La situazione della Calabria tra gli anni Trenta e gli anni Novanta del Settecento presenta un problema di ridefinizione dei ruoli delle classi dirigenti cittadine.
A cominciare dai capoluoghi, il notabilato si mostra incapace di reggere le tradizionali leve del potere e al tempo stesso preoccupato di conservare il monopolio della vita pubblica locale. A Cosenza, capitale della Calabria Citeriore, il patriziato è occupato in accesissime dispute sull’aggregazione di nuove famiglie al sedile dei nobili e a quello degli onorati e nella difesa dei tradizionali privilegi di ceto (la privativa sul governo e sulla ripartizione fiscale). Il popolo urbano e dei casali, invece, difende una microeconomia di autosussistenza e i suoi problemi riguardano principalmente il peso delle gabelle e il prezzo dei generi di consumo.
Nel 1762 scoppiano tumulti per la mancanza di biade: il popolo cosentino assalta i forni e i magazzini dei maggiori proprietari e negozianti (i baroni Giannuzzi Savelli, i De Martino, i Monaco, tutti esponenti del patriziato). Il 1764 è ancora annata di carestia. Nel frattempo, la vita intellettuale e la scienza giuridica prosperano in città: di fronte alla minaccia delle crisi alimentari e del pauperismo una frangia importante dell’élite urbana tenta di promuovere un sapere «utile al popolo», attraverso un programma accademico aperto tanto alle sessioni letterarie che alle dottrine agrarie.
Accanto all’Accademia Cosentina, a metà secolo ne è fondata una nuova, detta dei Pescatori Cratilidi, intesa a pro-muovere una riforma del diritto pubblico e della pubblica economia in cui si vorrebbe coinvolgere la classe diri-gente locale e regionale. Esponenti di spicco di questa società intellettuale sono impegnati nelle carriere burocratiche, come Salvatore Spiriti, giudice della Vicaria nel 1762, consigliere della Camera di Santa Chiara nel 1772, scrittore prolifico. L’accademia tenta di trasformarsi nel 1784 in Istituto di Agricoltura e Commercio, anche se il progetto non avrà seguito .
Altre città demaniali della Calabria, vere e proprie repubbliche aristocratiche, sono scosse nel corso del secolo da movimenti sociali, urbani e rurali.
A Reggio, nel 1792, la plebe tumultua contro l’abolizione dell’assise sui generi (ovvero il calmiere dei prezzi che il municipio fissava dopo aver appaltato il rifornimento dei generi ai negozianti), abolizione decretata dal governatore regio; mentre la municipalità, in mano a un’oligarchia guidata dal sindaco dei nobili, disputava col ceto civile sull’esclusiva abilitazione alle cariche e si scontrava con l’autorità dei rappresentanti regi sul rispetto dei privilegi cittadini.
Anche a Tropea il patriziato ha conservato un potere oligarchico, che tuttavia appare ormai minato dalle tensioni col popolo urbano degli artieri e dai rumori che si levano nel contado. Ripetutamente (nel 1722, e sempre più spesso nella seconda metà del secolo, fino al 1799) i contadini dei suoi 23 casali assediano la città e pongono le proprie condizioni su temi antichi: la ripartizione dei donativi regi, l’ingerenza dei percettori comunali, l’eccessivo aggravio, negli anni di carestia, dei censi dovuti ai proprietari cittadini.
Spinta dalla difficile congiuntura locale e chiamata a fronteggiare la crescente ingerenza degli apparati del governo centrale, la classe dirigente cittadina si sente investita di un’urgente responsabilità sui temi dell’ordine pubblico e del buon governo. Essa torna a riflettere sui propri ordinamenti, riscopre la tradizione classica e rinascimentale di un pensiero politico e giuridico incentrato sulla tutela delle libertà comunali e sull’unità morale delle componenti sociali.
I patriziati demaniali, in particolare, teorizzano una forma di repubblicanesimo interno alla monarchia, il cui fine ideale è consentire ai gruppi sociali, in città e nel contado, di convivere nella giustizia, nel libero esercizio dei reciproci diritti e doveri, sotto l’autonomo governo delle leggi e delle consuetudini locali . Nei centri infeudati questo programma politico dei ceti dirigenti si traduce per tutto il secolo in una rinegoziazione delle autonomie municipali con l’autorità feudale e in una messa in discussione dei diritti proibitivi dei baroni, denunciati come «soprusi» ai danni delle po-polazioni.
A Bisignano, Corigliano, Cirò, Castelvetere, Nicastro, Monteleone, Gerace, Terranova, Gioia, Scilla e in altri centri, le università, spesso indebitate, rette da un governo di notabili, strappano capitolazioni o muovono liti alle principali dinastie feudali della regione: i Sanseverino, i Saluzzo, i Carafa, gli Spinelli, i d’Aquino, i Pignatelli, i Grimaldi, i Ruffo .
FONTE: F. CAMPENNI', Patrizi, patrioti, patriarchi: l’oratoria municipale di Antonio Jerocades, in L'associazionismo politico nel Mezzogiorno di fine Settecento, a cura di A. Lerra, Manduria-Bari-Roma, Lacaita, 2018, pp. 439-441.