giovedì 13 gennaio 2022

Risorgimento lucano. 43. Il 1848

 In Basilicata il biennio rivoluzionario 1848-49 si caratterizzò come fondamentale snodo del processo risorgimentale dopo le precedenti esperienze del 1799 e del 1820-21, peculiarità fondamentale ne furono anzitutto le società segrete. Nell’alveo dell’associazionismo politico liberale sviluppatosi a partire dal Triennio Repubblicano, queste organizzazioni rivestirono un ruolo rilevantissimo durante il sessantennio risorgimentale lucano. Laboratori di nuovi ed interessanti esperimenti politici, esse si rivelarono uno strumento molto efficace nel processo di emancipazione sociale e civile del popolo lucano, nell’articolazione delle sue espressioni professionali: infatti, in molti di questi istituti settari fu possibile rintracciare un comune denominatore teso ora a coinvolgere direttamente nelle proprie file gli esponenti più umili del popolo, ora a sviluppare programmi politici orientati a valutarne ed incoraggiarne il miglioramento delle condizioni di vita. 


Queste società segrete erano presenti in tutti e quattro i distretti della Provincia, con più larga prevalenza nel Lagonegrese, fulcro, nel giugno-luglio 1848, di una significativa azione rivoltosa condotta contro i Borbone e indirizzata a coinvolgere tutte le Province del Regno. Erano sette, quelle presenti nel Lagonegrese, riconducibili all’alveo di cultura politica democratica che guardava ad un Mezzogiorno d’Italia libero ed indipendente da qualunque dominazione straniera. 

Una tendenza ideologica, questa, ravvisabile anche nel Materano. Nel Melfese, ed in parte nel Potentino, era, invece, prevalente una presenza di cultura politica più moderata, volta a favorire un processo riformatore nel quadro del sistema dato. Tuttavia, proprio nel distretto di Potenza, si distinse la “Giovane Italia” di Pietrapertosa, quale esempio di massima spinta radicale. 

Lo statuto concesso da Ferdinando II nel 1848 fu accolto con grande giubilo dai governanti della Basilicata. La sua promulgazione, il 10 febbraio, fu salutato con l’uscita di un numero unico, «Il Costituzionale lucano», nel quale il sovrano borbonico, da feroce tiranno, veniva ora salutato come padre amorevole dei suoi sudditi. L’attività politica, in tutta la Basilicata, acquistò nuova linfa: la propaganda e la successiva elezione dei 13 deputati da inviare al Parlamento napoletano avviarono, tra l’altro, una seria riflessione sulle condizioni generali del territorio lucano.

In piena sintonia con le altre province del Regno, il 29 aprile 1848 fu istituito a Potenza un Circolo Costituzionale. Tali associazioni nacquero per opera di esponenti di governo locali, con obiettivo di facilitare la diffusione della Costituzione e salvaguardare l’ordine sociale. Infatti, strati più poveri della popolazione interpretarono la Statuto come punto di svolta per il miglioramento delle loro tristi condizioni di vita. Da ciò la presunta legittimazione a potersi impossessare, anche con la forza, di nuove terre e proprietà da sottrarre ai grandi possidenti. 

In Basilicata tali rivendicazioni furono particolarmente cruenti per tutto l’arco del biennio 1848-49. In quasi ogni centro abitato della Provincia lucana il proletariato rurale insorse più o meno violentemente per la spartizione dei terreni demaniali usurpati dagli ex feudatari o dalla ricca borghesia.

 Si trattò di episodi drammatici, con punte di autentica tragicità come nel caso di Venosa, ove persero la vita due cittadini che si erano opposti alle richieste di divisione. Ma fu proprio questo movimento su larga scala ad imprimere un’accelerazione alle quotizzazioni demaniali effettuate tra il 1848 ed i primi anni post-unitari, uguagliando, se non superando su tale versante, lo stesso Decennio napoleonico, che, come è noto, rappresenta uno spartiacque nella storia degli assetti territoriali, istituzionali ed economici del Mezzogiorno d’Italia.

Con la svolta del 15 maggio, quandoFerdinando II impedì la convocazione del Parlamento congelando, di fatto, l’attuazione delle norme costituzionali, il duplice ruolo del Circoli divenne di conseguenza centrale; le organizzazioni vennero a costituire l’ultimo baluardo a difesa di essenziali diritti socio-politici, ma, allo stesso tempo, potenziali centri di aperta ribellione contro il Governo. All’interno del Circolo Costituzionale si distinguevano due programmi politici opposti: da un lato quello delle forze moderate, guidate da Vincenzo D’Errico, volte a ricucire il rapporto con il Borbone; dall’altro quello delle forze radicali, guidate da Emilio Maffei, sicure che il cammino verso il progresso del Regno di Napoli sarebbe avvenuto solo rovesciando dal trono la dinastia di origine spagnola. Queste due correnti operarono con perfetta unità di vedute nei fatidici giorni 17 e 18 maggio, quando fondarono un Comitato delle Finanze e una Commissione di Pubblica Sicurezza. Questi organi si proponevano di prendere in mano una volta per tutte le sorti della Provincia lucana considerando seriamente la possibilità di un progetto di collaborazione politica e militare con le confinanti province calabresi e pugliesi. 

Con la Dieta Provinciale del 15 giugno, riservata ai delegati dei singoli circoli lucani e con la Dieta Federale del 25 successivo che registrò, invece, la partecipazione di delegati politici anche di Bari, Capitanata, Terra D’Otranto e Molise, si decise di agire ancora una volta diplomaticamente: venne in tal modo redatto un Memorandum, un documento programmatico che reclamava pacificamente ai Borbone tutta una serie di prerogative politiche, economiche e sociali. La componente massimalista, all’ultimo memento, non sottoscrisse più la protesta, considerando l’unica strada quella di appoggiare i piani politici della vicina Calabria, nel frattempo diventata fulcro della rivoluzione antiborbonica. 

 All’interno del Circolo Costituzionale lucano si consumò, così, una spaccatura che mai più si sarebbe ricucita. 

Ultimo atto di forza della componente radicale fu il tentativo di instaurare, in una clamorosa riunione con la parte moderata tenutasi l’8 luglio, un Governo Provvisorio valevole per l’intera Provincia di Basilicata. I moderati, tuttavia, rassicurando il Governo Centrale rappresentato dall’Intendente che si era loro affidato, riuscirono ad avere la meglio e a impedire quello che sarebbe stato un vero e proprio atto di guerra nei confronti di Ferdinando II. Questa decisione di Vincenzo D’Errico fu dettata non tanto dalla paura, ma dall’aver capito con maggiore lucidità degli altri che, per una serie di motivi di carattere organizzativo, militare, economico, sarebbe stato molto difficile per le province meridionali costituire un valido fronte offensivo contro l’esercito regio. 

Tuttavia alcuni elementi provano che molti circoli della Basilicata si erano veramente adoperati per rispondere all’appello calabrese. Possiamo cioè dire, che ad un certo punto, si attendeva il solo segnale del Circolo Costituzionale di Potenza per far muovere in armi, verso la Calabria, diversi Circoli lucani già organizzati. Ma l’ordine non arrivò. E nel mese di luglio le armate del generale Nunziante spensero le ultime resistenze degli insorti. Questa vittoria borbonica rappresentò effettivamente un duro colpo per la componente democratica delle Due Sicilie, che, però, sembrava avere numerose frecce al suo arco. Infatti, nel giugno dello stesso anno, era sorta a Napoli la “Grande Società dell’Unità Italiana”. Era, questa, una organizzazione settaria che nasceva col fermo intento di non ripetere gli errori commesse nel passato dalle altre organizzazioni similari. Infatti, a costituirla e ad aderirvi progressivamente non furono neofiti della politica, ma personalità dalla già navigata attività politica e settaria, personalità del calibro di Silvio Spaventa, Luigi Settembrini, Carlo Poerio, Nicola Nisco, tanto per citare alcuni dei nomi più noti. 

Il suo scopo, recita l’art. 2 del suo statuto, doveva essere quello di “liberare […] l’Italia dalla tirannide interna dei Principi e da ogni potenza straniera, riunirla e renderla forte ed indipendente”; raggiunto tale obiettivo si sarebbe poi pensato alla forma monarchica o repubblicana da dare al Paese. L’Unità Italiana non volle avere carattere elitario: ad eccezione di poche categorie, tutti i cittadini potevano essere ammessi. Soprattutto la condizione sociale non rappresentava una discriminante; l’affiliazione era aperta anche agli artigiani ed ai popolani, agli appartenenti, cioè, alle fasce più deboli della popolazione, nelle quali si pensava di penetrare per spingerle all’insurrezione

L’Unità Italiana, nella capitale del Regno delle Due Sicilie, si rese protagonista di numerosi episodi di sabotaggio e tentativi rivoltosi contro il Governo. A partire dal febbraio 1849 la società segreta si ramificò anche in Basilicata, primo presidente del circolo lucano, come recita il diploma di investitura, fu ovviamente il massimo esponente dell’estremismo politico della Basilicata: Emilio Maffei. 

Uno scambio epistolare dal quale emerge con forza un aspetto finalmente nuovo della mentalità dei rivoltosi meridionali: la rivolta, il cambiamento, non si affidavano più alle sole forze locali; non erano più ostruite da egoismi campanilistici e rivalità familiari. Piuttosto erano fortemente influenzate dagli accadimenti degli altri regni della penisola e d’Europa. Permeava, finalmente, nelle menti dei più illuminati lucani una cultura politica che guardava all’Italia come ad un territorio ormai prossimo all’Unificazione, dalle Alpi alla Sicilia. A seguito delle vicende accorse durante il biennio rivoluzionario 1848-49 in Basilicata, i Borbone avviarono una dura attività repressiva nei confronti dei loro oppositori; una vera e propria caccia al nemico, condotta dal famigerato giudice istruttore Giuliani, tale che nel luglio 1852 il numero degli imputati per reati politici in Basilicata raggiunse quota 1.116. La causa più importante, per il numero ed i nomi delle persone coinvolte, fu quella cosiddetta «potentina». Essa riguardò tutti coloro che erano stati implicati nelle citate vicende relative al Circolo Costituzionale Lucano, al Memorandum, al tentativo di instaurazione del Governo Provvisorio a Potenza. 

Non si determinò alcuna distinzione tra coloro che avevano impostato la loro politica in termini chiaramente sovversivi e coloro che, definiti moderati, impedirono, di fatto, che la Basilicata venisse risucchiata nel vortice rivoluzionario sviluppatosi in Calabria. Per tale metro di giudizio, tra coloro che scelsero di fuggire dalla Basilicata, prima che venissero spiccati i mandati di comparizione in tribunale, oltre ai politici radicali figurarono anche alcuni moderati, come Vincenzo D’Errico. L’avvocato di Palazzo riparò dapprima in Francia, poi a Torino, città nella quale morì nel 1855. 

Per coloro che, invece, si sottoposero eroicamente al verdetto della giustizia, le pene più dure furono inflitte, tra gli altri, ad Emilio Maffei, Rocco Brienza, Vincenzo De Leo, tutti condannati a 19 anni di carcere. Una settimana circa dopo la fine dell’estenuante “causa potentina”, conclusasi il 7 luglio 1852, un episodio rocambolesco determinò la scoperta di una ricca documentazione attestante la presenza della “Grande Società dell’Unità Italiana” in Basilicata. Si aprì un nuovo processo, con il coinvolgimento di individui insospettabili. La pena maggiore riguardò Emilio Maffei, capo della setta e già in carcere per quanto sopra detto. La definitiva sentenza del 22 marzo 1853 condannò, infatti, il patriota potentino «alla pena di morte col laccio sulle forche e col terzo grado di pubblico esempio nonché alla multa di ducati mille», pena che fu poi commutata nel carcere a vita e successivamente nell’esilio. 

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