Tra il 13 e il 15 giugno, riuscendo ad intuire la manovra ideata dai patrioti, ovvero attaccare simultaneamente l’esercito sanfedista frontalmente e alle spalle, accerchiandolo e non lasciandogli lo spazio e il tempo per riorganizzarsi, fece sì che i componenti del governo si rifugiassero nei castelli, da dove assistettero impotenti alle violenze e agli episodi di furia cieca che si posero in essere fino al 19 giugno.
La lungimiranza del Ruffo risiedeva anche nell’equiparare la rovina dei traditori alla possibilità di ricostruire il consenso intorno alla figura del sovrano e della corte intera, poiché alcun vantaggio sarebbe derivato da una drastica azione punitiva senza appelli. Nonostante egli fosse a conoscenza del pensiero della Corona riguardo al trattamento da riservare ai ribelli, il Ruffo si prodigava in quella stessa missiva ad insistere sul valore strategico di «Editti, di Pattuglie, di Prediche», ai fini del ripristino dell’ordine nella Capitale, ovviamente, in contrapposizione con quanto auspicato dalla regina Maria Carolina. I giacobini dovettero sottoscrivere il documento di Capitolazione, a seguito delle trattative con Antonio Micheroux, incaricato dal Ruffo di occuparsi della parte preliminare dell’accordo.

Così, non potendo agire in concomitanza con la pesante sconfitta subita, sostanziatasi con la nomina a Luogotenente e capitano generale, egli nel corso delle settimane, privato di qualsiasi possibilità di iniziativa politica, fece in modo di scomparire dietro le quinte di una restaurazione al culmine di una inaudita ferocia.
Si concludeva, così, l’impresa del cardinale Ruffo.
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