giovedì 9 giugno 2022

Il Mezzogiorno moderno. 23. Una traduzione napoletana da Tacito



A Napoli veniva pubblicato, nel 1810, l’Agricola tradotto in italiano da Giuseppe De Cesare, del resto figura notevolissima di studioso e patriota e, come il Gargiulli, attore e spettatore di tutta l’età napoleonica.

Il napoletano De Cesare, infatti, aveva partecipato al governo repubblicano del 1799 come componente del Corpo municipale, mentre il fratello minore Francesco militava nell'esercito repubblicano. Entrambi avevano partecipato all’ultima difesa di Castel Sant'Elmo e, dopo la capitolazione, erano stati rinchiusi con altri “patrioti” nelle carceri della Vicaria. Il De Cesare fu infine condannato all'esilio e alla confisca di tutti i beni posseduti nel territorio del Regno. In esilio a Firenze, il De Cesare aveva pubblicato proprio la traduzione della Vita di Agricola di Tacito, che ben presto ebbe, tra i lettori, letterati del calibro di Monti e Cesarotti. A questi anni risale anche l’Esame della Divina Comedia, pubblicato a Napoli nel 1807 e che, come la traduzione tacitiana, ottenne un lusinghiero successo. 

Nel 1807, il De Cesare ottenne dal conte Agar de Mosbourg la carica di capo divisione nel ministero delle Finanze a Napoli, continuando la sua attività letteraria su diverse riviste letterarie locali. Collaborò, inoltre, alla progettazione del nuovo sistema finanziario, ricoprendo dal 1812 al 1820 la carica di amministratore generale dei Dazi indiretti. 

Perché l’Agricola? Lo esplicitava De Cesare stesso nella prefazione alla prima edizione del testo:

"Tutti converranno meco facilmente, che sia questa la più bella produzione di Tacito, ed il più bel pezzo di biografia dei Latini [...]. Tutto vi respira infatti la virtù più la più pura, le idee le più liberali e moderate nel tempo stesso, il santo amor della Patria, ed il più santo amore dell’Uman Genere tiranneggiato e vilipeso da Roma [...]. Quante riflessioni ci presentano i fatti che egli ci racconta! Quante applicazioni possiamo noi farne alle vicende dei tempi posteriori [...]".

De Cesare, dunque, ai due estremi dell’età napoleonica e, anzi, come “superstite” di essa fino all’età ferdinandea inoltrata, come testimone di una generazione che non arrivò, nemmeno in campo culturale, «prossima a morire alla storia», ma seppe intelligentemente adattare le direttive napoleoniche sull’educazione recuperando classici spesso non ben accetti dalla corte e dall’imperato-re stesso. Il classicismo “imperiale” e non più “repubblicano” diventava, dunque, un modo, in consonanza con la cultura politica del tempo, per “esemplarizzare” virtù civiche e morali che avrebbero dovuto servire da guida per la condotta nell’azione politica. 

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