giovedì 19 marzo 2020

La Basilicata moderna. 34. Il periodo ferdinandeo (1750-1790)

Dei 128 luoghi abitati della Basilicata borbonica, soltanto 16 non erano più soggetti a giurisdizione feudale , che ancora a fine Settecento interessava l’86% della popolazione. Si trattava, dunque, di una realtà provinciale ancora molto lontana da quanto poteva riscontrarsi in altre province il cui frammentato sistema urbano, unito alla presenza di circa cinquanta famiglie nobili – tra le più potenti del regno – impedivano un esercizio del potere diverso dall’intricato intreccio di privilegi di cui la nobiltà godeva. 
In una società ancora connotata da un’ economia a scarsa circolarità e possibilità di sbocchi, in larga parte di pura sussistenza , emergevano comunque non poche eccezioni che davano un impulso decisivo all’economia locale; accanto all’esercizio di giurisdizioni feudali, ormai quasi del tutto d’ordine laico, quindi, rilevanti presenze di nobiltà provinciale, svolgevano peculiari attività redditizie: i Carelli di Picerno erano proprietari di numerosi immobili, oltre che impegnati nella trasformazione dei loro introiti in una fitta rete di prestiti ; il barone Tommaso Brancalassi di Episcopia forniva di legname (tagliato dai suoi boschi) l’apparato militare napoletano per la costruzione delle navi della flotta regia; Tommaso Mazzaccara, duca di Ripacandida, era proprietario di numerosi beni urbani e rurali, oltre che titolare, nell’area, di vari prelievi fiscali. Fra i deboli nuclei di borghesia terriera e delle professioni, singoli proprietari, erano impegnati nella gestione di consistenti estensioni terriere, di case, greggi, attività di affitti, appalti, arredamenti, nonché talora “nell’uso spregiudicato delle stesse leve dell’amministrazione pubblica ”. Tra i più noti fittavoli vi erano G. F. Miadonna (socio degli Addone di Potenza), i Santoro, i Corbo (fittuari dei Doria). I Lizzadri e i Picardi erano proprietari di case e palazzi. Ma ancora, i Balsamo di Tolve incassavano 926 ducati l’anno per l’affitto di alcune difese comunali; i Barresi-Luparuoli di Marsiconuovo vendevano, ogni anno, alla fiera di Viggiano, circa 60 rotoli di lana; a quella di Padula centinaia di capre, capretti, agnelli, «zimmeri», ricavando, inoltre, cospicui profitti dall’affitto di ampie estensioni di proprietà ecclesiastiche e numerose case. A Senise, Nicolò Fortunato teneva impegnati in commercio di grani 385 ducati, mentre il commerciante F. Cappellano 200 sopra «la potega» . 
Di natura quasi esclusivamente familiare e in genere destinate a soddisfare bisogni di prevalente ambito locale erano le attività secondarie come la lavorazione della lana, della canapa, del cotone e la concia delle pelli, soprattutto a Montemurro e Lauria; ma anche lavori in ferro, specie ad Avigliano, Ruoti, Lagonegro, Spinoso, Sarconi; nonché lavori in terraglia, tintorie, cappelli, tappezzerie, stoffe, specie a Ferrandina. 
Tutt’altro che omogenea dunque, si presentava la società lucana, costituita da una parte, da braccianti, contadini poveri, pastori, artigiani, esili nuclei di massari di piccola e media borghesia professionale, comunque legata alla terra; dall’altra da piccoli, ma potenti gruppi di nobili benestanti, molti dei quali per gran parte dell’anno risiedevano nella capitale del regno, in case di loro proprietà, in genere utilizzate anche per consentire ai propri figli di continuare gli studi. 
A fare da sfondo ad un panorama sociale di tale irregolarità vi era una presenza cospicua del ceto ecclesiastico, che anziché dedicarsi alla cura delle anime, al soccorso dei poveri, all’ausilio degli svantaggiati, si organizzava in un’intricata rete di rapporti economici con l’appellativo di “chiese ricettizie”. Tale quadro di istituzione ecclesiastica, per le modalità di gestione del suo patrimonio, non si differenziava da un’azienda; non solo, «dava indipendenza al clero paesano, lo rendeva esperto più in faccende relative a censi e decime che in questioni di culto divino», ma gli conferiva anche «un senso di immunità nella vita morale e civile» . Il relativo clero, sinonimo nel Mezzogiorno e in Basilicata di «clero litigioso e attaccabrighe, di clero geloso della propria “roba”, poco incline all’obbedienza ve
rso il vescovo e che calcolava gli stessi obblighi religiosi come una rendita» , aveva come «obiettivo prevalente la crescita e la possibile fruizione di beni e rendite della massa comune e con essa dell’entità della propria quota capitolare annuale, peraltro con l’intento di poterla perpetuare per i propri familiari» .
In una società connotata da tale rigidità di sistema, dunque, non c’era posto nella gestione del potere locale, se non per le stesse e poche famiglie che nelle peculiari articolazioni, laiche ed ecclesiastiche, nelle Università e nei capitoli “clerali ricettizi”, continuavano ad occupare posizioni di prestigio ostacolando la circolarità delle cariche e quindi la possibilità di ascesa di quanti rimanevano fuori dal gruppo delle famiglie titolari di un diritto elettivo o estranei alla volontà dei Parlamenti . 
Ma se di immobilismo si poteva connotare la gestione del potere, da parte di chi subiva i soprusi, vi era tutt’altro che un sentimento d’accettazione: non solo le insurrezioni incominciavano ad organizzarsi in irrefrenabili manifestazioni di popolo ma si condivideva la consapevolezza della necessità di un intervento di più ampia portata, in grado di destabilizzare in maniera irreversibile, l’intero sistema. Così, l’associazionismo politico, con la sensibilizzazione da parte degli ambienti più illuminati del regno si tradusse presto in cospirazione dove, a fare da protagonisti, vi erano i nuovi ideali di libertà e giustizia, il cui successo veniva filtrato attraverso i racconti delle operazioni d’Oltralpe. La Basilicata, infatti, non era rimasta fuori dal grande dibattito avviato dalla cultura illuminista napoletana e anche nei piccoli nuclei massonico-giacobini lucani si cominciava a discutere della necessaria modernizzazione delle strutture politico-istituzionali del Regno e soprattutto dell’eversione della feudalità. Il progetto della cultura politica riformatrice portato avanti si poteva così riassumere: «la terra a chi la sapesse far prosperare, il potere a chi ne sapesse saggiamente amministrare gli interessi; un’amministrazione moderna» ed efficiente che garantisse al Regno una posizione più dignitosa nel quadro delle grandi potenze . 
Mentre a Napoli i primi nuclei massonico-giacobini erano riscontrabili nell’Accademia di chimica di Annibale Giordano e Carlo Lauberg, nell’eloquenza dell’abate Antonio Jerocades – il quale, reduce da Marsiglia, teneva «discorsi continui dei progressi dei Francesi, di rivoluzione e degli abusi del governo di Napoli»  – in Basilicata, sorgeva di converso, la Loggia dei Liberi Muratori di Avigliano, che accoglieva gli esponenti più attivi e progressisti (Girolamo Gagliardi, Girolamo e Michelangelo Vaccaro, Carlo e Giulio Corbo, Vincenzo Masi, Andrea Verrastro, i Palomba) e dove si ritrovavano anche esponenti di più piccole logge massoniche lucane come il sacerdote Francesco Antonio Pomarici di Anzi, Vincenzo Verga e Vincenzo Sarli di Abriola (affiliato alla massoneria del cognato Nicola Sassano della Loggia dei Liberi Muratori di Trivigno), Deodato Siniscalchi di Lavello . 

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