giovedì 13 febbraio 2020

Il Mezzogiorno moderno. 8b. L'antico nel Mezzogiorno napoleonico

Il fallimento dell’esperienza rivoluzionaria del 1799 determinò una sorta di “silenzio mediatico” da parte dei gruppi politici scampati alla furia della Restaurazione; nel contempo, ciò significò anche un ripensamento nell’uso di queste strategie, che passarono da una fase scritta e, per così dire, ancora teorica ad una fase più consapevole, d’ordine pratico. Infatti, tra i classici, furono studiati e citati quelli ritenuti più adatti ad una formazione, per così dire, scientifico-morale, in senso pedagogico. Cifre, queste, tipiche della nuova declinazione dell’antico in età napoleonica. Infatti, quello che potrebbe essere definito “rinascimento napoleonico” si differenziò notevolmente, per metodo e scopi, dall’antiquaria napoletana del tardo XVIII secolo, pur presupponendola ampiamente, nell’alveo, anche in campo culturale, di una continuità generazionale. 

Un trait d’union rilevabile tra l’antiquaria tardoilluminista, protesa al riconoscimento delle antiche radici italiche e la nuova scienza dell’antico ripresa soprattutto nel Decennio è riscontrabile proprio in queste comuni matrici di cultura politica. Usare l’antico, più che commentarlo: servirsi degli antichi scrittori per ritrovare nel passato le radici di un progetto di cultura ed azione volto a rinnovare, finalmente, il Mezzogiorno d’Italia ma, come in campo amministrativo, partendo dagli anelli di base, le province del Regno, con il loro tesoro di cultura.

La trasformazione dei modi e delle forme dell’uso dell’antico, già seriamente modificata, dunque, nel corso del 1799, nel Decennio investì linguaggi e pratiche della comunicazione, a livello politico, letterario, artistico, in un complesso, spesso contraddittorio rapporto tra centralismo ‘dirigista’ napoleonico ed attuazioni del linguaggio comunicativo napoleonico, quasi costretto, nella pratica, ad adattarsi non solo al preesistente sostrato politico-cul¬tu¬rale, ma anche, e soprattutto, a ripensare se stesso in funzione di una riformulazione modernizzatrice e professionalizzante. Un progetto, dunque, di attivo e sostanziale coinvolgimento di intelligencja e risorse socio-imprendi-toriali nella costruzione del consenso e di classi altamente professionalizzate. Proprio i Murat, partiti da un’idea di sovranità fondata essenzialmente, secondo il modello delle corti romane, sulla rappresentazione statuaria, a Napoli adottassero un’i¬co¬nografia ancora tendente alla riformulazione del¬l’an¬ti¬co, ma essenzialmente fondata sulla rappresentazione artistica. In quest’alveo, ispirandosi al modello di collezionismo di Giuseppina Beauharnais, Carolina Murat tese a collezionare e commissionare pezzi, come gioielli e gemme, rimontanti ad una simbolica del potere imperiale fondamentalmente incentrata sui simboli più antichi del Regno di Napoli, quali, ad esempio, Partenope o, in campo regale, l’iconografia della Afrodite-Aspasia rimontante essenzialmente alla Venere-Aspasia ispirata alla Afrodite Sosandra di Kalamis (all’epoca ritenuta una raffigurazione di Vesta). In tali raffigurazioni, denotanti il modello della sovrana-madre e moglie saggia, probabilmente in netto contrasto con l’immagine di Maria Carolina qual era stata costruita dalla propaganda antiborbonica (si pensi, in tal senso, agli scritti di Lomonaco e Cuoco di quegli anni), Carolina Murat fu aiutata dall’entourage napoletano.

Naturalmente, queste direttive napoletane, sia pure esercitate in autonomia, rispondevano a quelle napoleoniche. Non è qui il caso di riprendere la vexata quaestio dell’uso dell’antico nella corte di Napoleone, quanto, piuttosto, di capire cosa l’imperatore volesse propugnare con il recupero delle letterature classiche nel suo sistema imperiale. Un atteggiamento pragmatico, quello di Napoleone, che escludeva del tutto letture erudite, incoraggiamento di studi classici non legati alla praticità, all’azione politica ed all’educazione tecnica: del resto, il gusto di Napoleone per l’antichità si limitava a Plutarco, che gli aveva messo innanzi, per così dire, il modello di Cesare e di Alessandro, ossia quello di un potere monarchico di fatto, ma personalistico. Sicché era naturale come l’imperatore non amasse, ad esempio, uno storico come Tacito, che aveva messo in luce il destino dell’impero come degenerazione dell’antica repubblica romana. Un modello di governante che recuperava l’antico in senso pragmatico, offrendo un’immagine di sé come statista, pensatore, legislatore, ritornando, di fatto, non tanto e non solo alla concezione imperiale romana quanto, in tralice, a quella del sovrano delle origini, ben esemplificato, ad esempio, da figure come Numa Pompilio. Proprio di questo sovrano Napoleone aveva letto in Plutarco, finendo, probabilmente, con l’imporre un’immagine non dissimile dal sovrano-legislatore. E questo spiegherebbe, altresì, la diffusione, anche a Napoli, nel difficile contesto del 1814, del romanzo pastorale Numa Pompilius, second roi de Rome di Jean Pierre Claris de Florian. Si trattava di una trasparente allegoria del buon re, modellata dal Florian in base al Télémaque di Fénélon e diretta a Luigi XVI: tuttavia, l’immagine di Numa ben poteva essere recuperata sia da Napoleone che, in effetti, da quel Murat che aveva ambito a ritagliarsi uno spazio sempre più autonomo nel sistema imperiale napoleonico e che stava agendo per sopravvivere ad esso.

La storia imperiale, come detto, recepita in età napoleonica come esempio amministrativo e, in tale alveo, Tacito visto non tanto come storico, quanto come personaggio della sua stessa storia, attore prima che scrittore e, dunque, esempio di cultura politica da tramandare, al di là delle manchevolezze rilevate da Napoleone stesso nel suo metodo. Sicché non stupisce, anche a Napoli, l’ampio successo dell’Agricola, riguardante un onesto servitore della monarchia, interpretato da Tacito - e dagli scrittori napoleonici - come vittima della tirannide.

Un passaggio, dunque, a Napoli, quello dall’eroe dell’azione del periodo “giacobino” all’eroe “funzionario” del pieno periodo napoleonico fortemente mediato dalla cultura francese che, in questo, riuscì ad imporre un modello diverso dal patriota d’azione. Si passò, come detto, dall’esaltazione del plutarchismo eroico di matrice democratica, rappresentato anche, e soprattutto, dal teatro francese (Voltaire, Chénier) alle “considerazioni” sui testi che rappresentavano figure certamente meno eroiche, ma fortemente connotate da cultura amministrativa, di onesti funzionari e sovrani detentori del diritto umano e divino.







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