carrozzella, seguito da una coppia di alabardieri a cavallo»; e il Carro «con l’imagine di S. Gerardo, fatto a trasparenza e illuminato da lampioncini di carta a varii colori, con ragazzi vestiti da angioli ed agitanti i turiboli», «portato a spalla da contadini, che divotamente cioncano ad ogni fermata». Erano questi i segni distintivi della festa di San Gerardo. Insomma, era ed è la vigilia a conferire carattere di originalità alla festa, che dal 1886 si celebrò nella giornata del 30 maggio con la solenne processione in onore del santo patrono, a cui partecipavano le congregazioni, gli ordini monastici e i sacerdoti, ognuno con i propri segni distintivi e la statua del proprio santo. I santi erano dodici, tanti quanti gli apostoli. Raffaele Riviello, dunque, fu il primo a dare una descrizione completa della festa nella sua dimensione laica e giocosa e in quella liturgica e solenne, che conferivano, e ancora conferiscono, ad essa un carattere unico e simbolico come aggregatore della città e dei suoi abitanti. 

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