Il collante di aggregazione di tutti gli abitanti del capoluogo della Basilicata è, fondamentalmente, la festa di San Gerardo, con la “Parata dei Turchi”, evento sentito dai cittadini e (spesso oziosamente) dibattuto dagli studiosi e dai cultori locali. Si tratta senza dubbio del momento intorno a cui, più di ogni altro, si manifesta ed esplicita il rapporto tra richiamo alla tradizione e processo di costruzione dell’identità potentina, a livello laico (come festa di popolo) e religioso (come benedizione del Santo alla sua città predisposta alla fioritura estiva).
La festa ha subito diverse trasformazioni, a partire dall’epoca del cronista tardo ottocentesco Raffaele Riviello, che per primo l’ha descritta nella sua Cronaca Potentina e nei Ricordi e note su costumanze, vita e pregiudizii del popolo potentino, definendola come «la festa più rumorosa, più lieta e più caratteristica» della città. Sarebbe nata dopo la proclamazione di San Gerardo a principale protettore del capoluogo, scalzando il precedente patrono Sant’Aronzio.
A suo fondamento erano la questua (detta “cerca pe’ S. Girard’”); la novena; la preparazione di vestiti e ornamenti per la processione; i giri delle compagnie “di li tammurr’” e delle bande musicali; le luminarie nella “Chiazza” (Piazza del Sedile) e in via Pretoria; la “Machina”, ossia la rappresentazione di un alto tempio, posta di fronte alla Casa Comunale e in cui, «presso l’altare, si posava la statua di S. Gerardo in argento, insieme agli altri Santi, quando, dopo il giro della processione solenne, si sparava il fuoco di batterie». E ancora, le iaccare, «cioè grandi falò, fatti di cannucce affasciate attorno attorno ad una trave sottile e lunghissima, per divozione di qualche bracciale possidente, di proprietario vanitoso, o per incarico dei Procuratori della festa», innalzate nelle piazze e negli slarghi, accese il giorno della vigilia (29 maggio) e che venivano fatte ardere per tutta la notte.
Ma secondo Riviello «la parte più originale, brillante e fantastica della festa popolare», era la parata dei Turchi, che, già negli anni in cui Riviello la descriveva aveva subito, secondo lui, «parecchie ritoccature»: si era, infatti, arricchita di valletti e scudieri, ma erano ormai soprattutto i ragazzini che si vestivano da turchi, invece dei contadini di un tempo, mentre la nave non era più «la barca, o tartana», bensì un «bastimento col fumaiuolo a vapore, e con boccaporti e cannone a pittura». Sempre gli stessi erano invece il Gran Turco (oggi detto “Civuddin’”), «con la barba di stoppa e la grossa e lunga pipa» che, «lisciandosi con maestà i baffi», si lasciava «tirare in carrozzella, seguito da una coppia di alabardieri a cavallo»; e il Carro «con l’imagine di S. Gerardo, fatto a trasparenza e illuminato da lampioncini di carta a varii colori, con ragazzi vestiti da angioli ed agitanti i turiboli», «portato a spalla da contadini, che divotamente cioncano ad ogni fermata». Erano questi i segni distintivi della festa di San Gerardo. Insomma, era ed è la vigilia a conferire carattere di originalità alla festa, che dal 1886 si celebrò nella giornata del 30 maggio con la solenne processione in onore del santo patrono, a cui partecipavano le congregazioni, gli ordini monastici e i sacerdoti, ognuno con i propri segni distintivi e la statua del proprio santo. I santi erano dodici, tanti quanti gli apostoli. Raffaele Riviello, dunque, fu il primo a dare una descrizione completa della festa nella sua dimensione laica e giocosa e in quella liturgica e solenne, che conferivano, e ancora conferiscono, ad essa un carattere unico e simbolico come aggregatore della città e dei suoi abitanti.
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